“Firenze medievale e dintorni” di Giuliano Pinto

Prof. Giuliano Pinto, Lei è autore del libro Firenze medievale e dintorni, pubblicato da Viella: possiamo vedere nel radicamento della cultura mercantile nella Firenze medievale la base della sua espansione economica?
Firenze medievale e dintorni Giuliano PintoÈ sicuramente così! Per quasi quattro secoli, dall’inizio del Duecento alla metà del ‘500, e oltre, Firenze ebbe un ruolo di primo piano nell’economia europea e del mondo mediterraneo, soprattutto nel settore mercantile e bancario. Non fu un caso che nel 1252 i mercanti fiorentini decisero ‘per onore del Comune’ di coniare il fiorino d’oro, che per due secoli non ebbe concorrenti come moneta di riferimento negli scambi internazionali.
Fra Due e Trecento il ruolo di punta fu esercitato dalle compagnie dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli, dei Frescobaldi, degli Spini, che, insieme a una miriade di compagnie minori, estendevano la loro rete d’affari all’Occidente europeo e al mondo mediterraneo: dal Regno di Napoli, alla Francia, all’Inghilterra e alla Germania; dall’Egitto e dal mar Nero sino alla penisola iberica e alle coste del Maghreb. I grandi fallimenti degli anni ’40 del Trecento determinarono la scomparsa di oltre 350 compagnie mercantili fiorentine, tra le quali due colossi come i Bardi e i Peruzzi. Difficilmente un’altra città si sarebbe ripresa da un simile tracollo. Ma a Firenze altre compagnie presero il posto di quelle fallite, a cominciare dagli Alberti; e poi vennero i da Uzzano, i Sassetti, i Martelli, ecc.; poi nel corso del XV secolo si affermarono Strozzi, Pazzi, Serristori, Rucellai, Medici, Capponi. Cosimo de’ Medici non fu solo signore, di fatto, di Firenze, ma fu anche a capo del Banco Medici, una holding company con filiali in mezza Europa. Ancora, fra tardo ‘400 e metà ‘500 Riccardi, Gondi, Salviati dettero il loro nome a compagnie di assoluto rilievo internazionale; e molte spedizioni verso il nuovo mondo ebbero come finanziatori banchieri fiorentini o addirittura come comandanti di nave uomini della città del giglio (a cominciare da Amerigo Vespucci e da Giovanni da Verrazzano).
Insomma non c’è grande famiglia fiorentina attiva tra Medioevo e Rinascimento che non abbia legato il proprio nome e tratto le proprie fortune dalle attività mercantili e bancarie. I capitali accumulati consentirono, tra l’altro, le grandi realizzazioni artistiche del Rinascimento fiorentino.
La presenza costante dei fiorentini nell’economia europea era il risultato di una cultura mercantile profondamente radicata nella élite cittadina, che si affievolì solo a partire dalla seconda metà del XVI secolo. Molti tra gli scrittori fiorentini autori di storie, libri di memorie, libri di precettistica (da Giovanni Morelli a Leon Battista Alberti a Giovanni Rucellai) sottolineano l’importanza della carriera mercantile. Basti ricordare, per tutti, Goro Dati, mercante attivo nella penisola iberica e autore di una storia di Firenze, il quale scrive all’inizio del ‘400 che in città «chi non è mercatante e che non abbia cerco [cercato] il mondo […] e tornato a Firenze con avere [ovvero ricco] non è reputato niente». Anche le fonti pubbliche esprimono concetti simili. Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica per alcuni decenni a cavallo fra ‘300 e ‘400, esprime bene nelle lettere scritte per conto del governo cittadino il sentire comune alla classe dirigente in merito all’importanza del commercio e al ruolo dei mercanti: l’attività mercantile rende la città prospera, e va protetta e incoraggiata «velut pupilla oculi». Insomma il perfetto cittadino di Firenze era colui che attraverso la banca e la mercatura, gestite in modo onesto, accumulava ricchezze che andavano certo a suo vantaggio, ma pure a vantaggio della città intera.

Qual era il grado di mobilità sociale nella Firenze medievale?
Firenze è una delle città medievali dove l’ascensore sociale funzionò più a lungo. La mobilità sociale raggiunse livelli assai elevati nelle città dell’Italia comunale nel corso del XII e di buona parte del XIII secolo, in concomitanza con la forte crescita demografica. La popolazione urbana aumentò in misura esponenziale, grazie soprattutto all’emigrazione dalla campagna verso la città; e per farvi fronte furono costruite cinte murarie sempre più ampie. Molte delle famiglie immigrate acquistarono rapidamente, grazie soprattutto alle attività mercantili e manifatturiere, solidità economica e spazio politico. Il ricambio della classe dirigente fu allora intenso e continuo. Con la fine del Duecento, invece, si assistette un po’ dappertutto a misure che ponevano freni all’immigrazione, e, all’interno, a una chiusura oligarchica in rapporto alle maggiori cariche pubbliche, talvolta ratificata per legge (assai noto è il caso di Venezia). La mobilità sociale conobbe di conseguenza una forte contrazione.
Firenze fece in parte eccezione. Grazie alla vivacità della propria economia, che si basava sui tre pilastri della mercatura, della banca e della manifattura tessile, e a una cultura mercantile profondamente radicata, la città rimase un polo di attrazione per uomini provenienti dal territorio dipendente, ma anche da aree più lontane. Non sono rari nel corso del Trecento e del Quattrocento esempi di famiglie di modesta origine che conobbero nel giro di un paio di generazioni un’ascesa tale da collocarle nella fascia più alta della piramide sociale. Ricordo il caso dei Serristori, il cui capostipite fu un modesto notaio di Figline, nel Valdarno superiore: ser Ristoro, appunto. O il caso ancor più noto della grande famiglia dei Riccardi, discendenti da un sarto tedesco arrivato a Firenze alla metà del Trecento. Ma anche nel campo dell’arte e della cultura non furono pochi i grandi personaggi provenienti dall’esterno: da Giotto a Masaccio, da Coluccio Salutati a Leonardo Bruni, da Marsilio Ficino ad Agnolo Poliziano.
L’ascesa sociale passava attraverso tappe ben precise. Il primo passo consisteva nell’assicurarsi una solida base economica attraverso le attività mercantili e bancarie, e in misura minore manifatturiere; parte dei capitali erano poi investiti nella casa di famiglia e nell’acquisto di terra, che assicuravano prestigio e solidità. Il secondo passo consisteva nel creare legami familiari, attraverso matrimoni, con famiglie influenti presenti da tempo in città, il che era una ottima chiave di accesso per entrare a far parte dell’élite cittadina. L’ultima tappa era l’assunzione di cariche pubbliche, fino a quella di vertice – il priorato – che suggellava così l’ascesa della famiglia.

Quali caratteristiche aveva il mercato dei prodotti alimentari?
Firenze, che contava circa 100 mila abitanti all’inizio del Trecento, e circa 50 mila alla metà del secolo successivo, era una città popolosa che disponeva di un territorio dipendente il cui surplus agricolo non era sufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione cittadina. Il grano, il prodotto alimentare per eccellenza, in anni normali arrivava da aree vicine quali la Romagna e la Maremma; in anni difficili si ricorreva a zone esportatrici più lontane, quali la Puglia, la Sicilia, la Sardegna, la Provenza. Il resto della Toscana forniva vino e olio, e poi pesce e bestiame da macello, ma quest’ultimo arrivava anche da regioni lontane come l’Abruzzo e la Puglia. Colpisce la capacità di Firenze – come di altre grandi città medievali – di mettere in piedi un sistema di approvvigionamento imponente e articolato; talvolta costoso per l’erario, quando si trattava di acquistare grano in regioni lontane per rivenderlo in città a prezzo politico; talvolta vantaggioso per le entrate derivanti dalla tassazione che colpiva gli altri generi di consumo. Soprattutto la gabella sul vino, che si consumava in grandi quantità nelle taverne distribuite un po’ dappertutto all’interno delle mura, assicurava all’erario entrate consistenti.
I mercati dei diversi generi alimentari si concentravano nel cuore della città, accanto ai palazzi del potere e alle dimore patrizie. Non risultavano allora incompatibili con il decoro urbano, come invece accadrà in tempi a noi più vicini. Il grande Mercato Vecchio di Firenze fu eliminato in occasione del cosiddetto risanamento del centro storico, a partire dagli anni in cui la città fu capitale d’Italia (1865-1870). A Parigi la distruzione dell’immenso, suggestivo mercato delle Halles, nel cuore della città, risale agli anni Settanta del secolo scorso.

Quali differenze esistevano tra città e campagna nella distribuzione della ricchezza?
Si potrebbe dire, semplicemente, che negli ultimi secoli del Medioevo la ricchezza si concentrò sempre di più nella città e che, di conseguenza, le campagne si impoverirono.
Due sono i fenomeni che determinarono tale squilibrio tra Firenze e le sue campagne.
Il primo consistette nell’immigrazione in città di gran parte del ceto medio-alto del contado: notai, piccoli mercanti, artigiani con bottega, ecc. Essi vennero a Firenze abbandonando i centri del territorio fiorentino, molti dei quali contavano all’inizio del Trecento parecchie centinaia e, talvolta, qualche migliaio di abitanti, com’era il caso di Figline, Montevarchi, Castelfiorentino, Empoli, Poggibonsi, ecc. Questi immigrati, spostandosi in città e diventando presto cittadini, mantennero le case e le terre di cui disponevano, che divennero così proprietà di fiorentini.
In secondo luogo, gli strati superiori della società cittadina investirono nell’acquisto di terra parte dei loro capitali: disporre di un consistente patrimonio fondiario dava prestigio e assicurava solidità economica. Alla fine del Medioevo la proprietà cittadina era del tutto prevalente in gran parte del territorio, eccetto le zone meno fertili della montagna appenninica. Così gli abitanti del contado, i comitatini, si identificarono sempre più con coloro che vivevano lavorando la terra; da ciò il cambiamento del termine contadino che perse l’originario significato neutro (abitante del contado) per indicare solo i lavoratori agricoli.
Se gran parte della ricchezza si accentrava in città, questo non escludeva affatto la presenza al suo interno di ampie sacche di povertà. Il vasto mondo della manodopera sottoposta (circa un terzo della popolazione urbana), impiegata soprattutto nei lavori meno specializzati all’interno della grande manifattura tessile e nell’edilizia, era sempre a rischio di cadere nell’indigenza per via dei bassi salari e della forte oscillazione dei prezzi dei generi di prima necessità, nonché della discontinuità dell’occupazione.

Quali evidenze emergono dalle fonti riguardo a matrimonio e sessualità coniugale?
Tra i ceti superiori della città – a Firenze, come altrove – il matrimonio giocava un ruolo di primissimo piano, dal momento che gli si attribuivano due obiettivi fondamentali: da un lato la continuità della famiglia attraverso la discendenza patrilineare; dall’altro il suo consolidamento sociale grazie ai legami che il matrimonio veniva a creare. La fertilità della sposa e l’elevato numero di figli erano ritenuti indispensabili dalla élite cittadina per mantenere e aumentare la potenza, il prestigio, la fortuna economica e politica del casato. Dunque la scelta del coniuge, e conseguentemente dei futuri parenti, risultava questione di grande delicatezza. Della futura sposa si dovevano considerare la famiglia di appartenenza, l’ammontare della dote e infine le qualità morali e fisiche.
La necessità di mettere al mondo una prole numerosa, consigliava di prendere mogli assai giovani: l’età media al matrimonio era allora per le femmine intorno ai 18 anni; superati i venti, il rischio di restare nubile diventava alto. Inoltre era diffusa l’idea che le giovani fossero fragili, indifese di fronte ai desideri della carne, e più avanzavano negli anni, maggiori erano i pericoli.
L’età dei maschi al matrimonio – sempre all’interno della élite cittadina – era sensibilmente più alta, mediamente intorno ai trent’anni: occorreva prima far carriera nelle attività mercantili. Da qui quelle differenze d’età, spesso elevate, che fanno da sfondo ad alcune novelle del tempo. Franco Sacchetti, raccontando come un giovane fosse trovato dal padre a letto con la bella matrigna, commenta così: le mogli «essendo giovani, vogliono vegliare, e’ vecchi mariti voglion dormire».
Sulla sessualità coniugale del tempo danno informazioni ricche di particolari la novellistica e la trattatistica, e soprattutto i predicatori che di fronte all’uditorio lodano i comportamenti sessuali corretti e denunciano con parole di fuoco quelli riprovevoli. L’accoppiamento era lecito solo e soltanto in funzione della riproduzione della specie. Quanto all’infedeltà, quella del marito era in qualche modo tollerata; non certo quella della moglie, che con il suo comportamento rendeva incerta la paternità dei figli, infamava le famiglie e le poneva l’una contro l’altra.

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