
In che modo essa si è emancipata dal romanzo storico?
Nel romanzo storico classico (ottocentesco) il personaggio storico non era mai l’eroe principale del romanzo, e quando lo era doveva trattarsi di una personalità non in vista e poco nota, almeno ai non intenditori. I protagonisti dei Promessi sposi non sono Federigo Borromeo e Antonio Ferrer, ma Renzo e Lucia, due personaggi inventati di sana pianta da Manzoni. Borromeo invece se ne sta sullo sfondo, e quando (in due occasioni distinte) interagisce prima con l’innominato e poi con don Abbondio viene trattato in modo profondamente diverso da loro: non abbiamo alcun accesso al suo mondo interiore, come se la sua coscienza fosse tabù, come se ci fosse uno schermo che la ripara dallo sguardo indiscreto del narratore (il quale invece può spaziare liberamente, poniamo, nei pensieri più reconditi dell’innominato). Si tratta di una regola non scritta che, secondo Dorrit Cohn, viene rispettata fino a Guerra e pace di Tolstoj, il quale per la prima volta rompe gli schemi e mette in scena l’interiorità di un personaggio storico come Napoleone. Ed è, questo, un momento di straordinaria importanza nella storia del romanzo, perché con Tolstoj l’onniscienza psichica del narratore si affranca dai limiti di cui dicevo, e le tecniche di presentazione della coscienza (l’indiretto libero, la psiconarrazione) diventano applicabili a qualunque tipologia di personaggio, aprendo il campo delle possibilità anche alla finzione biografica. Il passo successivo dell’emancipazione della biofiction dal romanzo storico è ovviamente lo spostamento di enfasi dal contesto storico generale all’individualità del personaggio e al suo mondo interiore, dal grande al piccolo. E questo spostamento di enfasi va di pari passo con l’evoluzione del romanzo come genere in cui ciò che conta è sempre più l’individuo e sempre meno il mondo storico di cui fa parte, quello dei destini generali e delle forze anonime e impersonali che regolano la vita di ciascuno di noi. Da questo punto di vista, c’è perfetta contiguità tra biofiction e romanzo “puro”.
Come la condizione postmoderna ha contribuito alla diffusione del genere?
Non c’è dubbio che tra gli anni Ottanta e Novanta ci sia stato un vero e proprio boom della biofiction, soprattutto nella letteratura di lingua inglese. Si potrebbero fare molti nomi, come quelli di J.M. Coetzee, Michael Cunningham, Joyce Carol Oates, Jay Parini, Cólm Toíbin e tanti altri. E anche in Francia la biofiction è un genere largamente praticato, oggi, da alcuni tra i maggiori scrittori contemporanei (Michon, Carrère, Echenoz).
Però io credo che ci sia stata troppa enfasi, da parte della critica, nel definire la biofiction un genere postmoderno tout court. Per due motivi. Intanto perché una tradizione biofinzionale esisteva già prima del postmoderno: Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar e La morte di Virgilio di Broch (e in misura minore anche Io, Claudio di Robert Graves) sono ancora per molti versi dei romanzi storici, è vero, ma si avverte già un’attenzione molto maggiore che in passato verso la dimensione interiore del personaggio, ed è giusto, per questo, considerarle anche delle biofiction. E in secondo luogo, perché a me pare che la biofiction sia anche un genere caratteristico delll’ipermoderno, cioè dell’epoca attuale, che per molti versi si distingue da quella postmoderna: i suoi tratti più visibili sono il rifiuto del gioco intertestuale e un nuovo tipo di impegno o di testimonianza civile, che troviamo per esempio in molti autori italiani degli ultimi anni. Del resto, occorre dire che anche la filosofia della storia postmoderna (diciamo quella di Hayden White), che aveva sdoganato l’uso della fiction nella ricostruzione storiografica affermando che ogni ricostruzione storica è “narrazione”, è oggi molto meno in auge rispetto a qualche anno fa (e per fortuna).
Quali modelli e tipologie è possibile identificare nella finzione biografica?
Le memorie di Adriano sono certamente uno dei modelli più imitati dagli autori di biofiction, non solo per il loro contenuto ma anche per certe scelte formali. Prendete ad esempio Nei pleniluni sereni del latinista Luca Canali. Ebbene, quel romanzo ha in comune con il capolavoro della Yourcenar tanto l’ambientazione (all’ingrosso: il mondo romano) quanto la struttura autodiegetica, cioè il fatto che la voce narrante coincida con quella del personaggio principale. È tra l’altro proprio sulle peculiarità strutturali che fondo la mia proposta tipologica nella prima parte del volume. Chi finora ha studiato la biofiction lo ha fatto, di solito, da un punto di vista tematico o storico, mentre la mia è una teoria di derivazione narratologica e genettiana. Ci sono due grandi famiglie di finzioni biografiche. Una è quella che chiamo eterobiofiction, ed è caratterizzata da un narratore esterno alla vicenda narrata, che può assumere o meno il punto di vista dell’eroe ed essere in grado di penetrare nella sua coscienza (addirittura con dispostivi che simulano il flusso della coscienza, come ne La morte di Virgilio). La seconda grande famiglia è quella dell’omobiofiction, che a sua volta si distingue in autobiofiction (Le memorie di Adriano), quando eroe e narratore coincidono, e allodiegetico (Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, di Michele Mari), quando chi narra è un testimone che registra quanto accade ad altri. Non si tratta di formalismo fine a se stesso: la narratologia serve a capire che cos’è la finzione e in quali modi si manifesta. Uno dei luoghi comuni che cerco di infrangere in questo libro è, infatti, l’idea che la fiction consista solamente nell’inventare fatti non accaduti. Non è affatto così: fingere significa, soprattutto, raccontare le cose in un modo che è caratteristico della finzione, e nella prima parte del libro cerco di circoscrivere uno per uno questi modi, almeno per quanto riguarda il genere biofinzionale. È ovvio, per esempio, che quello che “fa finzione” in tanti romanzi è proprio l’onniscienza psichica, la capacità di “radiografare”, diciamo così, la coscienza del personaggio: nessuno storico potrebbe fare altrettanto senza essere screditato. Ma esistono anche altre modalità narrative intrinsecamente finzionali, forse meno evidenti, ma altrettanto interessanti.
Quali sono i più rappresentativi autori italiani di biofiction?
Anche in Italia esiste una tradizione biofinzionale, che ricostruisco nelle ultime pagine del libro. Per quanto riguarda gli ultimi trenta o quarant’anni, direi che i nomi più importanti sono quelli di Luca Canali, di Daniele Del Giudice (Lo stadio di Wimbledon), del Tabucchi di Sogni di sogni e degli Ultimi tre giorni di Fernando Pessoa, di Nanni Balestrini (L’editore) e, per avvicinarci ai nostri anni, di Alessandro Zaccuri (Il signor figlio) e soprattutto di Michele Mari. Mari è autore di tre notevolissime finzioni biografiche in cui stravolge, postmodernamente, i dati di realtà infischiandosene della verità storica. In Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, ad esempio, s’inventa un falso diario di Carlo Leopardi, un fake perfettamente credibile dal punto di vista linguistico, in cui si insinua che Giacomo sia un licantropo. In altri libri, come Tutto il ferro della torre Eiffel o Rosso Floyd, Mari gioca invece con le biografie di Walter Benjamin e di Syd Barrett, mescolandole con intertesti ricavati da mezza letteratura mondiale. E però, nonostante l’indiscutibile bravura dell’autore, mi pare che la sua concezione della scrittura sia oggi poco attuale e fuori tempo. Sono altri, secondo me, i nomi davvero interessanti degli ultimi anni: Leonardo Colombati (Il re), Giovanni Montanaro (Tutti i colori del mondo), Giuseppe Catozzella (Non dirmi che hai paura), Antonio Scurati (Il tempo migliore della nostra vita, M. Il figlio del secolo) e soprattutto Davide Orecchio (Città distrutte, Mio padre la rivoluzione). Non tanto e non sempre per la qualità letteraria dei loro testi (alcuni non sono certo dei capolavori), ma perché, tutti, mostrano un atteggiamento etico molto diverso dal passato postmoderno, e persino una certa rinnovata fiducia nella funzione conoscitiva della letteratura, voglio dire nella sua capacità di cogliere il senso dell’epoca che viviamo nei suoi riflessi sulla coscienza individuale.
Riccardo Castellana insegna Letteratura italiana contemporanea nell’Università di Siena. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi Tozzi (Palumbo, 2002), Parole cose persone: il realismo modernista di Tozzi (Serra, 2009), La teoria letteraria di Erich Auerbach: una introduzione a Mimesis (2013) e Finzione e memoria. Pirandello modernista (Liguori 2018). Dirige l’Edizione nazionale delle opere di Federigo Tozzi.