
di Valentina Giuffra e Gino Fornaciari
Pisa university press
«Il termine paleopatologia, derivante dal greco paleo, pathos e logos, quindi letteralmente “studio delle malattie antiche”, è stato coniato dal fisico tedesco Robert Wilson Shufeldt nel 1892-1893 ed è apparso nello Standard Dictionary di Funk and Wagnall a partire dal 1895. Tuttavia è a Sir Armand Ruffer che va il merito di aver reso popolare il termine, utilizzandolo nell’ambito dei suoi studi estensivi sulle collezioni scheletriche e mummiologiche egizie. Pertanto, la paleopatologia può essere definita come la disciplina che studia le malattie delle popolazioni del passato attraverso l’esame diretto dei resti umani antichi, siano essi conservati a livello di scheletri che a livello di mummie.
In questi ultimi anni la paleopatologia è divenuta una disciplina autonoma, distinguendosi come una branca della medicina, ma mantenendo caratteri di interdisciplinarietà; infatti si avvale di contributi di diverse discipline, fra le quali si annoverano la storia, l’archeologia, l’antropologia fisica e l’anatomia patologica.
La paleopatologia si distingue inoltre dalla storia della medicina per il tipo di approccio, che risulta in un certo senso opposto, ma complementare. Infatti, mentre la storia della medicina si basa prevalentemente su fonti di tipo storico-letterario, e quindi indirette, per ricostruire soprattutto la storia dei medici e delle terapie, la paleopatologia utilizza fonti dirette, in quanto studia più in particolare le malattie direttamente nei corpi umani del passato, scheletrizzati o mummificati.
La paleopatologia riveste un duplice interesse, antropologico e medico; antropologico, perché dalle caratteristiche e dall’incidenza delle diverse malattie nel passato è possibile risalire, indirettamente, alle abitudini e allo stile di vita delle popolazioni antiche; medico, perché lo studio dell’origine di alcune importanti malattie dell’epoca attuale, come il cancro e l’arteriosclerosi, e la ricostruzione delle prime vie di diffusione delle malattie infettive non possono non suscitare un grande interesse in medicina.
Dagli inizi della disciplina, che si collocano tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, sono stati compiuti enormi progressi, che uniscono il fascino del passato al rigore scientifico moderno. I primi studi consistevano in brevi relazioni, che descrivevano patologie osservate soltanto dal punto di vista macroscopico in reperti isolati, e che non andavano oltre il resoconto di una condizione anomala rispetto alla norma, senza la pretesa di attribuirvi un significato biologico. Con i progressi della disciplina si è prestata maggiore attenzione al significato delle lesioni rilevate su singoli individui all’interno di popolazioni, adottando un approccio epidemiologico e statistico.
Ad esempio, delle patologie dentarie o delle lesioni traumatiche non interessa tanto il singolo caso, quanto l’osservazione estensiva all’interno di serie osteoarcheologiche, che permetta di valutare l’incidenza della malattia e di ricavare modelli diacronici e sincronici di più ampio respiro.
Oltre a ciò la paleopatologia ha iniziato ad avvalersi delle più moderne tecnologie di indagine diagnostica utilizzate in medicina, applicandole ai reperti umani antichi. Oltre ai raggi X, che iniziarono ad essere impiegati in maniera estensiva a partire dagli anni ’20 del XX secolo, e che oggi rappresentano un metodo di indagine routinario e, tra l’altro, assolutamente non invasivo, in paleopatologia si fa attualmente ricorso a molte altre tecniche di avanguardia in medicina.
Per quanto riguarda la diagnostica per immagini, la tomografia computerizzata (TC) ha affiancato l’esame radiologico tradizionale, consentendo uno studio più dettagliato e approfondito delle mummie. Con le apparecchiature più avanzate, disponibili per il paleopatologo nelle moderne strutture ospedaliere, si possono effettuare anche vere e proprie ricostruzioni virtuali dei corpi antichi.
L’endoscopia è utilizzata per l’esplorazione delle cavità interne, sfruttando solitamente gli orifizi naturali o artificiali che si ritrovano nei corpi mummificati.
La microscopia ottica può essere applicata allo studio di minuti campioni di tessuti antichi, grazie all’uso dello stereomicroscopio o del normale microscopio ottico, consentendo esami istologici, istochimici e immunoistochimici. In particolare l’immunoistochimica, che consiste nell’applicazione degli anticorpi allo studio dei tessuti molli antichi, ha permesso diagnosi più esatte.
Un ulteriore contributo è fornito dalla microscopia elettronica a trasmissione (Transmission Electron Microscopy o TEM) e a scansione (Scanning Electron Microscopy o SEM), che permette di effettuare osservazioni anche a livello ultrastrutturale.
L’applicazione degli isotopi stabili del carbonio e dell’azoto (13C, 15N) ha reso la paleonutrizione una scienza quasi esatta.
Le analisi chimico-fisiche comprendono la spettroscopia ad assorbimento atomico, per la determinazione degli elementi in traccia, la diffrattometria a raggi X, per lo studio degli elementi inorganici, la spettroscopia infrarossa, per le molecole organiche, e il radiocarbonio o 14C, per le datazioni assolute.
Infine lo studio del DNA antico (aDNA) ha rivoluzionato la paleogenetica e la conoscenza delle malattie infettive del passato, ponendosi come la tecnologia più promettente di risultati in un prossimo futuro.»