
Com’è noto, con l’esclusione del Regno di Sardegna, gli Stati italiani escono dalla Restaurazione come Stati indipendenti, ma posti nella sfera asburgica. Le loro armate dovevano dunque servire soprattutto ad attività di polizia interna e a reggere l’urto di eventuali conflitti in attesa del sostegno da Vienna. Ecco perché i loro numeri erano alquanto contenuti e consentivano di riempire le caserme con professionisti volontari, avanzi di galera e, in qualche caso, con mercenari stranieri. In Piemonte, la situazione era appunto un po’ diversa, ma i Savoia seguitarono comunque a preferire un esercito largamente semiprofessionale “alla francese”. E ciò tanto più dopo che le riforme carloalbertine avevano mostrato i loro limiti nel Quarantotto, inducendo il governo a un’organica opera di ripristino del carattere professionistico dell’Armata sarda culminato con la legge sul reclutamento del 1853 firmata dal generale La Marmora. La coscrizione dunque esisteva, ma il contingente annuo era modesto e chi aveva estratto un “cattivo numero” al sorteggio poteva sempre evitare di servire scambiando il suo numero con un volontario disposto a partire, trovando e pagando un sostituto (surrogazione) o versando una cifra più alta affinché fossero i reggimenti a farsi carico di individuarne uno (affrancazione), perlopiù fra i soldati già in servizio e “costretti” a proseguire da volontari professionisti oltre la fine della ferma obbligatoria dalla difficoltà di rientrare nel mondo civile dopo tanti anni in caserma. In questo modo, di fatto la leva ad altro quasi non serviva che a garantire un numero annuo relativamente piccolo di soldati e a fondare giuridicamente la richiesta dei contributi necessari a consentire la permanenza di una parte cospicua della truppa come raffermati. Del resto, questo sistema funzionava non troppo diversamente anche in diversi altri paesi europei e per di più accontentava pressoché tutti: la Corona, che voleva un esercito sufficientemente forte per – come recitava il regolamento di disciplina del 1859 – “far guerra ovunque venga dal Sovrano ordinato”; il governo, che così riduceva un po’ le già ingenti spese militari e il rischio di arruolare soggetti politicizzati, magari nostalgici della Rivoluzione o repubblicani; i vertici militari, che preferivano di gran lunga una bassa forza già addestrata e avvezza alla vita di caserma rispetto a reclute da formare ex novo; i ceti medio-alti (non solo le élite, come a lungo si è creduto), che vedevano l’arruolamento come un flagello per le carriere e i fragili equilibri economici familiari, e che così potevano evitarlo delegando ad altri meno abbienti il servizio; infine, proprio i ceti inferiori, che trovavano così nella carriera militare un percorso professionale certo duro e potenzialmente rischioso, ma più spesso routinario e capace di offrire quanto molti non avrebbero potuto aspirare con il loro scarsissimo capitale umano e sociale.
Fra 1859 e 1861, l’improvvisa, inattesa e tumultuosa Unità pose dunque il problema di creare un esercito nazionale e più numeroso a partire da una situazione del genere, oltre che dalle contingenti vicende della guerra d’indipendenza, dai delicati equilibri internazionali di quella fase, dalle annessioni, dalla vittoriosa quanto controversa epopea dell’Esercito meridionale di Garibaldi, nonché dall’esplodere del brigantaggio. Di nuovo, però, il bisogno governativo di “nazionalizzare” la guerra e i suoi esiti agli occhi delle potenze straniere senza armare potenziali nemici interni; la necessità dell’élite militare di avere uomini affidabili e pronti alle sfide già all’orizzonte; il rapido profilarsi dell’emergenza brigantaggio; qualche pregiudizio antimeridionale; l’idiosincrasia per i volontari contrapposta al rispetto per i professionisti delle armi, ancorché ex-nemici; la volontà di non alienarsi le simpatie dei ceti medio-alti delle nuove provincie e le sempre decisive esigenze di economia trovarono una quadra accettabile un po’ per tutti nell’adozione – e poi nella progressiva estensione – di una coscrizione estremamente selettiva come quella già in vigore in Piemonte. Provocatoriamente ma non troppo, si potrebbe dire che la coscrizione d’impronta lamarmoriana servì più per escludere che per arruolare, ampliando contingente e forza bilanciata meno di quanto avrebbero imposto gli standard internazionali, ritardando l’estensione della leva “alla piemontese” nel Mezzogiorno e ammantando di nazionale un esercito certo più numeroso e con uomini da tutto il neonato regno, ma che rimaneva ancora prevalentemente piemontese/piemontesizzato nel suo corpo ufficiali, professionale nel suo prediligere i raffermati e nell’arruolare prima di tutto gli ex soldati degli antichi Stati (a loro volta, come detto, perlopiù uomini di lunga ferma), dinastico e monarchico nel suo marginalizzare o escludere quegli individui ritenuti troppo politicizzati, a cominciare dai volontari in camicia rossa. Col tempo la situazione si andò ovviamente modificando. Ma, per un decennio e almeno sino alle riforme Ricotti degli anni Settanta, l’Esercito italiano fu un fulgido esempio del collasso della teorica dicotomia fra esercito professionale e di leva, della circolarità delle esperienze di coscritto e volontario, e di come proprio gli obblighi di leva dal 1863 vigenti “Dall’Alpi al Lilibeo” erano l’architrave sulla quale si fondava un’armata semiprofessionale e sostanzialmente dinastica, non troppo diversa dalla sua matrice sabauda e da un modo preunitario di concepire la coscrizione.
In che modo la leva ha contribuito, all’indomani dell’Unità d’Italia, alla formazione della coscienza nazionale?
In verità, questa era la domanda dalla quale l’intera ricerca era partita, prima che l’andare avanti nel lavoro mi facesse realizzare appieno quanto centrale fosse la leva, e in generale il militare, nella vicenda complessiva dell’Italia otto e primonovecentesca. D’altronde, per chi come me si era precedentemente occupato di Cittadini senza nazione e di “giochi identitari” nel XIX secolo, la curiosità di verificare la fondatezza del noto luogo comune “Esercito scuola della nazione” era non solo forte, ma ampiamente giustificata dal dibattito ancora acceso fra gli illustri studiosi che sostengono la centralità dell’esercito e del servizio militare nel “fare gli italiani” e i non meno numerosi e illustri colleghi che, al contrario, hanno fortemente ridimensionato o negato del tutto questo contributo.
In questo labirinto di letture diverse, Fra servitù e servizio si colloca in una posizione intermedia, ma non per questo priva di una forte proposta interpretativa fondata su una pluralità di prospettive che solo fonti molto diverse possono aprire. Il ricostruire assieme normative sul reclutamento, dibattito pubblico e parlamentare, regolamenti disciplinari e vita quotidiana in caserma non solo attraverso riviste militari, relazioni ufficiali e documenti della Guerra, ma non di meno attraverso la documentazione di altri ministeri ed enti, la memorialistica e la stampa civile, la produzione artistico-letteraria e visuale, fa infatti immediatamente comprendere quanto teoria e prassi, discorso ufficiale e mentalità diffuse, statistiche e percezioni possano differire. Ecco perché una risposta univoca e chiara a questa domanda è difficile da dare, direi azzardato se prima non ci si accorda su cosa si intenda con “coscienza nazionale” e sull’opportunità di dare una sola risposta con riferimento all’intero periodo liberale.
Come peraltro altri prima di me avevano già suggerito, la mia ricerca mostra infatti il mutare degli atteggiamenti dei vertici militari nel corso del tempo, un mutare che vede nel periodo precedente le riforme ricottiane un sostanziale quanto esplicito disinteresse della Guerra per la funzione nazionalizzante delle forze armate. Del resto, stiamo parlando di quell’esercito di semiprofessionisti tratteggiato poc’anzi, e quindi la cosa non dovrebbe stupire anche in presenza di una pomposa retorica in senso contrario. Con l’avvento di Ricotti, la scossa provocata dalla Comune parigina e il relativo allargamento del bacino sociale cui attingeva l’Esercito qualcosa – almeno nelle intenzioni del Ministro e sulla carta – cambiò. Il regolamento di disciplina del 1872 rappresentò in questo senso una svolta importante. Il riordino delle scuole reggimentali e l’elezione dell’alfabetismo a requisito per fruire del congedo anticipato dettero senza dubbio un impulso alla frequenza dei corsi organizzati da compagnie e reggimenti. Ancora, l’idea di un ufficiale quadro della nazione si fece progressivamente strada nell’immagine idealtipica della spallina italiana. Tuttavia, questo afflato sembrò disperdersi nelle norme successive, con la chiusura de facto delle scuole reggimentali, il congedo anticipato concesso anche agli analfabeti e infine un regolamento di disciplina del 1907 che pareva ispirato a una concezione della professione di ufficiale molto più autoreferenziale e spiccatamente tecnico-militare, per certi versi opposta alla società civile più che integrata nella nazione.
Fin qui si parla però per l’appunto di norme e di indirizzi ministeriali. Sbirciare nel chiuso delle caserme e dell’istruzione imposta alle reclute attraverso i materiali didattici, le memorie e le discussioni dei protagonisti lascia un’impressione alquanto diversa. Non certo priva di significative differenze nel corso dei decenni, ma nel complesso più vicina a poter fornire una risposta articolata ma unica alla domanda sul ruolo della naja nel “fare gli italiani” fra Unità e Prima guerra mondiale.
Il servizio militare incivilì le rozze reclute giunte ai corpi spesso refrattarie all’acqua e sapone, terrorizzate dalla medicina, ignare di come andassero fatti i bisogni e abituate a risolvere le dispute più banali con la violenza? Assolutamente sì. Certo, soprattutto finché l’Esercito restò di fatto una piccola armata semiprofessionale, la cosa ebbe ricadute minime sul paese. E anche in seguito si parlava pur sempre di una parte assai limitata della popolazione. Tuttavia, non bisogna scordare che fu durante le operazioni di leva e poi in caserma che migliaia di giovani furono visitati da un medico per la prima volta in vita loro, furono vaccinati, dovettero imparare un minimo di norme igieniche e un contegno quanto meno adeguato a evitare punizioni e corti marziali.
Il servizio militare dette un qualche contributo all’alfabetizzazione del paese? Senza dubbio sì, anche se con impatto assai diverso fra anni Sessanta e Grande guerra e nel complesso meno di quanto le autorità militari e le voci a loro legate vantassero. E ciò a causa della marginalità delle scuole di lettura e scrittura nel piano formativo per la truppa, di frequenze saltuarie, di organizzazioni e mezzi didattici inadeguati, di esami troppo facili e di insegnanti spesso ignoranti e svogliati. Ciò al netto delle non poche fasi troppo concitate perché l’esercito potesse ragionevolmente distogliere uomini e risorse da missioni più urgenti come la campagna contro il brigantaggio, la guerra del 1866, le periodiche fasi di tensione sociale, le spedizioni coloniali, la Libia e la mobilitazione del 1914.
La leva portò migliaia di italiani a contatto con quello Stato a cui molti, soprattutto nei primi decenni postunitari, stentavano a dare concretezza nella loro esperienza di giovani battezzati in Chiesa, non scolarizzati e a stento consapevoli del loro cognome e della loro età? Anche qui la risposta è tendenzialmente sì, seppur nella consapevolezza che le differenze territoriali qui contavano particolarmente e che questo incontro con lo Stato poteva essere percepito più come uno scontro che come un momento di positiva e serena familiarizzazione con le istituzioni regie.
Insomma, basta tutto questo per dire che l’Esercito ha “fatto gli italiani” e che li ha davvero voluti fare? Come dicevo prima, dipende da cosa si voglia intendere con “coscienza nazionale”. A mio avviso, categorie già discusse e discutibili come “disciplinamento”, “modernizzazione” e “incivilimento” non possono essere fatte coincidere con “nazionalizzazione”, a meno di non voler ammettere che la diffusione di alcune pratiche di vivere civile e di medicalizzazione bastino a trasformare – per riecheggiare un classico – “contadini” in “italiani”. Tanto meno una così malferma e spesso provvisoria acquisizione dei rudimenti della lingua italiana può rappresentare da sé un’opera di massiccia e durevole nazionalizzazione. Del resto, e questo mi sembra un punto qualificante per quanto né strano né difforme da quanto accadeva altrove nel mondo e nella sfera civile italiana, a ben vedere l’universo militare non ha mai posto la nazionalizzazione delle masse al vertice della sua agenda, nemmeno al tempo di Ricotti.
Non lo ha fatto la Guerra, che per l’appunto manteneva sempre ferma la complementarietà e la funzione ancillare dell’alfabetizzazione rispetto alle istruzioni tecnico-militari e al disciplinamento. Senza dimenticare quanto già sapevamo sulla in realtà limitata circolazione dei corpi sul territorio nazionale e sulla loro composizione pluriregionale, un sistema qui confermato ma che lasciava ampi margini perché gli stessi si articolassero al proprio interno in gruppi e sottogruppi fondati su affinità campanilistiche e linguistiche tali da non rendere necessaria un’integrazione peraltro di rado sollecitata dai comandanti e spesso commentata con rassegnazione mista a indifferenza persino da chi faceva a sua volta autocritica per il regionalismo imperante fra gli ufficiali.
Non lo hanno fatto i comandanti di corpo, cui era significativamente delegata l’organizzazione e la scelta del materiale didattico al pari di quanto accadeva nel mondo civile per le trascurate scuole primarie, e che preferivano affidare questo compito a uomini ritenuti militarmente inutili indipendentemente dalla loro preparazione e dal potenziale profilo ideologico (sottufficiali, ufficiali mediocri, chierici, volontari di un anno, etc.). Ciò per non dire del fatto che anche l’organizzazione interna delle compagnie e l’assegnazione informale di un “anziano” rispondevano primariamente a criteri di affinità linguistica utili a velocizzare la formazione militare delle reclute ben più che ad affratellarle.
Ancora, non lo ha fatto il grosso del corpo ufficiali, che vedeva di malocchio la funzione insegnante in quanto degradante ed estranea alle tradizionali funzioni guerresche della professione.
Infine, non lo ha fatto l’intellighenzia vicina al mondo in divisa, lasciata sola e non coordinata da un Ministero poco sensibile e nel complesso incapace di costruire un corpus di opere utili alla nazionalizzazione dei livelli più bassi della gerarchia, come dimostra un’analisi sistematica dei libri del soldato e soprattutto dei sillabari: i primi perlopiù inaccessibili alla truppa perché di fatto pensati per una minoranza di abili nella lettura, e comunque molto più attenti a familiarizzare il lettore con il re e l’universo militare che a fargli immaginare di essere parte di una comunità nazionale più ampia e esterna alle forze armate; i secondi lungi anche solo dal citare nomi e concetti ritenuti non a torto troppo astrusi per chi doveva sforzarsi di imparare l’alfabeto ricorrendo piuttosto a immagini più familiari come quelle afferenti alla sfera della religione, della casa, della famiglia e dei lavori più umili.
Di questo deficit di risultati (non perseguiti) e di precisa volontà (ad eccezione di casi isolati) sono peraltro conferma tutti i dati che si evincono dalla memorialistica, dalle carte riservate del Ministero e dalla giustizia militare. Come accennato, i reggimenti restarono mondi frazionati e altamente conflittuali al proprio interno, con linee di frattura che ripercorrevano i confini delle varie parlate anche alle soglie della Grande guerra e che al massimo s’intrecciavano con le spaccature prodotte dal progressivo differenziarsi sociale della bassa forza. D’altronde, in questa logica andavano letti anche molti dei ben noti dissidi fra militari di corpi diversi, che a leggere i fascicoli processuali spesso litigavano non in nome di un’arma, di un reggimento o di una compagnia, bensì per quello stesso campanilismo che molto incideva per esempio anche nei rapporti coi superiori e nelle frequenti diatribe coi civili. Perché i coscritti erano soggetti notoriamente poco amati dai residenti, ma perlopiù lo erano in quanto forestieri più che in quanto soldati. Almeno finché l’acuirsi delle tensioni sociali non portò – in alcune aree del paese molto più che in altre – a sommare all’astio per il rozzo e incomprensibile straniero anche quello per chi era chiamato a far rispettare l’ordine pubblico in occasione di scioperi, calamità, epidemie, etc.
Come si svolgeva il servizio militare fra Unità e Grande guerra?
Beh, per rispondere in modo esauriente a questa domanda bisogna davvero rimandare a una lettura del libro. Del resto, lo scavo sistematico nella quotidianità del coscritto con gli occhi dello storico sociale è in fondo una delle novità che la mia ricerca offre alla discussione sull’esercito e sull’Italia d’età liberale. Quello che qui si può dire è però che l’esperienza della naja risultava assai diversa in funzione di alcuni parametri, il cui modificarsi in parte dipendeva dalla situazione politica interna e internazionale, in parte dal quadro normativo vigente e in parte dal profilo del coscritto.
Un elemento cruciale era la durata della ferma. Come detto, una durata lunga come quella prevista dalla legge del 1853 era alla base di un esercito di fatto professionale, nel quale uomini sostanzialmente omogenei dal punto di vista socio-culturale e di condizione economica finivano per vedere il proprio universo di riferimento e per costruire la propria socialità perdendo di vista il mondo esterno e stemperando negli anni le differenze. Ovviamente diverso era il restare sotto le armi 2 o 3 anni, come previsto a partire dagli anni Settanta anche grazie ai tanti congedi anticipati. Una ferma che consentiva il reintegro nella vita civile cambiava infatti la prospettiva di chi partiva militare, trasformando l’esperienza sotto le armi in una parentesi da evitare ove possibile, ma che, in caso di chiamata, andava affrontata cercando semplicemente di ridurne l’impatto attraverso la conquista di un congedo anticipato per meriti acquisiti (il raggiunto alfabetismo, una condotta impeccabile, etc.), il ricorso a istituti come il volontariato di un anno, il costruire solidi rapporti con il sottogruppo dei conterranei, lo sfruttare eventuali capitali economici e/o umani per strappare piaceri e condizioni di servizio meno disagevoli e così via.
In quest’ottica, un fattore decisivo nel modellare l’esperienza di coscritto era infatti la sua condizione economica e il suo bagaglio culturale. In un ambiente caratterizzato in media da una notevole penuria di risorse, il possedere del denaro e il saper leggere e scrivere fluentemente costituivano patrimoni d’inestimabile valore. Certo, potevano generare invidie e istigare qualche commilitone a rinverdire la “venerabile tradizione” di tanti eserciti coevi, ossia quel furto che molti memorialisti derubricavano all’arrangiarsi. Ma altrettanto spesso parlare italiano, saper fare due conti e possedere del denaro erano dei veri e propri passe-partout, che consentivano d’integrare i modesti pasti offerti dall’amministrazione militare; costruire un minimo di socialità esterna alla caserma e al gruppo dei conterranei; comprare il lavoro altrui per farsi nascostamente sostituire nei servizi più sgradevoli e ottenere il silenzio di superiori spesso squattrinati di fronte a qualche mancanza. Ciò per non dire della concreta possibilità di scalare rapidamente la gerarchia nella bassa forza e magari conquistare un ambitissimo posto in ufficio o addirittura in fureria. Oppure di quanto le gerarchie sociali s’insinuassero nelle caserme italiane intaccando e a volte sovvertendo quelle del grado, spingendo i superiori a trattare con maggior riguardo e minor durezza i loro sottoposti di condizione più elevata, a cominciare da quei volontari di un anno i cui privilegi erano tali da far dubitare della loro appartenenza formalmente sancita al mondo dei coscritti. Del resto, che la caserma fosse un posto violento e dalla disciplina assai rigida c’erano pochi dubbi. E questa ricerca lo conferma appieno, pur mostrando come la magistratura militare fosse molto più garantista che in tempo di guerra. Ma a comminare punizioni erano perlopiù gli ufficiali a più stretto contatto con la truppa, dotati all’uopo di un’autonomia, di un arbitrio e coperti da un’opacità davvero notevoli. Perciò, spessissimo finiva che, in caserma come nella società civile, quasi mai la legge era uguale per tutti.
Oltre al suo status, importante per il coscritto era servire in un reggimento dove ci fossero dei conterranei e magari in una città dove si avesse qualche pur lontano parente. Bastava d’altronde leggere le memorie e i bozzetti dedicati alla leva per trovare, immancabile, la preghiera della giovane recluta perché Dio gli concedesse di trovare nel nuovo, ignoto universo in divisa qualche volto familiare. E bastava leggere le sentenze dei tribunali territoriali relative a risse e reati contro la subordinazione per farsi un’idea di quanto decisivo fosse poter contare su un tenente o un capitano che chiudesse un occhio per una comune origine e su un gruppo primario di conterranei che coprisse le spalle e/o reagisse compatto di fronte alle angherie degli “anziani” o agli sfottò dei commilitoni di altri paesi. Allo stesso modo, avere un rifugio sicuro in città, con magari un pasto extra ogni tanto e qualche aggancio nella sede di stanza, poteva risultare non meno importante per quanti si trovavano sballottati senza grandi mezzi in un mondo di cui non intendevano la parlata e dal quale erano visti con la diffidenza riservata al forestiero.
Ecco, credo che le discordanze che sembrano registrarsi fra le testimonianze dei coscritti del periodo compreso fra gli anni Settanta e la Grande guerra siano riconducibili in larga misura agli innumerevoli percorsi che scaturivano dal combinarsi di tutte queste variabili nelle loro varie gradazioni. Il servizio militare poteva ridursi a pura, sfiancante routine fra esercitazioni, marce e corvè. Oppure poteva diventare uno stillicidio di servizi esterni, pattugliamenti, scorte, cordoni sanitari e tutte quelle altre attività cui l’esercito era chiamato per contribuire all’ordine pubblico e alla protezione civile. Oppure poteva ancora trasformarsi in un’esperienza propriamente bellica, come nel Mezzogiorno infestato dai briganti, a Lissa e Custoza, in Eritrea o in Libia. Tutto questo, dipendeva ovviamente da quando e dove si finiva per servire molto più che dal profilo e dalla volontà del coscritto. Ma, quando la “Grande Storia” non ci metteva lo zampino e lasciava i cosiddetti “cappelloni” svolgere il loro servizio in tempo e in condizioni di pace, allora la naja si trasformava in un prisma di esperienze con tante facce quante quelle delle migliaia di giovani che ogni anno varcavano i portoni dei quartieri di tutt’Italia.
In che modo la leva ha influito sulla costruzione di nuovi modelli di mascolinità?
La lettura dell’esperienza sotto le armi in una chiave di storia di genere può senza dubbio aprire ampi orizzonti di riflessione, come peraltro più di uno studio aveva già suggerito in passato, soprattutto all’estero. Il caso della naja nell’Italia liberale non fa certo eccezione e ci regala alcuni spunti di grande interesse.
Intanto, un approccio gendered alla leva conferma il ruolo centrale giocato dal militare nell’elaborazione del nuovo modello di virilità che sappiamo affermarsi nel corso del XIX secolo in buona parte d’Europa e del mondo. In questo senso è per esempio illuminante il progressivo slittamento delle conferenze, dei pamphlet e dei libri del soldato verso un’immagine via via più ipermascolinizzata e guerriera del soldato e dell’ufficiale, che perse un po’ della sua aura di gentiluomo per acquisire la bellicosa e aggressiva parvenza dell’uomo d’armi costantemente impegnato a sterminare nemici (soprattutto africani, dai tardi anni Ottanta in avanti). La guerra, a lungo assente o sublimata nei conflitti di un lontano passato, divenne da un certo punto in avanti un Haupthema delle letture propinate alla truppa, mentre i nomi delle caserme, le ricorrenze, le cartoline reggimentali e persino i gadget più insignificanti iniziarono via via a connotarsi in senso sempre più esplicitamente bellico e imperialista. Similmente, la stampa e la narrativa filomilitari andarono via via abbandonando il patetico pattern deamicisiano per accentuare la loro attenzione alla dimensione spettacolare della guerra, le celebrazioni dell’eroismo italiano in Africa e la potenza militare italiana nel quadro delle contrapposizioni che si stavano definendo sullo scacchiere euro-mediterraneo.
Non meno interessante è però un’analisi della sessualità all’interno delle caserme e nella quotidianità dei coscritti. Se infatti da tempo storici e antropologi hanno sottolineato il ruolo della visita di leva e poi del servizio militare nel segnare il passaggio dall’infanzia all’età adulta, seguire le storie di questi giovani durante la naja consente di meglio precisare in che misura il sesso entrasse e che ruolo esso giocasse in una all male society caratterizzata da una continuata privazione sessuale e della propria intimità com’era la caserma. Ebbene, ciò che emerge è un universo che, proprio in nome del precario equilibrio fra la sua sempre più ostentata virilità e la sua immagine di istituzione formativa, aveva un rapporto assai ambiguo con il sesso.
Certo, poco stupisce che nei diari come nello slang e negli scherzi di cui abbiamo notizia fossero evidenti i segnali tipicamente associati alla sublimazione della sofferenza sessuale. Già più interessante e meno scontato è il ruolo che nell’esperienza della naja giocava la prostituzione: da un lato, combattuta a gran voce dalle autorità in quanto pericolosa fonte di disdicevoli malattie e di continui turbamenti dell’ordine pubblico; dall’altro, ben prima delle famose “case del soldato” del 1915-18, finanche apprezzata in quanto irrinunciabile mezzo di ostentazione della maschia esuberanza del giovane milite italiano, fra i pochi strumenti interclassisti di rafforzamento dello spirito di corpo e benefit tacitamente accordato a chi partiva volontario per le campagne africane. Oltre al fatto che essa costituiva un’alternativa più “dignitosa”, monitorabile e sicura al meretricio da marciapiede, al travestitismo e al più perverso e polimorfo sesso che si andava affermando soprattutto nell’ultima parte del secolo. Non è affatto un caso che autorità e medici militari e civili lavorassero fianco a fianco non solo nella cura e nella prevenzione di malattie come la sifilide e nel monitoraggio della salute delle prostitute, ma che le stesse norme per il controllo della prostituzione fossero il frutto di una strettissima collaborazione finalizzata a incanalare il fenomeno nel modo più funzionale possibile alle esigenze di decoro, salute, ordine pubblico e non di meno di sicurezza e anonimato della clientela.
D’altro canto, se una virilità troppo rozza e ostentata costituiva una delle principali cause di scontro con i civili, che vedevano insidiate le loro donne dagli insistenti atti di “indelicatezza” che poi i superiori erano costretti a punire per evitare scandali e on acuire la tensione con le autorità locali, a rappresentare uno dei peggiori incubi delle autorità militari era l’omosessualità. In realtà, in coerenza con quanto prevedeva anche la legislazione ordinaria, essa non preoccupava tanto in quanto tale. Infatti, quando emergeva qualche episodio, la soluzione largamente più usata era quella tutta interna dell’invio nelle apposite compagnie di disciplina, della riforma o del pretestuoso congedo anticipato. Molto più terrorizzava i comandi il danno che simili orientamenti potevano arrecare – laddove essi diventavano di pubblico dominio – all’immagine di mascolinità del militare e alla celebrata autorappresentazione dell’esercito come ente virilizzatore per eccellenza della fiacca gioventù italiana.
Insomma, nonostante la diffusa tendenza dei protagonisti a occultare le proprie tendenze e gli imbarazzi che il tema sesso generalmente provocava, non pare impossibile scandagliare anche questo aspetto tutt’altro che secondario nella quotidianità dei coscritti, nella pedagogia militare, nell’opera di disciplinamento della truppa, nella sua virilizzazione, nella costruzione dell’immagine pubblica delle forze armate e nell’amministrazione della giustizia con le stellette, ma non di meno nel costituire un terreno d’incontro fra legislazione ordinaria e militare, nel mostrare l’osmosi di modelli e discorsi fra la caserma e l’universo (in) borghese.
Cosa ha significato per la storia del nostro Paese, la leva?
Mi sia permesso di rispondere riprendendo la quarta di copertina: “La leva ha segnato la vita degli italiani” – vi si legge. Per poi proseguire col dire che “tanto più lo ha fatto in età liberale, quando si è indissolubilmente intrecciata con fenomeni come il compimento del Risorgimento, la costruzione dello Stato e il suo rapportarsi con la Chiesa, il volontarismo, il colonialismo, le grandi migrazioni, lo sviluppo economico e urbanistico, la politicizzazione e la nazionalizzazione delle masse, la loro scolarizzazione e medicalizzazione, nonché la costruzione di nuovi modelli pedagogici e di mascolinità”. Ecco perché io credo davvero che nel ricostruire norme, pratiche, discorsi e quotidianità del servizio militare fra Unità e Grande guerra Fra servitù e servizio finisca per indagare non solo la coscrizione a tutto tondo e nei suoi rapporti con analoghi istituti stranieri, ma ne faccia una chiave per ragionare sul mondo in divisa, sulle sue relazioni con la sfera civile e più in generale sulle vicende del primo cinquantennio postunitario. Perché dalla caserma alla trincea passa una parte importante della storia d’Italia, talmente importante che, a distanza di quasi vent’anni dalla sua sospensione a tempo indeterminato, essa resta immortalata in tanta musica, in tanta narrativa, in tanto cinema e nella memoria collettiva di un intero paese.
Marco Rovinello insegna Storia contemporanea e Storia sociale all’Università della Calabria