“Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà” di Telmo Pievani

Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Telmo PievaniÈ uno di quei libri che ti rapiscono nella lettura, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà di Telmo Pievani, edito da Raffaello Cortina. Ne pubblichiamo un estratto.

Dalla finitudine, il valore assoluto della vita

«Assoluto significa sciolto da ogni vincolo, incondizionato. Se la vita, questa vita, è l’unico bene di cui gli esseri umani dispongono, allora è una perla rarissima. Come onde nel mare, ci siamo sollevati per un momento ad ammirare il resto dell’oceano e poi ci immergeremo di nuovo nel tutto. Ne deriva che nessuna violenza deve interrompere quel momento unico. Nessun fine giustificherà mai e poi mai, come suo mezzo, la rescissione di quell’unico filo che la contingenza della natura ha tessuto per ognuno di noi. Ogni uomo, dunque, è sempre il primo uomo. In ciascun uomo è racchiusa, ogni volta, un’angusta particella dell’intera umanità. C’è, insomma, qualcosa di profondamente unico, e degno di rispetto, nella vita di ogni singolo essere umano, qualcosa che va non solo accettato, ma anche interpellato e indagato. […]

La finitudine ci restituisce, dunque, questo primo valore: il diritto inviolabile alla vita di ogni essere umano, cioè il suo diritto di compiere altre azioni che possano compensare il male commesso o almeno lo rendano cosciente del male. È il diritto di avere una possibilità di riscatto, il diritto naturale perfino dell’uomo peggiore sulla Terra a rivoltarsi contro la sua stessa vita. Bisogna dunque abolire la pena di morte in ogni angolo del mondo, questo disgustoso massacro, non perché l’uomo è buono, ma, al contrario, perché l’uomo è un impasto inestricabile di virtù e abiezione. Almeno quella morte, almeno quella finitudine, va messa fuorilegge. Logica e realismo ci dicono che nessuno di noi è autorizzato a disperare una volta per tutte di un altro uomo.

Dalla finitudine, il senso di un’irripetibile opportunità

Quando, allora, possiamo giudicare una vita e dire che è stata a suo modo un capolavoro? A conti fatti, solo a morte avvenuta. Ecco un secondo, alto valore della finitudine. La morte trasforma la vita in destino e consente un giudizio. Dà una cornice al tragitto terreno. Gli ultimi istanti del condannato a morte, come anche del malato terminale, hanno una densità e dignità straordinarie, come se condensassero in sé l’intero percorso di un’esistenza. La vicinanza alla soglia è un attrattore potente. In quegli ultimi momenti, chissà qual è l’attenzione ai dettagli, ovvero l’assaporare ogni istante che rimane, sull’orlo della vertiginosa caduta, dello sprofondamento nel nulla. Mentre tutto diventa poco interessante tranne la pura fiamma della vita. […]

Per chi non crede nell’immortalità dell’anima e nella resurrezione, la pena capitale è una perdita assoluta e irreversibile. Si immagini, allora, quale sacrificio possa essere quello di chi rischia la morte o che, deliberatamente, va incontro alla fine per una causa e da non credente sa che sta pagando il prezzo più alto, il prezzo assoluto. Per il credente sincero, il martirio è una stazione di passaggio verso un mondo migliore. I combattenti della Resistenza al nazifascismo, che non credevano nella resurrezione e che hanno dato la vita, cioè tutto, hanno compiuto invece un sacrificio assoluto. Hanno messo in gioco la fine di tutto, con lucido coraggio, in solitudine e consapevolezza, senza affidarsi ad alcuna ricompensa ultraterrena. Quel sacrificio, nel segno della libertà e della giustizia, è tale da rappresentare un impegno ineludibile per le generazioni future.

La vita, nella sua dignità, è quindi inviolabile non perché non ci appartenga, come molti vorrebbero indurci a pensare, ma per l’esatto contrario, ovvero proprio perché appartiene soltanto a ognuno di noi e nella sua finitudine è un’occasione unica che ci pertiene integralmente, senza ritorno e senza speranza di un proseguimento quando finirà. Abbiamo avuto una bellissima, irripetibile occasione a essere qui – ecco un altro valore della finitudine – proprio perché l’universo è indifferente alle nostre sorti e poteva fare a meno di noi. Se ci fosse una provvidenza già scritta, dovremmo aspettarcelo di esistere, e financo pretenderlo. Se invece gli dei sono muti, immobili e nullafacenti, come quelli di Epicuro e Lucrezio, e la nostra comparsa sulla scena è stata del tutto contingente, allora possiamo riappropriarci del nudo splendore della nostra esistenza casuale.

Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso. Non siamo più schiavi di una posizione privilegiata nel cosmo. Non siamo più schiavi di un radioso avvenire da tradurre in realtà. Non siamo più schiavi di un’attesa che vanifica il presente. Siamo circondati da due oceani di inesistenza, ma nel dirlo esistiamo. Non c’è nulla di disperante, quindi, nel dispiegarsi della finitudine di tutte le cose, perché non c’è vita che, almeno per un attimo, non sia stata immortale.

Avere coscienza della finitudine ha inoltre un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino, ma ci dona anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso. La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino, della solidarietà tra disperati, una solidarietà che nasce tra le catene. Siamo mortali, ma non siamo soli. Lo siamo tutti. Siamo uniti nella sofferenza, nello sforzo eroico di Sisifo, partecipi della medesima sorte: noi, gli altri esseri viventi, il pianeta e l’universo.

Siamo stranieri al mondo, ma lo siamo tutti. Stranieri fra stranieri. Rivoltarci contro la finitudine ci stringe insieme. Non possiamo farlo da soli, ma sempre in relazione ad altri come noi, che piangono la nostra finitudine o ce la rinfacciano. Questa solidarietà nella finitudine è parte costitutiva della natura umana, di quel nocciolo irriducibile a qualsiasi cultura e a qualsiasi storia che rende ognuno di noi membro del consesso umano e trascende le individualità. L’atto di rivolta – contro i mali del mondo, contro le oppressioni e le ingiustizie, contro la finitudine stessa – è un seme di solidarietà umana, che travalica i singoli e diventa tessitura collettiva. L’incommensurabilità della nostra vita personale ci rende individualisti: quando soffriamo una pena, quella pena è solo nostra. Ma è un individualismo altruista e solidale. Se difendo la mia dignità, difendo la dignità che ho in comune con tutti gli altri.

La finitudine, dunque, ci accomuna in una stessa complicità, ma non ci omologa. Ognuno è mortale a modo suo. La finitudine è molteplice, variegata e stravagante, eppure è un sentiero di umanità per tutti. La specie umana dovrebbe prendere coscienza di sé nella sua totalità, come specie biologica tra milioni di altre.»

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