
In realtà, per molto tempo non è esistita una vera e propria distinzione tra la figura del/la filosofo/a della scienza e quella dello/a scienziato/a interessato/a a questioni di natura teorica e concettuale (e in alcuni casi è ancora così) – si pensi per esempio a grandi pensatori e pensatrici come Galileo Galilei, Albert Einstein, Noam Chomsky ed Evelyn Fox Keller. Questo connubio è tuttavia sempre più raro ed è conseguenza della crescente iperspecializzazione che, beninteso, non coinvolge solo la scienza ma anche la stessa filosofia della scienza (tanto è vero che anche in filosofia della scienza si tende a specializzarsi in ambiti specifici, quali la filosofia della biologia, della medicina, della fisica e così via).
Rimanendo in ambito scientifico, sebbene ci siano degli scienziati che coltivano interessi e competenze più “estese” rispetto alla propria area di lavoro, la ricerca ha ormai raggiunto un grado di specializzazione talmente alto da rendere problematico affrontare questioni che vadano al di là di una tale area. Questo fenomeno è in effetti alla base dell’ideale dell’interdisciplinarietà, secondo cui persone con conoscenze diverse ma che collaborano tra loro sarebbero meglio in grado di risolvere questioni di più ampio respiro. Resta tuttavia il problema che, in molti contesti, un team interdisciplinare di scienziati non avrà il tempo – e talvolta nemmeno le competenze – per analizzare i presupposti concettuali e metodologici della propria area di ricerca oppure le conseguenze etiche di certe ipotesi e scoperte, ed è proprio qui che i filosofi e le filosofe della scienza entrano spesso in gioco.
Essendo noi principalmente interessati alla filosofia delle scienze biomediche ci viene naturale portare un esempio in questo ambito. Pensiamo a un/a biologo/a molecolare che sia impegnato/a ad analizzare una certa proteina e il ruolo che essa svolge nello sviluppo di un disturbo mentale come la depressione. Trattandosi di un tema interdisciplinare, questo/a ricercatore/trice lavorerà idealmente in un team con altri/e ricercatori/trici tra cui, per esempio, un/a genetista e un/a neuroscienziato/a. Nella loro quotidianità, tuttavia, gli/le scienziati/e del team faranno fatica a trovare il tempo per analizzare la colossale letteratura sul tema, che potrà coinvolgere domande che comprendono la definizione dei disturbi mentali, il rapporto causale tra proteine e stati mentali, la definizione di cosa sia “normale” e cosa no, lo sviluppo storico del concetto di depressione, le conseguenze etiche o sociali che una certa ricerca potrebbe avere sul trattamento della depressione e così via. I filosofi e le filosofe della scienza, al contrario, fanno esattamente questo, cercando di esaminare e problematizzare simili questioni di carattere generale, ed eventualmente avanzare una qualche risposta.
Un tema correlato ed estremamente importante, soprattutto nello scenario pandemico attuale, riguarda in che modo i dati scientifici – ma più spesso il loro significato più profondo, che è di natura filosofica – vengono comunicati al grande pubblico e utilizzati per prendere decisioni pratiche di rilevanza politico-sociale. Siamo convinti che la ricerca filosofica possa quindi svolgere un ruolo attivo non solo per porre le basi di un rapporto più solido e “salutare” tra scienziati/e e non scienziati/e, ma anche per aiutare le istituzioni che mediano tale relazione.
Cos’è la scienza oggi?
Anche per coloro che si occupano di filosofia della scienza non è affatto facile rispondere a questa domanda. Da un lato, si può dire che la scienza sia un mezzo conoscitivo caratterizzato da un approccio molto specifico, cioè quello che chiamiamo metodo scientifico o metodo sperimentale. In questo senso, la scienza sarebbe quell’insieme di strumenti, metodologie, ragionamenti e concetti che ci aiutano ad analizzare e descrivere la realtà che ci circonda. Per esempio, molte spiegazioni scientifiche godono di un elevato grado di affidabilità per via del tipo di ragionamenti da cui derivano (a questo tema abbiamo dedicato i capitoli “Ragionamento scientifico” e “Spiegazione scientifica”).
Da un altro punto di vista – anch’esso centrale per la filosofia della scienza, ma forse ancora di più per la sociologia della scienza – la scienza è molto più che un metodo: si tratta di una attività svolta da esseri umani, i ricercatori e le ricercatrici. In questo senso è forse più appropriato chiedersi che cosa sia la ricerca scientifica, più che la scienza in sé, e guardare quindi a cosa facciano i ricercatori e le ricercatrici nel concreto e quale sia il loro ruolo nella nostra società. Volendo semplificare un po’ si potrebbe dire che, nel loro quotidiano, i ricercatori e le ricercatrici tentano di partecipare al progresso conoscitivo, talvolta producendo risultati vistosi ma più spesso contribuendo a “sistemare” i piccoli pezzi di un puzzle più grande.
In effetti, si tratta di un processo piuttosto caotico e difficile da riassumere in poche righe. Il progresso scientifico avviene in modo tutt’altro che lineare e, anzi, a uno sguardo attento la storia della scienza appare come un percorso tortuoso e ramificato, fatto di scoperte talvolta casuali che ricevono conferma solo dopo molto tempo, di rivoluzioni scientifiche grandiose, ma anche di grandi dibattiti e vere e proprie “cantonate”. A questi temi abbiamo dedicato alcuni capitoli del libro, tra cui “Scoperta e giustificazione” e “Cambiamento scientifico”.
Per rispondere alla domanda “che cos’è la scienza oggi?” occorre anche considerare aspetti che vanno al di là della pura produzione di conoscenza. Infatti, una descrizione realistica della scienza deve tenere anche conto di tutta una serie di elementi psicologici, sociali, politici, economici ed etici che possono influenzare, indirizzare o persino “corrompere” la ricerca scientifica – direttamente o indirettamente. Si tratta in realtà di un problema molto complesso che abbiamo cercato di far emergere tra le righe nel corso dell’intero libro, fino a trattarlo più nel dettaglio nel capitolo “Valori”, dedicato al ruolo dei valori epistemici e non-epistemici all’interno della scienza.
Qual è la differenza tra scienza e pseudoscienza?
Quello della demarcazione tra scienza e pseudoscienza è forse uno dei temi più classici della filosofia della scienza del Novecento, un problema che ha tenuto impegnati pensatori del calibro di Rudolf Carnap e Karl Popper. Il problema non riguarda tanto la distinzione tra quelle discipline o teorie che si basano sul cosiddetto metodo scientifico e quelle che invece non ne fanno uso e che, quindi, più o meno esplicitamente non si autodefiniscono come scientifiche – si pensi, per esempio, alla letteratura, all’arte o alla teologia. La questione critica – e più difficile da chiarire – ha piuttosto a che fare con il tracciare una linea di demarcazione rispetto a quelle discipline o teorie che sembrano basarsi sul metodo scientifico oppure che, pur avendo alcune caratteristiche tipiche delle varie scienze, per qualche motivo non rispondono agli standard richiesti dalla comunità scientifica.
Chiaramente, la domanda che sorge spontanea è quali siano tali standard e quali siano le caratteristiche tipiche di una disciplina o di una teoria propriamente scientifica.
Un possibile approccio al problema è quello di tentare di stabilire un insieme di proprietà che giudichiamo essere essenziali affinché si possa parlare propriamente di una disciplina o di una teoria scientifica e, di volta in volta, verificare se tali proprietà si possano applicare allo specifico caso in questione. Si tratta certo di un approccio chiaro e apparentemente convincente ma, come abbiamo tentato di mostrare nel capitolo “Scienza e pseudoscienza”, nasconde importanti criticità.
Consideriamo per esempio il fatto che molte teorie scientifiche tentano di sviluppare un quadro coerente e sistematico, capace di spiegare e prevedere determinati fenomeni. Questo, tuttavia, non sembra un criterio sufficiente per identificare tutte e sole le scienze: alcune teorie pseudoscientifiche hanno infatti lo stesso tipo di obiettivo – l’astrologia, che è notoriamente considerata una pseudoscienza, è un caso emblematico.
Un criterio alquanto diverso e assai noto, proposto da Karl Popper, stabilisce invece che una teoria scientifica debba essere in linea di principio falsificabile alla luce di evidenze sperimentali o di nuovi dati. Ciò significa che le teorie propriamente scientifiche sarebbero tali da non essere compatibili con ogni corso dell’esperienza, mentre quelle pseudoscientifiche sarebbero invece compatibili con qualsiasi evidenza possibile.
Anche il criterio popperiano presenta tuttavia delle difficoltà e rischia di non rendere conto della complessità della scienza e del mondo che essa si propone di indagare. Poiché riuscire a caratterizzare in modo univoco la scienza risulta arduo, si è allora proposto di descrivere i problemi che si presentano più frequentemente nelle pseudoscienze, come la tendenza a invocare ipotesi ad hoc, a trascurare la rilevanza di nuove ricerche al fine di evitare la falsificazione, a spostare l’onere della prova sugli scettici, a rifiutare il confronto con altri esponenti della comunità scientifica e così via.
Le teorie scientifiche sono in grado di fornire una descrizione vera del mondo?
Il tema della verità in ambito scientifico è un tema sempre attuale e controverso che viene toccato soprattutto all’interno del dibattito tra realismo e antirealismo. Un modo di concettualizzare tale contrapposizione, infatti, coinvolge quelli che sono gli scopi ultimi della scienza o, alternativamente, i risultati cui la scienza di fatto perviene. In ottica realista, la scienza avrebbe allora come scopo ultimo quello di mettere a punto descrizioni vere del mondo o, in termini un pochino più forti, sarebbe effettivamente in grado di elaborare teorie vere o perlomeno approssimativamente vere. Queste istanze sono invece negate dall’antirealismo, perlomeno per quanto riguarda gli aspetti non osservabili del mondo. Al cuore del dibattito tra realismo e antirealismo vi è infatti un sostanziale disaccordo rispetto all’esistenza e alla conoscibilità delle entità inosservabili, vale a dire di tutte quelle entità che non sono direttamente osservabili tramite i nostri cinque sensi, ovvero che sono rilevabili solo tramite un’adeguata strumentazione tecnologica – si pensi per esempio agli atomi, alle onde gravitazionali o alle proteine.
Decidere chi tra realisti e antirealisti abbia ragione non è una cosa semplice, e per questo non è affatto immediato rispondere alla domanda se le teorie scientifiche siano in grado di fornire una descrizione vera del mondo oppure siano solo strumenti utili a fare previsioni o a interpretare i fenomeni (abbiamo trattato questi temi nel capitolo “Realismo e antirealismo”).
Un altro aspetto interessante rispetto alla capacità della scienza di offrire descrizioni vere del mondo riguarda invece la nozione di modello – si pensi, per esempio, al modello atomico di Rutherford, che rappresenta il nucleo degli atomi come una stella e gli elettroni come i pianeti che vi orbitano attorno. Esistono ovviamente molti tipi diversi di modelli (per esempio, modelli matematici, modelli animali, modelli computazionali e così via) ed è spesso in relazione a questi che ci si pone domande non tanto sulla verità, quanto piuttosto sulla verosimiglianza delle descrizioni scientifiche.
In generale, un modello rappresenta un certo fenomeno semplificandolo, vale a dire idealizzando alcuni dei suoi tanti aspetti o escludendo variabili giudicate di importanza secondaria. In questo senso, un modello scientifico è sempre letteralmente falso ma ciononostante mantiene un importante valore esplicativo e predittivo. Un esempio, considerato nel capitolo “Modelli ed esperimenti”, riguarda la modellizzazione di un gas come un insieme di palle da biliardo: sebbene una tale modellizzazione coinvolga molte idealizzazioni e semplificazioni rispetto alla natura reale dei gas, essa permette comunque di fare previsioni utili. Similmente, anche in molti esperimenti scientifici si tenta di indagare certi fenomeni o aspetti della realtà in contesti “controllati”, dove è possibile ridurre la loro complessità e facilitare così la loro comprensione. Ciò è accaduto, per esempio, negli esperimenti di Gregor Mendel in genetica.
In che misura l’impresa scientifica è influenzata da valori etici, politici, economici o religiosi?
Come accennavamo prima, è opinione diffusa che la ricerca scientifica non sia del tutto indipendente da giudizi di valore, ma che sia anzi influenzata da fattori extra scientifici come le ideologie politiche e gli interessi economici, ma anche dai cosiddetti bias cognitivi, che possono affliggere tanto i ricercatori quanto qualsiasi altro individuo, o da intuizioni etiche personali, che possono guidare verso certe scelte metodologiche piuttosto che altre. In ambito filosofico questi elementi vengono di solito categorizzati in due macro categorie: i valori epistemici e i valori non epistemici.
Alcuni valori epistemici che, tradizionalmente, si ritiene caratterizzino le teorie scientifiche sono la coerenza interna e la semplicità. Per esempio, il fatto che una teoria scientifica sia coerente (cioè non contenga al suo interno delle contraddizioni) non è certo un fatto “scientifico”, non dipende cioè dai dati empirici né da come è fatto il mondo, ma è considerato comunque un valore altamente desiderabile di qualsiasi teoria scientifica. Similmente, non è detto che una teoria “complicata” sia in assoluto peggiore di una teoria più semplice, ma di fronte a due teorie che spiegano i fenomeni in modo ugualmente efficace si tende di solito a preferire quella più “snella” – per esempio, quella che coinvolge un numero di minore di assunti di base o che prevede l’esistenza di un numero minore di entità.
L’aspetto più controverso riguarda però i cosiddetti valori non epistemici, vale a dire quell’insieme eterogeneo di elementi intuitivamente considerati extra scientifici, come i valori morali, sociali, religiosi, politici, estetici, economici e così via. Tradizionalmente si è a lungo ritenuto doveroso estromettere tali valori dall’impresa scientifica, perseguendo così l’ideale di una scienza completamente priva di valori (value-free science). Nel dibattito contemporaneo si sta invece sempre più affermando l’idea che un tale ideale sia irraggiungibile, non solo di fatto ma anche in linea di principio.
Come abbiamo cercato di spiegare nel capitolo sul tema (“Valori”), il dibattito circa quali valori non epistemici siano maggiormente in grado di influenzare la ricerca scientifica e, forse ancora più importante, quali di questi valori possano essere propriamente ammessi nel contesto della scienza è oggi piuttosto acceso. Occorre infatti notare come i valori non epistemici riguardino spesso aspetti socialmente desiderabili, legati cioè a scopi benevoli che motivano e orientano la ricerca scientifica.
Per esempio, una teoria scientifica può incarnare il tentativo di incrementare il benessere della società, promuovere la salute o favorire la coesione sociale o l’uguaglianza. Non si tratta quindi di fattori necessariamente negativi o corruttivi. Inoltre, se da un lato è ragionevole richiedere che le istituzioni scientifiche siano indipendenti rispetto ai poteri economici, politici e religiosi (finanziamenti privati, veti politici/etici/religiosi eccetera), dall’altra è altresì auspicabile che valori di questo tipo giochino un ruolo determinante nella scelta delle domande, delle metodologie e delle strategie di ricerca delle varie scienze. Questo non solo per dirigere la ricerca scientifica laddove ce ne sia più bisogno, come accaduto durante la pandemia di Covid-19, ma anche per evitare pratiche scientifiche aberranti, come quelle che hanno caratterizzato il nazismo.
Quali, tra le questioni presentate nel volume, sono destinate, a Vostro avviso, ad animare in misura crescente il dibattito futuro?
Molte delle questioni affrontate nel volume sono al centro di vari dibattiti che animano la filosofia della scienza contemporanea. Una questione che riteniamo particolarmente attuale riguarda proprio l’interazione tra fatti e valori. Se è vero che la scienza non assomiglia a una mera raccolta di fatti più di quanto non assomigli a una raccolta di francobolli, è altresì essenziale riconoscere come la presenza di valori non comprometta affatto l’oggettività, la razionalità e l’affidabilità stessa della scienza. Capire come ciò sia possibile è essenziale non solo per acquisire un’immagine realistica e non caricaturale della scienza, ma anche per imparare a fidarsi maggiormente dei suoi risultati.
Maria Cristina Amoretti è professoressa associata di Filosofia della scienza all’Università degli Studi di Genova
Davide Serpico è ricercatore post-dottorato in Filosofia della scienza