
Quale importanza riveste l’opera di Erodoto nell’elaborazione dello spazio mentale, della fisiologia, della “poetica” della κηρυκεία greca?
Intanto, le Storie di Erodoto rappresentano, almeno a mio giudizio, un repertorio del massimo interesse per entrare nel laboratorio della prassi diplomatica antica, di quella greca anzitutto, ma non soltanto: va ricordato infatti che l’opera erodotea offre una serie di informazioni di notevole rilevanza sui sistemi diplomatici delle grandi potenze orientali, in primis i Persiani, ma anche Lidi, Medi, Egizi, nonché sui rapporti intrattenuti dai Greci con queste popolazioni. Naturalmente, non mancano i filtri che rendono difficile valutare l’affidabilità delle notizie riferite, perché nella sua narrazione si intrecciano motivi del folklore di origine orientale, aneddoti senza fondamento storico, tradizioni locali e dati attendibili. Inoltre, mentre lo storico descrive molti incontri diplomatici, e riporta numerosi discorsi, lo fa però senza alcuna preoccupazione di carattere lessicale, che aiuterebbe invece a comprendere meglio l’evoluzione delle pratiche: per esempio, non fa alcuna distinzione fra le figure dei mediatori diplomatici, quali araldi, messaggeri e “ambasciatori” veri e propri, che probabilmente avevano funzioni diverse. Infine, la sua raffigurazione delle civiltà orientali è senz’altro simpatetica, ma è comunque condizionata dall’interpretazione greca dei codici di comunicazione di popoli “altri”, interpretazione che talvolta si avvicina piuttosto al fraintendimento. Nonostante questi limiti, comunque, nelle Storie si può individuare, in forma ancora embrionale, o meglio “sperimentale”, tutta una serie di pratiche e di comportamenti relativi alla sfera della diplomazia che si trovano poi attestati nella documentazione successiva in modalità analoghe, solo più consolidate: fra questi, le ragioni sottese all’invio delle ambascerie, gli argomenti ricorrenti nei discorsi degli inviati, i punti di contatto fra diplomazia e ambito religioso, quali il ricorso alla preghiera e al rituale della supplica. Soprattutto, Erodoto mette in rilievo due fattori che, a mio modo di vedere, ne dimostrano la statura eccezionale di storico anche sotto il profilo diplomatico: da un lato, il ruolo fondamentale svolto dagli esuli, numerosi e spesso causa di instabilità nelle relazioni interstatali, dall’altro il problema, politico ma anche etico, dell’inganno e della menzogna. La malafede rappresenta il lato oscuro della diplomazia ed Erodoto la condanna in modo categorico.
Cosa rivela l’analisi del lessico diplomatico greco?
In realtà l’analisi del lessico ne rivela soprattutto la fluidità, nel senso che i Greci non si preoccuparono di individuare una terminologia tecnica specializzata per definire in maniera rigorosa gli istituti e le procedure dei rapporti interstatali. Chi conosce il greco non si meraviglia, perché si tratta di una lingua dal vocabolario incredibilmente ricco: basti pensare ai ben quattro termini per il concetto di mare, thalassa, pontos, pelagos, hals, o alla quindicina di verbi per esprimere l’azione di “parlare”. Tale creatività è propria anche del vocabolario “diplomatico”: per esempio, il sostantivo che indica l’inviato ufficiale è al singolare presbeutes, ma al plurale prevale invece, su presbeutai, la forma presbeis, che al singolare, però, non è quasi mai utilizzato in questa accezione. Sinonimi per i Greci, i due termini furono invece usati in modo differenziato dai più rigorosi Romani, che nelle traduzioni dei loro documenti ufficiali chiameranno presbeis solo gli ambasciatori delle poleis, e utilizzeranno presbeutai per i propri legati. Lo stesso dicasi, più in generale, per la terminologia degli accordi interstatali. Mi limito a un caso. Tutti ricordano che in occasione dei giochi di Olimpia le città greche sospendevano i loro eventuali conflitti in corso e osservavano una sorta di “tregua sacra”, nota come ekecheiria; tuttavia, lo stesso termine ricorre anche per indicare un periodo limitato di assenza di guerra, senza alcun legame con le Olimpiadi. Di converso, il vocabolo più comune per definire il concetto di “tregua” è spondai, che però oltre alla tregua in senso tecnico può indicare altri tipi di accordo, l’armistizio, la riconciliazione, anche la pace vera e propria. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi è solo il contesto che aiuta a comprendere l’accezione precisa in cui è utilizzato un determinato vocabolo: ciò, naturalmente, non implica di per sé l’assenza di istituti specifici, perché le stesse fonti dimostrano sia la loro esistenza, sia la capacità dei Greci di ricorrervi con piena cognizione di causa, in modo mirato a seconda delle circostanze. Insomma, nelle relazioni interstatali greche l’attenzione è rivolta alla prassi effettiva, più che alla definizione formale, e questo è con ogni probabilità un effetto diretto della frammentazione politica del mondo ellenico, diviso in un gran numero di poleis sovrane e spesso antagoniste.
Quali erano gli interpreti principali del teatro diplomatico e quali caratteristiche presentava la loro retorica?
Sebbene, per le motivazioni già esposte, non sia talvolta possibile distinguerne con precisione le rispettive funzioni, le tipologie principali dei “mediatori di informazione” che le fonti ci permettono di identificare sono tre, araldi (kerykes), messaggeri (aggeloi) e “ambasciatori” (presbeis o presbeutai). Per quest’ultima categoria le virgolette sono d’obbligo, perché i presbeis non avevano competenze, prerogative e status analoghi agli ambasciatori moderni, ma senz’altro questa è la categoria più interessante dal punto di vista diplomatico. Infatti, quella dell’araldo era forse la funzione più antica, con una connotazione quasi sacrale – il keryx era infatti inviolabile, perché sotto la protezione divina -, mentre il messaggero era una figura intermedia, molto presente in Erodoto, anche con funzioni propriamente diplomatiche, tipica però soprattutto della scena tragica. In linea di massima, negli Stati a regime monarchico (i grandi imperi orientali, ma anche le città greche quando governate da un tiranno) i sovrani si servivano di araldi e messaggeri per comunicare la propria volontà; nelle città greche, dove le decisioni erano prese da corpi collettivi come i Consigli e le Assemblee, a essere inviati a trattare affari per conto della polis erano soprattutto presbeis/presbeutai, vale a dire cittadini selezionati ad hoc per ogni missione, sulla base di parametri variabili, e mandati a perorare la causa della propria comunità di fronte agli organismi decisionali dell’altra. Tutta la diplomazia in Grecia era fondata sulla comunicazione orale, giacché proprio la natura collettiva degli organi destinatari rendeva necessario leggere i messaggi (scritti) del mittente in pubblico, come facevano kerykes e aggeloi di re e tiranni, oppure, come spettava ai presbeis, pronunciare discorsi articolati a nome della propria comunità. Ed è in quest’ultimo caso che la retorica si rivela fondamentale, perché di fatto il compito principale e direi unico degli ambasciatori greci non era “negoziare”, come spetta agli ambasciatori moderni, ma convincere la controparte. Per ottenere il risultato, la persuasione degli uditori, occorreva capacità di esprimersi, di scegliere gli argomenti, di utilizzare espedienti retorici; in breve l’abilità oratoria era requisito indispensabile. Purtroppo, e questo è un fattore che limita le indagini in questa direzione, non sono pervenuti discorsi di ambasciatori che si possano definire autentici: ciò che noi abbiamo è la rielaborazione letteraria, chissà quanto fedele, dell’oratoria degli inviati ad opera degli storici, come Tucidide, Senofonte e Polibio; oppure sono pervenuti discorsi costruiti a tavolino (per esempio il Plataico di Isocrate), o fittizi, come il Presbeutikos attribuito al figlio del celebre medico Ippocrate di Cos, o ancora resumés partigiani, come quelli che offrono, calunniandosi a vicenda, i celebri oratori ed ex-ambasciatori Demostene ed Eschine. Di conseguenza, è difficile stabilire quale fosse la “vera” retorica degli ambasciatori; è comunque assodato che i loro discorsi presentavano tratti e caratteristiche ricorrenti, e questo porta a immaginare una certa consonanza con la realtà, giacché in molti degli argomenti addotti nei discorsi gli inviati tendevano a ripetersi: abbondano i richiami alla giustizia, all’opportunità, ma anche il ricorso frequente al linguaggio delle emozioni e ai tentativi di creare un’atmosfera di empatia fra la città dell’ambasciatore e la comunità che lo riceveva. Sotto questo profilo, io credo che ci sia ancora spazio per ulteriori indagini.
Quali ragioni sono sottese alla moderna svalutazione di questo modello originale di diplomazia?
Tanto la diplomazia greca di età classica era orale, pubblica e anche trasparente, perché tutte le decisioni erano prese dai cittadini riuniti in consigli o in assemblee, così come lo spazio per la trattativa riservata – o addirittura segreta – era minimo, quanto la diplomazia moderna è appannaggio esclusivo di professionisti di alta specializzazione, ed è gestita all’interno delle strutture dello Stato, e al di fuori e al riparo dallo sguardo dell’opinione pubblica. I corpi diplomatici veri e propri si sono sviluppati a partire dalla pace di Vestfalia (1648), che introducendo il principio della sovranità degli Stati diede a questi ultimi le redini e il controllo su tutta la politica internazionale. Se questa idea di diplomazia, sorta sulla base degli accordi che misero fine a un conflitto fra i più sanguinosi dell’età moderna, si considera non solo più evoluta, ma anche più idonea alla delicata gestione dei rapporti fra gli Stati, è chiaro che il modello greco appare immediatamente inadeguato e inefficiente: nessun professionismo, nessun potere negoziale degli inviati, carattere orale, pubblico e trasparente dei discorsi, trattative spesso in forma di dibattiti, negoziati spesso fallimentari nell’evitare lo scoppio dei conflitti. Ma, più in profondità, si considera la prassi greca una sorta di esperimento isolato e anomalo rispetto a una linea evolutiva dei concetti chiave della diplomazia che dall’epoca Post-Vestfalia sono fatti risalire nel tempo addirittura fino al II millennio a.C., quando i grandi imperi del Vicino Oriente misero a punto un sistema di comunicazione diplomatica fra sovrani molto raffinato e precisamente codificato, che è noto grazie allo straordinario archivio di lettere trovato in Egitto, a el-Amarna: anche rispetto a questo modello, il quale per alcuni aspetti fondamentali non è lontano dalla concezione moderna della comunicazione interstatale, la diplomazia delle città greche appare inconsistente, o comunque più rudimentale e inefficace. E, per concludere, alla base di questa “sciatteria” diplomatica sarebbe la presunta predilezione dei Greci per la guerra, che li avrebbe indotti a riservare poca attenzione alla soluzione negoziale delle controversie: ma si tratta di una conclusione che lo studio del rapporto fra forme della diplomazia e situazione geo-politica del mondo greco induce a ritenere non condivisibile. La forma orale, pubblica e aperta delle relazioni diplomatiche all’interno del mondo ellenico non sarà stata particolarmente efficace per evitare i conflitti (del resto, anche la diplomazia Post-Vestfalia non ha impedito due guerre mondiali), ma era probabilmente l’unica possibile in un contesto politicamente frammentato, multipolare e paritario come quello delle poleis.
Quali linee di continuità con alcuni dei principali orientamenti delle relazioni internazionali del XXI secolo è tuttavia possibile individuare?
A ben vedere, la cattiva stampa di cui la diplomazia greca ha goduto negli studi del XX secolo non è del tutto immeritata, perché in effetti presenta caratteristiche peculiari e poco compatibili con l’idea stessa di “diplomazia” che si è sviluppata nell’età moderna, a partire dal XVII secolo: per circa trecento anni il sistema degli Stati “Post Vestfalia” ha avuto il monopolio delle relazioni internazionali e le ha gestite con forme di diplomazia ben lontane, nello spirito stesso, oltre che nelle pratiche, da quella della Grecia delle poleis. Tuttavia, dalla fine del secolo scorso e in questo primo ventennio del nuovo millennio si sono verificati cambiamenti epocali – dalla fine del bipolarismo USA-URSS, alla globalizzazione economica, alla rivoluzione informatica delle tecnologie di comunicazione, solo per menzionare i più rilevanti – che hanno avuto un impatto straordinario anche sulla conduzione dei rapporti fra gli Stati, e hanno contribuito a complicare lo scenario e le funzioni stesse della diplomazia. Questa, volente o nolente, si è dovuta aprire all’intervento di attori e mediatori privati, al di fuori cioè del controllo delle cancellerie ufficiali, secondo un trend che i “diversamente giovani” ricorderanno essere già iniziato a metà degli anni ’80; nel 1985, infatti, ebbe luogo la kermesse oceanica del Live Aid, per volontà della rockstar Bob Geldof, destinata a sensibilizzare il mondo e a raccogliere fondi per interventi umanitari in Africa (carestia in Etiopia): gli organizzatori raccolsero una cifra esorbitante per l’epoca, ma non avevano il know-how per distribuirla efficacemente, e vi furono numerose polemiche. Negli ultimi vent’anni molti interventi umanitari sono stati gestiti direttamente dalle organizzazioni non governative (NGO) e da fondazioni filantropiche, le quali talvolta si appoggiano alle strutture diplomatiche ufficiali, talvolta vi si sostituiscono, con esiti difficili da controllare. Inoltre, alla diplomazia tradizionale, vale a dire alle trattative condotte in modo riservato, in primis fra ambasciatori, si sono affiancate altre modalità di intervento e comunicazione, più dirette al grande pubblico: basti pensare ai sempre più frequenti discorsi pubblici dei politici, o ai capi di Stato che affidano a Twitter, ufficialmente in prima persona, i loro messaggi letti da milioni di individui in tempo reale. Tutto ciò è solo parzialmente sotto la supervisione dei network delle cancellerie ufficiali, che faticano a controllare l’enorme flusso di informazioni – e anche di fake-news. In questo scenario geo-politico fluido, dove nascono forme diplomatiche “nuove” (si pensi alla Environmental Diplomacy, e al ruolo di Greta Thunberg) e comunque assai mutato rispetto a quello rigidamente protocollare dei secoli precedenti, si “riscopre” l’attualità della diplomazia greca, la sua attenzione al dibattito orale e pubblico, alla decisione collettiva, al discorso persuasivo, alla potenza della parola: non più una prassi eccentrica e fallimentare, ma un “esperimento” da cui trarre stimoli e intuizioni. Insomma, come sempre, dai Greci c’è sempre qualcosa da imparare.
Francesca Gazzano è Professore associato di Storia greca all’Università di Genova, dove insegna anche Epigrafia greca e Storiografia greca. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia politica, in particolare le relazioni fra Greci e non-Greci in Asia Minore; la storiografia, anche frammentaria, l’oratoria. Campo di indagine privilegiato sono i rapporti interstatali e la diplomazia. Condirige le Collane RIS – Rapporti interstatali nella Storia, (L’“Erma” di Bretschneider) e, con W. Lapini, “Esperidi” (GUP). Di recente ha curato, con J.-Ch. Couvenhes e G. Traina, il volume Plutarque et la guerre / Plutarco e la guerra, «HiMA» 8, 2019.