
Una tipica tendenza della modernità conduce a evitare di analizzare la violenza (specie quella visibile, forte, sanguinaria), liquidandola attraverso una sorta di facile “psichiatrizzazione”: i violenti sono persone che “non stanno bene”, dei pazzi. Nella maggior parte dei casi però la psichiatria non c’entra nulla. Ricordo un episodio avvenuto nel 2013, poco dopo la pubblicazione della prima edizione italiana del libro. L’attentatore Luigi Preiti, che aveva sparato a due carabinieri, era stato subito classificato dai mass media e dall’opinione pubblica come uno squilibrato, un pazzo. Erano state così oscurate le cause nascoste di quell’accesso di tremenda violenza approfittando di una specie di medicalizzazione/psichiatrizzazione. Questo comune modo di reagire finisce per attenuare e mettere in secondo piano la violenza perpetrata, classificandola come il frutto di un qualcosa di “malato”. Si sfugge così al compito di dire di più intorno alle radici di gran parte della violenza. L’attentatore aveva però subito dichiarato che voleva “colpire” (e quindi “punire”) i politici, individuati come colpevoli della sua situazione disperata di disoccupato e di separato, vissuta come iniqua. Si può dunque dare una lettura del suo comportamento in termini morali: ogni regola morale che si adotta prevede la potenziale punizione dei trasgressori. Trasformare la violenza in oggetto autonomo di riflessione significa evitare di parlare della violenza secondo scorciatoie come quella appena indicata della psichiatrizzazione e, adottando nel mio caso un approccio naturalistico, vederne le varie sfaccettature, tenendo presente i risultati di varie discipline, enucleando l’intreccio indissolubile tra moralità e violenza fra evoluzionismo, scienze cognitive, teoria matematica delle catastrofi, teoria delle nicchie cognitive, logica e logica informale, psicologia, psicoanalisi, semiofisica. Ogni cooperazione umana, fin dalla preistoria, è basata sulla condivisione di regole morali (o protomorali) (anche quelle incorporate nelle leggi a partire da un certo momento del processo di civilizzazione), ma l’infrangere le regole morali comporta possibili punizioni più o meno violente (o meglio che vengono vissute come tali dai soggetti colpiti). Non soltanto: il contatto con persone e collettività che condividono diversi orizzonti morali genera anch’esso conflitti che possono dar luogo a esiti anche molto violenti (si pensi alle guerre – o ai terrorismi – di religione, dove la conflittualità provocata dalle regole morali incorporate nei framework religiosi è potente).
Tutti assistono a violenze di ogni tipo quotidianamente e tutti ne parlano nei mass media e a casa loro, ma l’ignoranza sociale intorno a cosa sia la violenza è grande e anche presso gli studiosi e i filosofi le cose non vanno meglio. Come già osservavo, si sente infatti spesso porre l’accento sulla violenza fisica come unica violenza degna di nota, nel mentre viene passato sotto silenzio e non rubricato come violento, per esempio, certo “teppismo parlamentare”, quando c’è scambio di voti e favori. Siamo in una società che aspirava a diventare una “knowledge-society” e invece è diventata una “ignorance society”, dove tutti sono legittimati a dire la loro opinione, che troppo spesso è quella ignorante di narcisi individualistici che non “sanno” nulla o sanno pochissimo, sia che si tratti di ministri, giornalisti, casalinghe o scienziati. E infatti anche gli studiosi e gli intellettuali non brillano di “open-mindedness” perché di solito conoscono solo ambiti specialistici; se invece possiedono una cultura di più ampio respiro e si esprimono, allora vengono aggrediti con la violenza verbale che oramai da decenni li classifica come astratti e inutili in vari media e “social” ignoranti e beceri. Una “ignorance society” (troppo orgogliosa di essere tale) che a mio giudizio è il frutto amaro di un trentennio di violento e ottuso neoliberismo cocciuto, che sta intaccando alle basi la civiltà che per molti aspetti abbiamo ereditato dall’antica Grecia (sotto questo punto di vista avere visto la catastrofe economica greca è apparso come un simbolo nefasto). Per fortuna la filosofia da più di venti secoli ci aiuta a interpretare il mondo e oggi vuole capire anche la violenza: il mio volume, che appare unico anche nell’attuale panorama della ricerca “filosofica” internazionale, mira a questo, a produrre una intelligibilità della violenza che solo la filosofia può donare. Ho cercato dunque di intraprendere una seria indagine sulla violenza con coraggio e sincerità: come esseri umani qualsiasi possiamo ignorare la nostra propria violenza, grazie a quel “embubblement” che è illustrato nel libro (per così dire la violenza non è mai la mia ma è sempre quella degli altri perché io dissimulo la violenza che compio non ritenendola mai tale – più sotto introduco appunto il concetto collegato di “bolla morale”), ma come filosofo, sostengo, non posso ignorarla: passo dopo passo questo impegno intellettuale è diventato per me sempre più specifico e teoretico, tanto da rendere la violenza un soggetto autonomo di riflessione filosofica.
Per anni mi sono dedicato allo studio della violenza e ho osservato, nel comportamento degli esseri umani violenti, come già accennavo sopra, che la violenza è fondamentalmente perpetrata sulla base di convinzioni morali, in modi più o meno coscienti e come effetto multiforme di ragioni, emozioni e azioni di vario tipo. La moralità, e quindi anche la religione – che, prima fra tutte le creazioni culturali dell’umanità, ha svolto il ruolo di “veicolo di moralità”- e la violenza sono fortemente intrecciate. Sembrerebbe un paradosso, visto che gli esseri umani si sono dotati della moralità proprio per difendersi dal male e dalla violenza e per favorire la cooperazione. Ma paradosso non è: 1) ogni moralità confligge potenzialmente in modo violento con altre moralità; 2) ogni moralità comporta la punizione più o meno violenta dei trasgressori.
Credo che occorre prima di tutto avere “rispetto” della violenza e attribuirle una volta per tutte la “dignità morale” di diventare un argomento filosofico/conoscitivo, estraendola dal circuito ristretto delle futili chiacchiere quotidiane, delle statistiche fornite dalle scienze umane e da una facile psichiatrizzazione. I filosofi hanno sempre affrontato temi importanti come la razionalità, la scienza, la conoscenza, l’etica e così via, che sono pensati un po’ da tutti come dotati di una dignità intellettuale in sé. Hanno invece sempre pensato che la violenza, proprio perché è tale, si mostra come qualcosa di banale, cattivo, intollerabile, confuso, ineluttabile e marginale, non sufficientemente interessante per loro. La violenza è stata dunque considerata più adatta ad essere studiata come dato di fatto: storia, sociologia, psicologia, criminologia, antropologia, solo per citare alcune discipline, sono sempre sembrate più appropriate per analizzarla e per fornire dati, spiegazioni e cause.
Il libro Filosofia della violenza muove dunque dalla convinzione che, almeno nel nostro tempo, proprio la filosofia possiede lo stile di intelligenza e di intelligibilità adatto per una nuova, impertinente e profonda comprensione di un tema così intellettualmente trascurato e mal rispettato. Quando si tratta di violenza, la filosofia, pur rimanendo ancora una disciplina astratta come la conosciamo, paradossalmente acquisisce il marchio di una sorta di “scienza applicata” indispensabile e insostituibile. Il libro vuole attribuire più dignità filosofica alla violenza, perché essa è estremamente importante nella vita degli esseri umani, lo si voglia accettare o meno. Ci sono una filosofia della scienza e una filosofia della moralità, una filosofia della biologia, una filosofia delle arti e così via: ora dobbiamo cercare di elaborare una filosofia della violenza come campo autonomo di speculazione, che può estrarre la violenza dalla prigione di modesti, frammentari e spesso esoterici pensieri filosofici o di freddi risultati scientifici.
Il libro aiuta a riconoscere che siamo tutti intrinsecamente “esseri violenti”: tale consapevolezza, anche se non terapeutica, potrebbe migliorare la nostra possibilità di essere almeno dei “violenti responsabili”, cioè capaci di riconoscere la violenza che deriva proprio da noi e dalle nostre azioni, direttamente o indirettamente, e non solo quella degli altri. Con questo intendo dire che avere più conoscenza della violenza potrebbe forse suggerirci inaspettati metodi di monitoraggio delle nostre reazioni emotive e razionali, al fine di ridurre la possibilità (inevitabile) di errori e accrescere invece la nostra aspirazione a un maggior “possesso” del nostro destino, sia per quanto riguarda la vita quotidiana sia per quanto riguarda quella degli stati nel nostro mondo globalizzato. Riconoscere la nostra condizione di “creature violente” e aumentare la conoscenza circa la nostra capacità di nuocere, vuol dire accettare la nostra responsabilità e sperare di individuare quei “firewall” cognitivi che possono aiutarci a prevenire la violenza. Considerare la violenza dal punto di vista della “moralità” dei colpevoli – dove la violenza appare chiaramente come giustificata da “valori” – può aiutare a coglierla e capirla come un evento quasi ineluttabile e comune, che non può essere ignorato.
La violenza è dunque di solito generata da ragioni morali: il conflitto morale è alla base del conflitto violento. Persone a prima vista del tutto decenti (come già osservava Hannah Arendt a proposito dei buoni padri di famiglia che erano nel contempo anche criminali nazisti), sono capaci di atti violenti anche sanguinari in nome della loro morale, da essi considerata come sicura e certa. Se si agisce con violenza per ragioni morali, per difendere sé stessi e preservare il proprio punto di vista morale o per punire chi ha infranto le regoli morali del gruppo a cui si aderisce, come è possibile pensare di essere stati violenti? Ci si dice per esempio: “Sono un seguace della legge dell’onore, che considero giusta e morale, quindi la vendetta è ‘giustizia’ anche quando ha come conseguenza la violenza estrema dell’omicidio”. Ho chiamato questo tipo di impossibilità di riconoscere la violenza possibile derivante da nostre convinzioni morali “bolla morale”.
Perché si può affermare che nel linguaggio è insita una natura violenta?
La violenza non è solo quella palese (per esempio quella fisica o sanguinaria), ma è anche nelle cose, nelle strutture e nel “linguaggio”, che spesso, con fallacie, finzioni, inganno, distribuisce violenza, dissimulandola e dicendo “sono solo parole”. Lo squadrismo verbale può essere a sua volta foriero di altre violenze: lo si vede nel mobbing, nel bullismo, ma anche negli esiti sanguinari del linguaggio provocatorio dei politici. Si parla spesso della cultura dell’odio che è veicolata dal linguaggio e talora gli stessi esseri umani che parlano della necessità di evitare il linguaggio dell’odio lo fanno, senza accorgersene, proprio con il linguaggio dell’odio.
Come si distribuisce la violenza attraverso le fallacie?
Come dicevo la violenza non è solo fisica ma è nelle cose, nelle strutture e nel “linguaggio”, che spesso, con fallacie, dissimulazione, inganno, e con quello che in inglese si chiama efficacemente “bulshitting” (così diffuso nei media e presso i politici nonché presso i cosiddetti esperti, ecc.), distribuisce violenze a destra e manca, dissimulandole come cose non violente, solo parole. Lo squadrismo violento verbale è, come dicevo, a sua volta foriero di altre violenze, come si vede nell’esempio banale del passaggio dal mobbing verbale “gossiparo” al suo possibile esito omicida. Le fallacie sono errori di ragionamento, e come tali sono particolarmente esposte ad essere usate in quella che il matematico René Thom chiama intelligenza militare al fine di organizzare convincenti (anche se erronee) tematizzazioni morali che “giustificano” punizioni varie di coloro che disobbediscono o non si adeguano e che quindi mettono in pericolo quelle stesse regole morali e in ultima analisi la cooperazione che da esse è garantita.
Quale ruolo possono svolgere i mediatori morali nello scatenarsi della violenza strutturale?
Il potenziale violento che è parte costitutiva integrante di quelli che alcuni biologi evoluzionisti contemporanei chiamano nicchia cognitiva mostra anche la dimensione sottostante di violenza strutturale e simbolica, ovvero della violenza diffusa potenzialmente generabile e spesso generata da quelli che chiamo mediatori morali. La violenza strutturale è considerata come moralmente legittimata poiché esercita una funzione cruciale nelle attività di mantenimento della nicchia: un esempio semplice di mediatore è il crocefisso, per esempio in una nicchia cognitiva come una chiesa cristiana. Come mediatore morale rimanda alla dimensione etica della religione cristiana e quindi per esempio alla regola morale ama il prossimo tuo come te stesso, e come tale sostanzia e stabilizza la nicchia cognitiva in cui si trova. Tuttavia, se una persona lo indossa e viene visto in una circostanza sfavorevole da un terrorista che professa e difende un’altra religione, quello stesso oggetto diventa un potenziale mediatore di violenza, in quanto chi lo porta può essere ferito o addirittura ucciso.
Dobbiamo ricordare che quando genitori, poliziotti, insegnanti e altri agenti infliggono ed esercitano violenza, fisica o non visibile, “per ragioni morali e/o legali”, queste ragioni non eliminano il fatto che è stata perpetrata della “violenza”, e che essa non deve essere condonata oppure sottovalutata solo perché non è sempre percepita come tale (bolla morale) ed è invece vista come “qualcosa d’altro”, cioè come derivante da gesti morali. D’altra parte deve essere osservato che nel caso della violenza strutturale quegli agenti perpetranti violenza non agiscono certo quasi mai per conto proprio , ma per conto di più vaste istituzioni, siano esse politiche, sociali (come per esempio la famiglia), industriali, economiche o religiose: per l’appunto in quanto mediatori morali/violenti. Tali istituzioni sostanziano la violenza strutturale non grazie ad agenti umani ma grazie a per l’appunto a “mediatori morali/violenti” di vario tipo (che nel caso estremo possono coincidere con esseri umani che hanno trasformato se stessi in quelli che potremmo definire artefatti socio-culturali mediatori di violenza, come nel caso del ruolo assunto dall’“agente di polizia” all’interno della violenza strutturale). La dimensione regolatrice della violenza strutturale è spesso diluita nella forma pervasiva della narrazione: le fiabe che sono raccontate ai bambini, i romanzi, le commedie, le opere teatrali e i film, sono tutte forme coinvolte nella diffusione di insegnamenti morali, economici o spirituali che comportano esemplificazioni di punizioni e violenze.
In che modo moralità “individuali multiple” possono scatenare violenze?
Gli individui agiscono spesso in base a quelle che chiamerei “morali multiple” e variabili: al mattino di fronte a una certa situazione si segue la morale religiosa e si agisce di conseguenza (per esempio punendo con violenza la figlia musulmana che non si è coperta il volto o ha il fidanzato cristiano); al pomeriggio invece di fronte a un’altra situazione si segue la morale civile che punisce con la violenza legittima della legge; alla sera di fronte a un’ulteriore nuova situazione si segue la morale dell’onore (che contrasta con le prime due, delle quali non ci si ricorda però minimamente), che comporta invece, per esempio, la violenza della vendetta privata. A ogni livello di questa variabile moralità individuale (che pure si informa a moralità collettive riconosciute e condivise da molti), l’esercizio della stessa protegge dal rendersi conto della violenza delle conseguenze: è una condizione cognitiva che io definisco “bolla morale”, concetto che ho già citato in passaggi precedenti.
Che nesso esiste tra religione, moralità e violenza?
La religione, nel mentre spinge, come tutti sanno, verso il “meglio” grazie al suo profondo portato morale, può ahimè pervertirsi, diventando agente di punizioni e violenze contro i membri del proprio gruppo che trasgrediscono le regole o contro i seguaci di altre religioni. Ho detto prima che la moralità e la violenza sono fortemente intrecciate. Questo aspetto è identicamente presente nel caso della religione: religione e violenza sono molto intrecciate. La religione infatti, trovandosi a svolgere, prima fra tutte le creazioni culturali dell’umanità, il ruolo di “vettore di moralità”, e quindi di “promotore di moralità”, come tale è caratterizzata dalla presenza della “punizione” (più o meno violenta) e del “conflitto (più o meno violento) con moralità avverse”.
Desidero anche aggiungere che anche una struttura complessa insieme astratta e concreta come la democrazia è oggetto di possibile violenza, per esempio ad opera del neoliberismo (e della sua devastazione di ogni equilibrio prezioso del capitalismo economico). Questo tema è nel libro collegato all’analisi del presente drammatico tendenziale passaggio dalla democrazia all’oclocrazia, già descritto da Polibio, dove osceni carismatici di turno che ingannano demagogicamente il popolo, coltivando e diffondendo tutte le debolezze e miserabilità del popolo stesso (e trascurandone invece le virtù), generano un impoverimento di tutti, e quindi anche dello stesso “oclos”: è proprio quello che stiamo vedendo ogni giorno.
Per concludere, il libro vuole incoraggiare ad aumentare la nostra “conoscenza” sulla violenza, come tema sia filosofico che cognitivo. Data l’importanza della violenza nel comportamento umano, lo studio di questo argomento aiuta a mantenere un focus intellettuale sugli impegni morali e sulle loro conseguenze, sperabilmente anche al di là della comunità strettamente intellettuale e accademica. Violenza, danni e aggressioni sono così pervasivi della vita di tutti i giorni, che non è facile immaginare di vivere senza incappare in essi. Gli attacchi violenti che sferriamo verso gli altri esseri umani, gli animali e la natura dipendono da complicati meccanismi biologici e cognitivi, che fondamentalmente si intrecciano con il ruolo della moralità. Le persone dunque possono fare uso di diverse “morali” come armi violente, sia per azioni difensive che aggressive. Come già dicevo, riconoscere la nostra “condizione” di “creature violente” e aumentare la conoscenza circa la nostra capacità di nuocere, vuol dire accettare la nostra responsabilità e sperare di riuscire ad individuare quei “firewall” cognitivi che possono aiutarci a prevenire la violenza. Nikolaj Gogol era già perfettamente consapevole che la nostra conoscenza, la nostra inclinazione e la nostra sensibilità verso il bene sono sempre indissolubilmente legate alla conoscenza, inclinazione e sensibilità verso il male. Capire la violenza grazie alla filosofia non significa perdonarla o giustificarla, e – forse – può essere di aiuto, ad esempio, ad evitare di cadere in una situazione violenta. Come dicevo, considerare il male violento dal punto di vista della “moralità” dei colpevoli – dove la violenza appare chiaramente come giustificata da “valori” – può aiutare a cogliere la violenza come un evento quasi ineluttabile e comune, che non può essere ignorato. Devo segnalare al lettore che per tentare di capire la violenza da un punto di vista filosofico ho dovuto cercare di sopprimere i miei giudizi morali, guadagnando così una nuova consapevolezza metamorale circa la condizione umana. Lo spettacolo della violenza umana mi ha insegnato (e spero insegni a tutti) qualcosa di più sul come conviverci e come monitorarla, grazie all’attività del “conoscerla” meglio nella sua struttura e nelle sue funzioni.
Lorenzo Magnani, filosofo, epistemologo e scienziato cognitivo, è professore ordinario di Filosofia della scienza presso l’Università di Pavia e direttore del Computational Philosophy Laboratory del Dipartimento di Studi Umanistici. Ha lavorato in USA, Cina e altri paesi EU, e realizzato più di 400 pubblicazioni nel campo della filosofia, della logica e delle scienze cognitive. Dirige la collana Studies in Applied Philosophy, Epistemology and Rational Ethics (SAPERE), dell’editore Springer. È membro dell’International Academy for the Philosophy of the Sciences (AIPS).