“Fordismi. Storia politica della produzione di massa” di Bruno Settis

Dott. Bruno Settis, Lei è autore del libro Storia politica della produzione di massa, pubblicato dal Mulino: Ford era fordista?
Fordismi. Storia politica della produzione di massa Bruno SettisVerrebbe da rispondere con un “nì”. Sia nel discorso politico e giornalistico che, certo in modo più articolato, in quello scientifico e accademico, il termine “fordismo” è evocativo di una serie di fenomeni, caratteristiche e processi che sono solo in parte riconoscibili nelle pratiche e nelle teorie di Henry Ford. L’innesco del circolo virtuoso di alti salari e consumo di massa, per esempio, si trova più nelle seconde che nelle prime: inaugurato nel 1914, il mitico Five Dollar Day durò solo pochi anni, non sopravvisse all’esplosione inflattiva del dopoguerra, ma continuò a essere magnificato nei formidabili strumenti pubblicitari della Ford Motor Company, come le cosiddette autobiografie del fondatore o l’inchiesta commissionata all’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 1929, su cui ha scritto pagine perspicaci Victoria De Grazia nel suo L’impero irresistibile. Un altro esempio potrebbe essere il rapporto “triangolare” dell’impresa con il sindacato e le istituzioni: il fordismo di Henry Ford fu, al contrario, ferocemente repressivo nei confronti del movimento operaio e tenacemente ostile all’intervento dello Stato nell’ambito economico, come dimostrò nella battaglia senza quartiere contro Roosevelt. Insomma, sarebbe importante, a mio parere, mettere a fuoco i diversi significati, anche in contrasto tra di loro, di cui si è via via caricata la parola fordismo, e comprendere che alcuni di essi le sono stati attribuiti retrospettivamente. Ma va precisato che il libro di cui stiamo discutendo prende in considerazione solo la prima metà del secolo, sino alla seconda guerra mondiale.

Come e quando nacque il Fordismo?
Non è una domanda cui si possa dare, per l’appunto, una risposta univoca. Dipende da cosa si va cercando: la catena di montaggio? Gli alti salari? La «convergenza […tra] il mondo del lavoro, il mondo dell’impresa, il mondo delle istituzioni», come ebbe a esprimersi nel marzo del 2001 Giuliano Amato? Il suddetto Five Dollar Day del 1914, ovvero la proclamazione degli alti salari nel pieno dell’instaurazione delle linee di montaggio nella fabbrica di Highland Park presso Detroit, è forse più il mito di fondazione che non il momento del decollo. La General Motors di Alfred Sloan “inventò” il fordismo non meno della Ford Motor Company. Le origini del fordismo vanno cercate sia indietro, nella via di sviluppo imboccata dagli Stati Uniti nella seconda rivoluzione industriale e nell’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata, tra gli altri, da Frederick Taylor, sia avanti, nella sua diffusione nei contesti più diversi (compresa la Russia dei Piani Quinquennali) e, infine, nella riflessione sulla crisi degli anni ’70 che fu da più parti interpretata sotto le lenti della “fine del fordismo”. È un paradosso solo apparente.

In che modo il Fordismo si diffuse nel mondo?
Attraverso vettori diversi, e che in parte si accavallavano, dalla diffusione in tutto il mondo dei prodotti (e non di rado anche delle officine) di Ford e General Motors all’imitazione del modello tecnico e organizzativo fordista da parte di industrie di altri paesi, private (Renault, Citroën, Fiat…) ma anche di Stato, come nel caso dell’Unione Sovietica. La mobilitazione del fronte interno in entrambe le guerre mondiali, come hanno mostrato storici dell’economia del calibro di Alan Milward e Adam Tooze, ebbe un grande peso nello stimolare l’adozione dei metodi e della scala della produzione di massa anche in paesi che per varie ragioni le erano stati restii, come la Gran Bretagna. Il plurale del titolo, Fordismi, si riferisce in prima battuta appunto a questo processo di diffusione e costante trasformazione.

Cosa si intendeva per razionalizzazione?
Ancora una volta la risposta dovrebbe essere plurale e, per così dire, stratigrafica. Nel 1932 un giovane economista di Berkeley che si sarebbe poi affermato come studioso dell’organizzazione industriale tedesca, Robert Brady, scrisse un articolo in cui cercava di mettere ordine nel dibattito sulla “razionalizzazione” (R.A. Brady, The Meaning of Rationalization. An Analysis of the Literature, in «The Quarterly Journal of Economics», vol. 46, 3, 1932, pp. 526-540): e già allora si potevano elencare sette significati… Vi è una ramificazione, dunque, che va dalla semplice eliminazione degli sprechi fino al processo epistemologico che Max Weber chiamava “disincanto del mondo”, passando per quello psichico studiato da Freud nel 1909. Ciò che è interessante rilevare, e di cui ho cercato di offrire qualche esempio, è che attorno alla parola d’ordine della razionalizzazione vi furono anche tragici equivoci politici: così in Germania, dove i socialdemocratici pensarono di poter “razionalizzare” l’economia sottomettendola a un crescente controllo dello stato, ma senza porsi troppo il problema di quali forze sociali detenessero poi il potere in questo stato.

Come venne attuato dalla Fiat il Fordismo?
Si trattò ovviamente della principale traduzione in italiano del fordismo, ma non l’unica: si pensi per altri versi alla Olivetti. L’ultimo capitolo del libro è dedicato ad un’analisi dell’innesto torinese del fordismo articolata in sei schede: i viaggi di Agnelli e dei suoi ingegneri negli Stati Uniti, la centralità del management e l’emergere di Vittorio Valletta, l’organizzazione scientifica del lavoro e l’importazione di tecnologie, il rapporto con il movimento operaio e con i sindacati, il rapporto on i poteri pubblici da Giolitti alla seconda guerra mondiale, la “politica estera” e le strategie di internazionalizzazione. Il libro poi si conclude con un tentativo di rilettura del ventiduesimo dei Quaderni del Carcere di Gramsci, uno dei testi più influenti – e questa influenza ha tutta una sua storia, e le sue aporie, che sarebbe il caso di mettere a fuoco – nell’interpretazione del fordismo, non solo in Italia e non solo a sinistra: ho cercato di mettere in evidenza come le conoscenze di Gramsci della realtà di Detroit fossero ben limitate (e lui per primo, va da sé, ne era consapevole) e come le sue riflessioni riguardassero più gli “usi” del fordismo in due contesti così diversi come la Russia postrivoluzionaria e Torino. Quest’ultimo Gramsci lo conosceva benissimo, ed anzi era stato il suo principale punto d’osservazione sulla nascita del fascismo come movimento e del suo compromesso con le élite industriali nel farsi regime.

Che legame vi fu tra Fordismo e fascismo?
Dalla risposta che si dà a questa domanda può dipendere un’interpretazione già generale del fascismo, su scala nazionale e non solo torinese; o forse è da come si interpreta l’economia politica del fascismo che dipende, al contrario, in che rapporto lo si veda con quella che, all’epoca, appariva come la frontiera più avanzata dello sviluppo industriale.
A lungo gli scritti di Gramsci su Americanismo e fordismo sono stati letti come studi sugli Stati Uniti e l’inizio di una fase egemonica da essi dominata; a partire da Franco De Felice vi è stata rintracciata una «chiave di lettura» della rivoluzione passiva fascista (così nel titolo di un famoso saggio, uscito nel 1972 su Rinascita-Il Contemporaneo e da poco ripubblicato nell’ultimo Annale della Fondazione Gramsci). Mi pare che questa impostazione sia più corretta, anche se potrebbe essere integrata. Gramsci individuava tra fascismo e fordismo un rapporto al tempo stesso complementare e di tensione: Agnelli aveva abbracciato il fascismo in funzione repressiva contro i moti operai (dopo aver tentato di avvicinare il gruppo dell’Ordine Nuovo durante il Biennio Rosso), si appoggiò ad esso per frenare l’ingresso della Ford in Italia e, sul lungo periodo, per mantenere un basso costo del lavoro. Quest’ultimo in particolare però era anche, per così dire, una condizione di sottosviluppo, specie rispetto agli Stati Uniti, e rendeva impensabile la formazione di un vero mercato di massa. Inoltre, Agnelli ci teneva a conservare (anche attraverso la costruzione di un sistema autonomo di welfare aziendale) le sue prerogative e i suoi poteri sulla forza lavoro e più in generale sulla città della Fiat, tanto che entrò più volte in contrasto con il fascio locale, che con rancore lo definiva “fascista a Roma, antifascista a Torino”.
Non voglio certo con questo ridurre Torino a una company town, ma evidenziare che la storia della città è intrecciata a quella della Fiat sia nelle fasi di ascesa che in quelle di crisi – tanto è vero che la crisi industriale si è spesso configurata come una vera e propria crisi di identità: ne ha parlato di recente Piero Fassino, in un intervento uscito sull’edizione torinese de la Repubblica del 22 luglio, all’interno di una riflessione sul futuro di Torino promossa dal giornale a partire dalle analisi dello storico ed economista Giuseppe Berta. «Sotto l’incalzare della globalizzazione, il modello industrial-fordista che per un secolo aveva reso grande Torino non era più in grado “da solo” di garantire quell’alto tasso di sviluppo, quella piena occupazione e quella diffusa prosperità assicurata per decenni»: così scrive Fassino, ricordando che negli anni ’90 la città cercò di uscire dall’inutile «nostalgia del passato» reinventando il proprio profilo industriale con produzioni innovative e investendo massicciamente nel terziario e nella riqualificazione urbana. Per Fassino un esempio di pieno successo è la trasformazione del Lingotto da polo industriale («il primo stabilimento fordista del Paese») a polo fieristico. Al netto della, forse inevitabile, dimensione polemica dell’ex sindaco verso l’attuale, mi pare un intervento interessante per come prende le mosse dalla crisi di identità di Torino “capitale del lavoro” negli anni ’80; bisogna sottolineare, d’altra parte, come si preferisca rimandare a un processo impersonale quale la “globalizzazione” piuttosto che ricordare che in quegli anni ’80 Torino fu un teatro politico importante, proprio in una dialettica di deindustrializzazione e di quella che Luciano Gallino ha chiamato “lotta di classe dopo la lotte di classe”, cioè quella dall’alto verso il basso.

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