
La guerra è inevitabile?
La guerra non è inevitabile ma è talmente probabile che abbiamo l’illusione che lo sia. La creazione dell’immagine dell’inevitabilità della guerra è stata alimentata anche dalla filosofia. Alcuni filosofi autorevoli, tra i quali spicca sicuramente G. W. F. Hegel, e da parte di tutti coloro che sostengono un determinismo forte (sociale o meno), considerano la guerra come una parte dell’avvenimento storico: la storia umana evolve nella dialettica che sfocia nella guerra. C’è un senso chiaro in cui, secondo questi filosofi, la guerra è essa stessa la fonte dell’evoluzione e del progresso o, comunque, un’inevitabile componente dell’evoluzione dello spirito. Ancora oggi c’è chi la pensa così. Tuttavia, la guerra è un evento contingente e quindi non necessario ed evitabile. Quando la classe dirigente, quale che sia la forma di governo, spiega alla cittadinanza che una guerra era “necessaria” o “inevitabile” sta sempre compiendo una forzatura, per essere generosi. L’idea che qualcosa sia inevitabile serve proprio a celare il fatto che la guerra è pur sempre una scelta. Si può stabilire che abbia ricadute politicamente desiderabili o meno, ma è pur sempre possibile un altro corso degli eventi. Nel libro considero quattro argomenti che dimostrano che la guerra non è una necessità e quindi non è mai inevitabile. Questo non risolve il problema rispetto alla razionalità della decisione da prendere. Il fatto che qualcosa sia evitabile non vuol dire necessariamente che lo debba essere. Nel libro spiego che solo la morale ci impone di evitarla e, in questo, mi riallaccio alla posizione di Immanuel Kant. Ma dal punto di vista di un decisore, che valuta la possibilità della guerra, potrebbe darsi il caso di una scissione tra ragione di stato e ragione morale (c’è chi disse che “in quanto uomo, sono pacifista radicale. Ma in quanto presidente non lo sono”). Quindi, la guerra è sempre evitabile? Si. La guerra è necessaria? Si dimostra che non lo è. Vale sempre la pena evitarla? Su questo non ci può essere una risposta semplice e non è mio compito fornire slogan. Questo vale per tutto. Vale anche per la guerra.
Come nasce una guerra?
Questa è una domanda fondamentale, di quattro parole, le cui risposte hanno generato biblioteche. C’è un senso in cui questa domanda è ambigua. In che senso vogliamo interpretare la parola “nascere”? Se la interpretiamo in termini causali la risposta non spetta alla filosofia ma alla storia. Se parliamo di cause, allora la domanda non ha una risposta ma tante risposte quante sono le guerre: ogni guerra ha una sua storia molto precisa ed è il compito dello storico studiarne le peculiarità. Però già se dovessimo indagare le condizioni storiche, cioè le categorie delle cause comuni a tutti i casi di guerra, allora non stiamo più studiando la storia (in senso tecnico) ma stiamo compiendo un passo intermedio tra la storia e la filosofia. Ma la domanda ammette anche un’altra interpretazione: quali sono le modalità generali che determinano la condizione di guerra? Si tratta di una prospettiva ancora più generale dell’analisi storica perché non si interessa di condizioni temporalmente definite né generalizzazioni da esse. Si tratta di un’analisi delle precondizioni generali che rendono possibile la guerra. In primo luogo, le guerre nascono da un particolare modo di risolvere una divergenza di interessi. Non ha importanza la natura di questa divergenza perché si può divergere per qualsiasi cosa, da ragioni di interessi materiali a differenze culturali: possiamo divergere su ciò che vogliamo, come ottenerlo, come valutarlo. Non è sempre possibile una “sana chiacchierata”, specialmente se l’altro non vuole recedere dalle sue posizioni e noi non siamo inclini a fare lo stesso. Non è sempre possibile farlo. Per la guerra, però, è richiesto che entrambi i contendenti decidano di usare la forza per dirimere la contesa. E se c’è chi pensa che la guerra sia determinata da una sola condizione (economica, militare, politica etc.) sta purtroppo razionalizzando troppo. Sarebbe rassicurante pensarla così perché significherebbe che esiste un baluardo ultimo di razionalità, anche se perversa. Ma non è così. I risultati di questa interpretazione filosofica e radicale della domanda mi ha condotto a risultati sconcertanti, considerati nei dettagli nel libro.
Sempre secondo il Suo testo, l’elaborazione dell’informazione rappresenta un elemento fondamentale della guerra tanto che è possibile tracciare una dimensione epistemologica della guerra.
Ho provato a caratterizzare il volto comune a tutte le forme di guerra contemporanee (le più rappresentative sono sicuramente la network centric warfare, guerra economica, cyber guerra e guerra dell’informazione). Oggi la guerra ha come mezzo e come scopo il dominio della conoscenza. Mi spiego subito. La guerra della contemporaneità “non tende all’assoluto” perché ci sono tre condizioni che la limitano: (a) le società contemporanee vogliono evitare guerre totali; (b) nonostante la scarsa “coscienza nucleare” delle giovani generazioni, i decisori sanno che la guerra nucleare deve essere evitata a qualunque costo; (c) per varie ragioni, tra cui i bassissimi tassi di natalità dei paesi industrializzati (non solo occidentali), bisogna minimizzare i caduti di guerra dalla propria parte. Queste tre condizioni non nascono da ragioni umanitarie ma dalla coscienza condivisa che il prezzo politico (per le classi dirigenti) e il costo sociale (per la popolazione) di una guerra può essere accettabile solo in questo modo limitato. Per questo, la conoscenza è mezzo e fine della nuova forma di combattimento internazionale. Per esempio, fino alla metà del XX secolo, gli USA non avevano un esteso apparato di intelligence in tempo di pace, esso esisteva solo in periodo di guerra. Sino a tempi molto recenti, l’intelligence era solamente una parte dell’attività militare, neanche molto espansa. Oggi le strutture di intelligence tendono ad espandersi proprio per massimizzare l’efficienza, non solo sul campo di battaglia tradizionale, ma anche in tutti quei domini che sono i nuovi teatri di guerra. Non si tratta di un mondo più gentile. Al contrario, se l’obiettivo è la conoscenza, e di ciò che la causa (l’uomo), allora tutto può diventare un’arma e l’informazione diventa una parte di questo processo. Siamo tutti immersi in un ambiente di questo tipo e bisogna imparare a conviverci. Non ci è data altra possibilità.
Quale evoluzione ha subito la riflessione sulla guerra nella cultura?
Per lungo tempo in Italia, ma credo in tutta Europa, non si è semplicemente potuto parlare di guerra, almeno non con la libertà richiesta per una sana ricerca scientifica. Non è lontano il periodo in cui parlare di guerra conduceva ad essere etichettati in modo politicamente definito e discriminatorio. A me non è successo, ma ho conosciuto chi ha avuto simili esperienze e i loro racconti sono lontani dall’essere lusinghieri, sia per la società civile, sia per la comunità scientifica. Solo alcuni potevano permettersi di parlarne. Questo vale anche per altre discipline, come la geopolitica. Anche oggi bisogna parlare di guerra nei modi appropriati, con una certa sensibilità per evitare i fraintendimenti, pesando bene le parole, come è doveroso. Questo però è strano all’interno di un dibattito pubblico sempre più tristemente barbarico come è quello di oggi. Inoltre, data la peculiare situazione europea durante la guerra fredda, la guerra per gli europei non era sostanzialmente un’opzione. Cioè una parte della sovranità degli stati era alienata a potenze alleate o nemiche. Quindi c’è chi dice che l’Europa, dopo la seconda guerra mondiale, si è adagiata in una condizione “post-storica”, che consiste nel vivere indipendentemente dalle dinamiche del resto del mondo, in un totale rifiuto di esse. Ci sono ancora molti fantasmi da affrontare e la coscienza collettiva europea vive in bilico tra il terrore di riscoprire la guerra e la cattiva coscienza di non voler pagare il prezzo della nostra stessa civiltà. Ma anche per i restii europei la realtà si modifica ed emergono nuove esigenze intellettuali. Questo si vede anche nei battiti sulla guerra, sempre più frequenti. Siamo in un momento di rivolgimento storico, in cui le ideologie del XX secolo non sono più oggetto di credenza condivisa. Questo libera l’intelligenza per una comprensione pacata del problema. E ne abbiamo estremo bisogno perché dobbiamo evitare il rischio di catastrofi colossali, per altro causate in gran parte da quel mondo del passato che appare idilliaco solo per chi la storia la guarda da lontano. Ma l’intelligenza è merce rara. Lo è sempre stata. Se c’è una cosa che ci ha insegnato drammaticamente la storia europea è che tutti siamo gettati nella mischia. Non c’è modo di starne fuori. Quindi la responsabilità dipende da ognuno di noi.