“Fragmentation in Ancient Greek Drama” a cura di Franco Montanari, Anna A. Lamari e Anna Novokhatko

Prof. Franco Montanari, Lei ha curato con Anna A. Lamari e Anna Novokhatko l’edizione del libro Fragmentation in Ancient Greek Drama edito da De Gruyter: quale approccio alla letteratura greca frammentaria caratterizza la ricerca filologica contemporanea?
Fragmentation in Ancient Greek Drama, Franco Montanari, Anna A. Lamari, Anna NovokhatkoBisogna tenere presente che una parte molto grande della Letteratura Greca antica ci è pervenuta in frammenti, perché i testi originali sono andati perduti. Questo riguarda almeno tre quarti delle opere letterarie greche antiche e qualcosa come il 90% della produzione teatrale. Questi frammenti, tranne che per quella piccola parte restituiti da ritrovamenti di papiri (con vistose eccezioni per autori come Bacchilide, Menandro, la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele e qualcun altro), provengono da quella che tecnicamente si chiama “tradizione indiretta”, cioè sono citazioni all’interno di altri testi, estrapolati e riuniti dagli studiosi moderni in raccolte famose, come quella degli storici e dei filosofi greci, e anche quelli (di grandissima importanza ed ai quali qui facciamo soprattutto riferimento) della commedia e della tragedia, cioè delle opere drammatiche tragiche e comiche (vale a dire quanto ci rimane del grandioso fenomeno del teatro greco antico, che ancora oggi viene così frequentemente riproposto sulle scene). Ecco, bisogna essere consapevoli che la ricerca filologica contemporanea da una parte può lavorare su un terreno ben dissodato e preparato dalle raccolte, ormai tecnicamente e filologicamente molto avanzate, dei frammenti delle opere teatrali perdute e da un progresso molto importante negli studi su tali opere frammentarie, e dall’altra avverte che sia ormai venuta l’epoca di un salto di qualità nella riflessione e nello studio della ricostruzione appunto delle opere perdute. Questo è un dibattito in corso, molto vivace e spesso acceso. Il dilemma è se si può e si deve tentare una ricostruzione delle opere perdute per mezzo dell’uso e dell’analisi dei frammenti oppure no; vale a dire: quanto si può azzardare nel tentativo di ricostruzione di un’opera perduta fondandosi sui frammenti? È chiaro che dipende da quanti e come sono tali frammenti, ma c’è anche una questione metodologica di fondo. Oggi si arriva a contrapporre posizioni estreme: è lecito e si può avventurarsi in una ricostruzione praticamente totale di un’opera perduta versus non si deve azzardare nulla perché è tutto solo frutto di fantasia e privo di fondamento. È chiaro che esistono diverse posizioni intermedie, sulle quali la ricerca può esprimersi e procedere e sulle quali è saggio procedere. Questo volume ne è un esempio.

Quale uso facevano gli antichi drammaturghi dei frammenti di altre opere?
Mi permetto di dire che si tratta di una domanda forse un po’ malposta. Per gli antichi, quelli che per noi sono frammenti di opere perdute, ovviamente non esistevano come tali: per restare nell’ambito della letteratura teatrale, essi erano in realtà ricordi di opere viste a teatro e conosciute principalmente durante la loro messa in scena, e quindi potevano essere usati come citazioni, riferimenti, allusioni per gli scopi più diversi all’interno della loro stessa opera. Su questo si apre un problema enorme e irresolubile, che è sempre vivo negli studi sul dramma antico: scoprire i riferimenti (allusioni, citazioni) a opere perdute nelle poche opere conservate (pochissime invero rispetto all’intera produzione) è veramente una specie di caccia al tesoro, che dà luogo a infiniti dibattiti.

Quali possibilità interpretative offrono i frammenti?
C’è comunque un aspetto che non può essere trascurato e sul valore del quale non ci sono dubbi: è quello linguistico, e anche stilistico. Ma attenzione a una insidia: spesso capita di sentire, anche da studiosi affermati e autorevoli, un’affermazione come “questa parola o questo uso stilistico non c’è nella tragedia o nella commedia greca antica”. Questo tipo di affermazione è quanto mai azzardato e con un grosso rischio di essere falso (e magari smentito da una nuova scoperta). È facile capire perché bisogna astenersi da queste affermazioni: conosciamo una parte così minoritaria di quello che fu prodotto, che è davvero sconsigliabile lanciarsi in affermazioni assolute di questo tipo. Comunque, l’aspetto linguistico e stilistico è probabilmente quello nel quale la testimonianza dei frammenti delle opere drammatiche perdute è più sicura e attendibile. Tutt’altra questione, come già dicevamo prima, sono le informazioni fornite dai frammenti sui contenuti delle opere perdute: su questo piano esiste un problema metodologico, che già abbiamo evocato prima.

Quali fasi caratterizzavano la produzione e ricezione di frammenti di opere?
È un problema che ho solo toccato nella prima risposta e sul quale ora devo tornare più diffusamente e chiaramente. Non bisogna mai dimenticare, quando prendiamo in mano un’autorevole e “classica” raccolta di frammenti di opere perdute (per esempio della commedia e della tragedia: sono molti e ponderosi volumi!), che quello che noi trattiamo e studiamo come “frammento” non è nato come tale, bensì come citazione in qualche tipo di opera antica, citazione addotta con i più diversi scopi: esegetico, come aiuto all’interpretazione di un testo; erudito, come aggiunta di un elemento additivo al discorso che si sta sviluppando; ideologico, per sostenere una linea di pensiero, magari anche con distorsioni, consapevoli o in buona fede. Le opere antiche sono più o meno ricche di citazioni da altre opere (la tradizione indiretta di cui si diceva): nel complesso si tratta di una mole impressionante di citazioni che, una volta estratte dal contesto e “trattate” ad hoc, diventano per noi un “frammento” di opera perduta e vivono una vita del tutto diversa nelle mani dei filologi. Ma trascurare la loro origine come citazioni è molto pericoloso dal punto di vista esegetico e bisogna fare molta attenzione a come un “frammento” viene trattato dagli studiosi. Torneremo su questo aspetto a proposito proprio di Ateneo e della sua opera che ci è pervenuta. Per completezza però dobbiamo aggiungere che esistono anche frammenti di tradizione diretta, vale a dire nati come tali e non come citazioni da tradizione indiretta. Sono quelli rappresentati dai frammenti papiracei, che ci mettono di fronte a un tipo di frammentarietà “materiale”/”accidentale” (legata alla casualità del ritrovamento dei papiri negli scavi archeologici), concettualmente diversa dalla frammentarietà “scelta” della citazione, opera volontaria di un autore. Ho menzionato prima come “vistose eccezioni” alcuni grandi autori le cui opere ci sono note solo da papiri di grandi dimensioni e quindi un po’ diverse da quello a cui pensiamo quando parliamo di “frammento”, ma a parte questi ci sono numerosi frammenti di autori noti o anche attribuiti congetturalmente a autori noti, restituiti da frammenti di papiri. Anche loro fanno parte dell’argomento e del problema di cui ci stiamo occupando, per quanto concettualmente diversi da quelli noti da tradizione indiretta.

Ateneo di Naucrati rappresenta una fonte formidabile di frammenti: quale comprensione ci offre i Deipnosofisti della pratica di riuso dei testi nell’antichità?
Ateneo di Naucrati (città dell’antico Egitto, a circa 80 km a sud-est di Alessandria) scrisse I Deipnosofisti (cioè I sapienti a banchetto). L’opera pervenuta si estende per 15 libri, ma è una riduzione del testo originale, che verosimilmente aveva dimensioni doppie: le lacune dei primi tre libri sono in parte colmate da un’epitome di epoca bizantina. Ateneo inserisce nella sua trattazione innumerevoli notizie letterarie, filosofiche, grammaticali, antiquarie nella cornice di una dotta conversazione in contesto simposiale, ricorrendo a un espediente ormai assurto a forma letteraria (il simposio come occasione di discussione dotta). Nei primi undici libri l’erudizione dell’autore si concentra sul tema del pasto nella cultura greca, di cui vengono sviscerati sia gli aspetti storico-culturali sia quelli materiali e più tipicamente gastronomici. Ogni particolare (le circostanze, le procedure, i cibi) fornisce all’autore lo spunto per lanciare i suoi personaggi in documentate disquisizioni su svariati argomenti, che manifestano anzitutto una minuziosa e scrupolosa cura terminologica (ad esempio nei libri VI-VIII, dedicati ai pesci) e la disinvolta capacità di citare gli autori classici (compresi Platone e Aristotele) come auctoritates ma senza complessi d’inferiorità né eccessiva venerazione. I libri XII e XIII affrontano un tema più consono all’ambientazione simposiale, cioè quello del piacere, immediatamente collegato a quello dell’èros: nel secondo dei due libri trova ampio spazio un esame della lirica greca d’amore. Il libro XIV concerne le forme d’intrattenimento usuali nei banchetti, dalle scenette buffonesche alle esecuzioni musicali (interessante la digressione sugli strumenti), alla danza; il libro conclusivo si sofferma sugli arredi simposiali, per poi tornare sulle forme poetiche connesse con i banchetti.

Oltre ad essere una miniera di informazioni su una varietà disparata di argomenti (dagli oggetti d’uso quotidiano alle pratiche connesse con il banchetto, dalla lirica simposiale alla filosofia), I Deipnosofisti sono per noi una fonte insostituibile per la grande quantità di citazioni da opere dell’antichità, spesso perdute: sono citati oltre mille autori e titoli di opere e più di 10.000 versi, con una presenza massiccia della Commedia di Mezzo e Nuova, dove situazioni e termini della vita quotidiana avevano ampio spazio. Ateneo è forse il caso più significativo ed emblematico di come un autore possa conservarci una grande quantità di “frammenti”, che per lui erano appunto “citazioni” adatte e pertinenti alla sua esposizione. Se si pensa che quello che abbiamo non è il testo originale, bensì una riduzione (il termine tecnico è “epitome”), possiamo farci un’idea dell’importanza e del peso del fenomeno nella conservazione della letteratura greca antica. Gli autori e le opere sono molti e diversi…

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