
In questa complessità di letture e richieste – particolarmente pressante quella che proviene dal mondo del lavoro – si innesta la questione della didattica, che non è un problema solo per chi insegna filosofia, ma per tutti i docenti, perché gli interlocutori – gli studenti – non solo sono profondamente cambiati, ma sono in costante e veloce trasformazione. Spesso appaiono mossi da interessi molto pragmatici, attenti al risultato e alla sua “monetizzazione”, più che alla padronanza dei saperi e delle competenze, a una vera “trasformazione” culturale; di frequente sono poco strategici e proattivi nello studio, che certamente non è tra i primi valori e impegni della loro vita. Questa percezione, che porta noi docenti alla lamentela e allo scoraggiamento, non credo sia clamorosamente errata, tuttavia forse un po’ parziale, la definirei insieme “miope” e “presbite”. “Miope” perché manca di lungimiranza, perde di vista il fatto che i giovani, che oggi vediamo fragili e piuttosto disorientati, comunque saranno presto adulti chiamati ad assumersi responsabilità e a intervenire nel mondo professionale, sociale, politico dunque anche culturale – se concepiamo il termine in senso molto lato: la loro buona riuscita dipende anche da ciò che noi adulti, in particolare noi docenti, avremo saputo suscitare in loro in termini di passioni, ideali, motivazioni, conoscenze, competenze. Ma è opportuno far attenzione a non limitarsi a una percezione “presbite”, quella che non sa leggere sotto traccia che quella che appare come superficialità ondivaga talvolta è il segnale di desideri profondi ancora insoddisfatti, di bisogni e mancanze che nessuno o pochi hanno saputo finora nutrire, che ci sono domande aperte nella mente e nel cuore di questi ragazzi, che attendono solo di essere portate alla luce.
Che cosa c’entra l’insegnamento della filosofia con tutto ciò? Io sono persuasa che c’entri, e non poco o marginalmente. Ma è determinante che la filosofia venga comunicata non come un sapere scettico, autoreferenziale, cultore della morte e del nulla – questo negli ultimi secoli è accaduto spesso – ma come un sapere generativo di vita buona, di un’esperienza della realtà e delle persone che emancipa dal conflitto e dal non senso, per condurre ad una comprensione riflessiva di contesti e situazioni, soprattutto che può guidare alla verità di se stessi, da cui solo scaturisce la vera libertà.
Coerente alla filosofia così intesa, si profila una didattica centrata sulla partecipazione, sul dialogo, sul coinvolgimento: la filosofia è nata come strumento di immersione nell’essere, ma tale percorso va compiuto da ciascuno in prima persona. L’università è un momento particolarmente propizio per tale assunzione di responsabilità, soprattutto se c’è stata una formazione filosofica negli anni del liceo. Ma anche se così non fosse stato – durante la ricerca condotta tra ottobre e dicembre 2016 con gli studenti del I anno di Scienze pedagogiche e dell’educazione esposta in questo volume, una percentuale significativa di studenti non aveva mai affrontato l’apprendimento della filosofia – resta il fatto che gli anni della giovinezza sono molto fecondi: difficilmente una persona non è disponibile al dialogo e al confronto, a lasciarsi interpellare da domande di senso. Mossi da questa persuasione, i miei giovani ricercatori ed io abbiamo proposto una didattica che ponesse gli studenti a contatto diretto con le questioni nevralgiche di ogni esistenza – l’identità personale, la verità, il bene – li abbiamo stimolati ad ascoltarsi, ad argomentare le loro posizioni, a soppesare il valore delle convinzioni, a metterle alla prova, a considerarne le ricadute formative. Credo che questa modalità di insegnare filosofia sfati i luoghi comuni che l’accusano di astrattezza e inutilità.
Quali sono i contenuti e le strategie più adeguate a promuovere l’apprendimento e la partecipazione degli studenti?
In parte ho già anticipato la risposta a questa domanda. Inizierei con una precisazione: non tutti gli studenti sono uguali, ci sono bisogni formativi diversi, dati dal profilo e dalla storia personale, dalle caratteristiche cognitive, dalle capacità e risorse intellettuali e psico-emotive di ciascuno. In un corso accademico non è possibile esplorare questi fattori: per quanto possa prolungarsi, esso si sviluppa in un periodo troppo breve e con un setting che non consente, se non in casi rari, una relazione personale utile a precisare davvero gli obiettivi in conformità ai bisogni.
Il docente può e deve ricorrere allora ad una valutazione che tenga conto di contesti e connotati più “universali”: in base a questi – a cui noi abbiamo fatto riferimento per operare le scelte didattiche progettando la ricerca – a mio avviso, i contenuti più capaci di promuovere apprendimento e partecipazione sono quelli che possono essere letti in chiave antropologica, cioè che rinviano all’essere umano e che sgorgano dalle sue esigenze più profonde e radicali. In breve, la chiave che ci ha dato accesso alla risposta positiva degli studenti è stato far loro sperimentare che in fondo stavano focalizzando l’attenzione su loro stessi, che quel percorso filosofico apriva spazi di ripensamento e riappropriazione di sé. Il mio modo di intendere e vivere la filosofia è questo e ho cercato di comunicarlo ai miei studenti: la maggior parte di loro è stata stupita e grata, si è sentita messa in questione e messa in gioco; ne ha percepito l’impegno, ma non si è sottratta.
Le strategie partecipative sono molto ben accolte dai ragazzi: loro desiderano esprimersi, essere ascoltati e dare attenzione a questo bisogno è non solo via per catturare il loro interesse, ma per orientarne una riflessione più profonda, una decisionalità più consapevole. Spesso nelle attività laboratoriali – a cui è stato dedicato circa metà del tempo dell’insegnamento e durante le quali la classe di 140 studenti veniva suddivisa in 4 gruppi di livello in base alle competenze in ingresso – abbiamo avviato la lezione mettendoli direttamente a contatto con un testo filosofico o con un brano di un dramma teatrale o di un film, dai quali poi esplicitare le questioni sottese, trarre riflessioni e potenziali ricadute etiche. Certamente la possibilità di svolgere attività con gruppi meno numerosi e omogenei è un fattore di grande rilievo per la promozione della partecipazione e di un apprendimento efficace: l’aula gremita di 200 studenti o più, in cui il docente parla ex cathedra è un format che – sempre che sia mai stato efficace – oggi non collima più con la realtà e le sue esigenze, perché impedisce la relazione, canale privilegiato per veicolare la formazione, soprattutto ai giovani di questo tempo.
Un’altra strategia particolarmente efficace è stata la modulazione del percorso, che ci ha consentito di suddividere il carico didattico, di monitorare in itinere l’apprendimento degli studenti e di verificarlo progressivamente. Anch’esso è stato un modo di valorizzare la personalizzazione educativa e attuare una valutazione formativa e non solo sommativa.
Va detto che le modalità didattiche partecipative ed esperienziali mettono molto alla prova il docente: lo costringono a rinunciare al suo narcisismo, gli impongono maggior impegno, fatica, flessibilità. Non tutti sono disponibili ad accogliere tali sfide, forse non tutti sono in grado.
Il Suo lavoro attesta che c’è un’esigenza diffusa di filosofia.
Credo che l’esigenza di filosofia inerisca all’uomo. In un piccolo volume, intitolato Appassionati alla realtà e idealmente rivolto a un giovane liceale in procinto di iniziare gli studi filosofici, ho scritto che non possiamo non essere filosofi, in quanto ci sono domande che ciascuno di noi deve porsi e a cui non è possibile non rispondere, anche solo implicitamente e in modo in parte inconsapevole. Tali domande non sono accessibili alle scienze, solo il sapere filosofico le indaga, mentre l’esperienza religiosa le abbraccia nella prospettiva della fede.
Attualmente credo però che l’esigenza diffusa di filosofia si situi anche ad un altro livello, cioè a quello della vita professionale e sociale, che a mio avviso sono quelli in cui può avviarsi una sorprendente “rivoluzione dal basso” di cui la nostra epoca ha profondamente bisogno. Mi spiego meglio. Le persone oggi sono molto deluse dalla politica e infastidite dalla pervasività dell’economia nei processi di globalizzazione di cui siamo protagonisti da alcuni decenni. La reazione di molti è il cinismo accompagnato dalla chiusura nell’individualismo sempre più feroce. Altri invece percepiscono che la situazione può cambiare nella misura in cui cambiano i micro-contesti, cioè la famiglia, i gruppi sociali – si pensi alla crescita delle iniziative di volontariato di varia natura – il lavoro. E chi determina il cambiamento sono i singoli, preparati in modo diverso e mossi da motivazioni nuove o forse rinnovate e ispirate a valori buoni che si stanno ritrovando: solidarietà, lealtà, condivisione, cittadinanza consapevole e attiva, etc.
Mi soffermo brevemente sull’ambito professionale, perché rispetto al mio lavoro di docente lo vedo come primaria prospettiva di riferimento: l’esigenza di filosofia riguarda a mio avviso il bisogno di professionisti competenti, non solo in termini di funzionalità operativa, ma soprattutto e prima di tutto di umanità, di valori etici aderenti alla verità integrale della persona. Se è vero, come io ritengo, che la formazione filosofica – non in modo esclusivo, ma certamente privilegiato – può edificare l’umano in pienezza, alla filosofia attiene un’opportunità specifica e per certi aspetti non vicariabile da altri saperi.
Qual è l’immagine del docente di filosofia?
La mia immagine del docente di filosofia compone alcune figure che nella mia storia personale sono state un punto di riferimento decisivo: il mio professore al liceo, un paio dei miei docenti all’università, la docente grazie a cui sono diventata ricercatrice. Tutte queste persone, ciascuna a suo modo, mi hanno comunicato un’intensa passione per il sapere e per le persone e nello stesso tempo mi hanno aiutato a riconoscerla in me stessa e a coltivarla, tra molte fatiche e frustrazioni, che ogni vita professionale riserva.
Non credo vi sia una sola immagine reale del docente di filosofia, credo vi siano vari profili e forse è bene che sia così: c’è il docente “studioso”, che “conosce” molte cose; c’è il docente “comunicatore”, che sa “catturare” l’attenzione e “stimolare” la riflessione; c’è il docente “educatore”, che privilegia la “relazione-dialogo” e accompagna i singoli “mettendoli sulla strada”. Ciascuno con il proprio stile può incarnare una o l’altra prospettiva o saperle compaginare tutte armonicamente.
Ai ragazzi all’inizio del percorso di ricerca abbiamo chiesto quali fossero per loro i connotati del buon docente di filosofia: gli aspetti maggiormente rilevanti sono stati la capacità comunicativa e di ascolto, assieme alla disponibilità a ricevere domande. Io leggo nelle risposte degli studenti il bisogno e desiderio di attenzione e relazione, l’attesa che le loro istanze trovino accoglienza. È pur vero che questo non riguarda di per sé solo il docente di filosofia, ma il docente come tale. Forse a chi, prima di esserne docente, si mette alla scuola della filosofia è richiesto – ma è anche offerto dal sapere a cui si dedica – di essere più sensibile alla lettura della realtà, un’intelligenza più profonda delle cose e delle persone, competenze di cui la velocità, la pervasività della tecnologia e delle immagini ci hanno resi più carenti e insieme più desiderosi.