“Filosofia dell’ambiente. Ontologia, etica, diritto” di Andrea Porciello

Prof. Andrea Porciello, Lei è autore del libro Filosofia dell’ambiente. Ontologia, etica, diritto edito da Carocci: quale opera di decostruzione e ricostruzione si rende necessaria per una svolta ontologica in senso ecologista?
Filosofia dell’ambiente. Ontologia, etica, diritto, Andrea PorcielloInnanzitutto, permettetemi di ringraziarvi per l’attenzione che state riservando al mio recente volume dedicato alla crisi ecologica. Credo che l’unico modo serio di affrontare la crisi ambientale richieda perentoriamente un cambio di paradigma, innanzitutto ontologico, attraverso il quale inaugurare un percorso grazie al quale l’essere umano possa ripristinare in maniera sana e intelligente i propri rapporti con il mondo naturale, rapporti ormai del tutto corrotti ed inquinati, sin dalle radici, da bieche logiche di sfruttamento e di profitto. E il primo passo da compiere dovrà necessariamente attenere alla stessa collocazione dell’essere umano all’interno delle gerarchie naturali dell’universo. Nella consapevolezza che fin quando (e contro ogni evidenza ontologico scientifica) tale collocazione resterà ingiustificatamente centrale e caratterizzata da una altrettanto ingiustificata supremazia, ciò non consentirà alcun progresso reale in ambito ecologico. Da qualche tempo governi e mass media parlano incessantemente di transizione ecologica, ma a mio avviso lo fanno nel modo sbagliato, perché nessun tipo di legislazione verde e nessun buon proposito politico potranno cambiare le cose se non verranno introdotte e anticipate da questa rivoluzione culturale. Sovrapporre all’erronea percezione che l’essere umano ha di se stesso e della dimensione naturale estemporanei provvedimenti dedicati alla tutela ambientale e alla protezione della natura non potrà in alcun modo costituire una soluzione efficace e definitiva. Perché fino a quando la natura verrà percepita come un insieme di cose, il cui valore è misurabile in base al quanto esse siano utili all’essere umano, la situazione sarà destinata a peggiorare, anche quando guarnita con legislazioni apparentemente ispirate dalle più nobili intenzioni ecologiche.

Se l’essere umano vuole affrontare con successo la crisi ambientale, e ammesso che ci sia ancora tempo per farlo, dovrà ripensare l’ontologia in cui ha collocato se stesso, dovrà far propria un’idea, semplice da cogliere superficialmente, ma molto difficile da metabolizzare in modo profondo: l’idea per cui è indispensabile concepire se stesso come parte della natura, come una delle sue infinite espressioni di vita e la natura come un sistema complesso di relazioni dotate di valore intrinseco, a prescindere dall’utilità che l’essere umano possa ricavarne. Tale faticosa opera di decostruzione e di costruzione ontologica che sta alla base di qualunque svolta in senso ecologista della comunità umana dovrà svolgersi lungo un percorso che prima riguarderà le coscienze individuali, il modo in cui gli individui concepiscono loro stessi e il mondo e poi le istituzioni pubbliche, in primis quelle giuridiche ed economiche, un percorso, quindi, che è in parte interiore, in quanto presa di coscienza ecologista, ed in parte esteriore, in quanto ripensamento della gestione pubblica dei beni comuni.

Alla luce di tali propositi e sulla scorta degli insegnamenti di alcuni grandi filosofi e scienziati del XX secolo, nel volume propongo una fondazione ontologica dell’etica ambientale, aderendo ad una prospettiva che potremmo definire olistica e naturalistica, e pongo l’esigenza di un profondo e, per molti versi, drastico cambio di paradigma in ambito ontologico, nella convinzione che l’ecologia potrà sbocciare e diffondersi, potrà costituire “realmente” uno stile di vita, una categoria mentale, un modo di essere, soltanto se prima riusciremo ad attribuire alla natura, e quindi in parte a noi stessi, un nuovo e più corretto (nel senso di adeguato) significato esistenziale. In effetti, come una certa traiettoria scientifica ci ha mostrato, i fatti della natura non sono semplicemente fatti, sono fatti che hanno delle “ragioni”, che possiedono una direzione e che, quindi, appaiono già pronti ad essere utilizzati per la progettazione di un’etica chiamata a regolare i rapporti tra gli esseri umani e l’universo che li circonda. Si tratta, dunque, di prendere sul serio gli insegnamenti, tutto sommato recenti, di scienze come la biologia, l’etologia e l’ecologia per “scoprire” che l’atteggiamento antropocentrico che contraddistingue da tempo immemore, ma non da sempre, il nostro agire e il nostro pensiero non trova nessuna giustificazione nei fatti della natura, anzi è con essi incompatibile. La conclusione, del tutto in linea con quanto sostenuto dai padri dell’ecologia profonda Naess e Sessions, si fonda sull’idea per cui l’ecologia esige un’ontologia non-antropocentrica. Il che comporta che fino a quando l’antropocentrismo non verrà abbandonato, i vari tentativi, tesi a rendere compatibile la crescita economica, lo sfruttamento ambientale con le esigenze ecologiche, appaiono come meri palliativi, ossia rallentamenti momentanei di una corsa che continua a procedere nella direzione sbagliata. Laddove l’ecologia profonda esige, invece, un cambio di direzione, drastico e radicale. È forse superfluo sottolineare che cambiare direzione non è cosa semplice: comporta il fatto di fermarsi, di orientarsi, di scegliere una direzione e infine di riprendere il cammino, prima in modo stentato e poi con la consueta disinvoltura. Insomma, comporta il fatto di perdere del tempo e anche del denaro. Questo è il prezzo da pagare per una seria assunzione di responsabilità nei confronti della natura, delle persone presenti e anche di quelle future. La promessa che oggi una certa economia sta diffondendo relativa alla possibilità di salvare l’ambiente senza andare in contro a nessun sacrificio, semplicemente dando una mano di “verde” al cibo che mangiamo, alle macchine che guidiamo e soprattutto ai gas che immettiamo nell’atmosfera, senza cambiare nulla di noi stessi e del modo in cui rappresentiamo l’universo, è solo un’illusione, un’illusione molto redditizia, ma pur sempre un’illusione. Le ragioni economiche e quelle ecologiche sono per lo più incompatibili, impongono una scelta di campo su ciò che è prioritario e su ciò che, invece, è solo strumentale. E ad oggi, l’azione politica dei Paesi ricchi in materia ambientale continua a manifestare una chiara preferenza per le ragioni economiche, anteposte in ogni contesto a quelle ecologiche.

A chi oggi crede che ciò costituisca un’utopia, rispondo semplicemente constatando che questa rivoluzione ontologica è già iniziata, spontaneamente, dal basso: i milioni di ragazzi e di ragazze di Fridays for Future, che in tutto il mondo stanno lottando per i diritti dell’ambiente e delle generazioni future, sono molto di più di un movimento ecologista. Manifestano un modo nuovo di guardare alla natura, di interagire con essa, detto altrimenti, un modo nuovo di stare al mondo. Il problema è che questo nuovo sentire, che indubbiamente esiste, è soffocato da politiche economiche pubbliche e private che invece poggiano sulle vecchie logiche capitalistiche dello sfruttamento e del mercato.

Come può svilupparsi tale percorso ed in che modo etica e diritto sono chiamati a confrontarsi con questa “rivoluzione” ontologica?
Il percorso che ho immaginato prevede tre momenti: ontologia, etica e diritto che, nel loro insieme, costituiscono uno sviluppo logico del pensiero in cui ciascun momento presuppone il precedente e al contempo giustifica il successivo, ai quali ho dedicato i tre capitoli che compongono il volume. Una volta chiarito che la rivoluzione ecologia deve iniziare in sede ontologica, con una nuova percezione dei fatti naturali, diverrà essenziale mettere mano al discorso etico, ossia al contenuto che un discorso etico sull’ambiente ontologicamente fondato dovrebbe, innanzitutto per ragioni di coerenza, fare proprio. In base all’idea che cerco di sostenere nel libro, l’etica ambientale, quando costruita a partire dall’ontologia naturale, da ciò che la natura “è” e dal modo in cui essa realmente funziona, non può consistere in un mero aggiustamento dell’etica tradizionale interumana attraverso cui limare qui e lì quello che non convince o aggiungendo qualcosa dove quell’etica si mostra carente. Differentemente, l’etica ambientale, se non vuole tradire i suoi presupposti ontologici, dovrà necessariamente poggiare sull’idea di natura in quanto “intero” composto da relazioni dotate di “valore intrinseco”. In quest’ottica, l’etica ambientale non può essere considerata un caso speciale dell’etica generale, essa costituisce un ambito di ricerca indipendente e autonomo, i cui princìpi fondativi non vanno reperiti nella filosofia di Kant o in quella del nemico consequenzialista Bentham, ma nella struttura stessa della natura e nelle leggi che rendono ottimale il suo funzionamento. In quest’ottica, diviene essenziale in riferimento a Naess e alla nota distinzione tra l’ecologia di superficie, oggi imperante, e l’ecologia profonda o del profondo. Ebbene, mentre la prima, l’ecologia di superfice si oppone all’inquinamento e allo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali, soprattutto se non rinnovabili, fondamentalmente al fine di salvaguardare l’elevato tenore di vita dei popoli dei paesi industrializzati e rimanendo, dunque, costretta all’interno di un paradigma culturale chiaramente antropocentrico; l’ecologia di Naess pone, invece, l’esigenza di un vero e proprio ribaltamento di paradigma, la stessa esigenza che anche Jonas aveva posto alla base della sua teoria della responsabilità: l’esigenza di una visione totalmente nuova della natura, dell’essere umano e conseguentemente della stessa questione ambientale che, agli occhi dell’ecologista profondo, andrebbe risolta, non in via strumentale per migliorare la condizione umana, ma per realizzare un valore che è intrinseco nella natura e alle relazioni che essa contiene. In questo senso la proposta filosofica di Naess, che in gran parte mi sento di sottoscrivere, va intesa innanzitutto come un netto rifiuto della tradizionale immagine dell’essere umano concettualmente distinto dall’ambiente naturale in cui si trova (man in environment image), in favore della contrapposta immagine della dimensione relazionale naturale a “campo totale”, per la quale ciascuna entità naturale, nonché la natura nel suo complesso si compongono, oltre che di proprietà che sono loro intrinseche, anche di relazioni che tengono insieme tutte le entità. Isolare singole parti del tutto, sganciandole dalla rete di relazioni a cui appartengono, comporta una totale distorsione della realtà e della percezione ontologica che di essa abbiamo.

Il percorso delineato trova, infine, la sua chiusura nel momento giuridico: la devastazione ambientale non comporta solo violenza e corruzione delle leggi naturali, non è soltanto danno materiale alle cose della natura (o sarebbe meglio dire, alla natura ridotta ad insieme indistinto di cose), è anche corruzione dei princìpi di giustizia su cui poggia la convivenza tra gli esseri umani e tra questi ultimi e le altre specie. Princìpi che l’essere umano, ormai da secoli, da una parte sancisce solennemente nelle sue carte costituzionali e poi dall’altra bypassa “allegramente” nelle sue strategie d’azione, ogni qualvolta qualcuno o qualcosa osi ostacolare la sua brama di guadagno. Da ciò deriva l’idea per cui la crisi ambientale costituisce (anche) un problema di (in)giustizia, che può trovare nel diritto alternativamente, e paradossalmente, un complice, un’arma, oppure un nemico e, dunque, una soluzione. Il problema, dal punto di vista del diritto e della teoria del diritto e della politica, è che la parte di umanità che sta distruggendo il pianeta depredando e inquinando in modo irreparabile i suoi ecosistemi, che sta mettendo in ginocchio la natura e con essa anche la parte di umanità che da sempre osserva impotente subendo tale sfacciata e sfrenata ingordigia, sta realizzando tutto ciò con la complicità del diritto o comunque senza trovare nel diritto un vero limite alla sua azione. Per queste ragioni, mi sembra inevitabile il fatto di vedere nella questione ambientale, in quanto questione di (in)giustizia, l’ennesimo capitolo di una storia che noi europei conosciamo fin troppo bene, la storia dell’Europa imperialista e colonialista. Sganciare la crisi climatica, lo sfruttamento delle risorse, gli odierni fenomeni migratori (che avvengono soprattutto per ragioni climatiche) da quella storia, significa rinunciare a cogliere il significato più profondo di questi eventi e soprattutto significa impedire l’avvento di una svolta ecologica degna di questo nome. Perché la distruzione ambientale oggi perpetrata in nome della Green Economy dai Paesi più ricchi e dalle loro multinazionali nella parte povera del pianeta manifesta, pur con le dovute differenze, quella stessa attitudine al dominio, alla prevaricazione e al guadagno che ha caratterizzato il vecchio e mai sopito colonialismo. Ma è importante tenere a mente che questo esercizio di dominio, ora come allora, oltre che dalla tecnologia, dalle armi, dal denaro, è stato reso possibile da uno strumento assai più complesso, cangiante e variegato, il camaleontico strumento giuridico. E ancora oggi, se le multinazionali violano i diritti morali e giuridici delle comunità indigene, nonché le leggi della natura (ossia le leggi che disciplinano il suo funzionamento), riescono a farlo perché in tal senso autorizzate, o se non autorizzate quantomeno non inibite, da un diritto complice e fintamente permeabile alle ragioni dell’ecologia.

Per cui, la presa di coscienza di cui parlo nella prima parte del volume dovrà necessariamente, prima o poi, divenire norma giuridica, il cambio di paradigma ontologico (relativo tanto ai fatti quanto ai valori) dovrà necessariamente dare avvio ad un corrispondente cambio di paradigma in ambito giuridico. L’attuale diritto ambientale, che nella maggior parte dei casi tenta, e con scarso successo, di barcamenarsi tra le esigenze della natura e quelle delle multinazionali dando immancabilmente spazio alle seconde, dovrebbe abbandonare la logica del compromesso sposando in modo nitido, fermo ed esplicito la causa ambientale. Da “inquina, ma con moderazione”, principio ispiratore delle attuali legislazioni in tema di ambiente, si dovrà necessariamente passare ad un secco “Non inquinare”, dai meccanismi dei Carbon Credits e dei Biodiversity Offsets si dovrà passare alle sanzioni, all’idea di limite. Perché, quando i diritti, la grande conquista della nostra civiltà giuridica, pensati per i più deboli e gli indifesi, diventano di fatto scudo dei più forti, il dominio diviene senza freni.

In molte pagine del suo libro Lei collega la crisi ambientale al capitalismo e al colonialismo, può spiegare le ragioni di questa connessione?
Spesso si dimentica che la percezione della diversità che ha fatto da sfondo alla nascita dello Stato moderno, oltre a creare i confini di un impero, ha creato anche e soprattutto il perimetro di una mentalità, una forma di etnocentrismo che ha lasciato pesanti tracce sul modo in cui gli occidentali si sono sempre rapportati, e per molti versi continuano a rapportarsi all’umanità con cui si sono imbattuti nei loro percorsi espansionistici. Tutti gli atti di oppressione, di violenza e di umiliazione di cui gli europei si sono resi protagonisti nei “nuovi” universi hanno trovato fondamento e giustificazione in una chiara tendenza, che è innanzitutto teorica, a “disumanizzare il selvaggio”. Fu giusto espropriare, deportare, uccidere o semplicemente umiliare i nativi americani, gli indios, gli africani banalmente perché essi non erano realmente umani, mancava loro una componente essenziale dell’umanità, l’anima. Erano anima nullius come sottolinea De Sousa Santos. E lo stesso accadde alle loro immense e ricchissime terre, il vero obiettivo di qualunque espansionismo coloniale, terre che poterono essere occupate con la forza e saccheggiate delle loro risorse perché, ancora una volta, non appartenevano a nessuno, perché secondo l’imperituro diritto dei romani erano res nullius. Ed effettivamente lo erano, perché per quelle culture, per quelle cosmovisioni condivise da tutti i popoli nativi delle Americhe, essere padrone di un cavallo o proprietario della terra costituiva un non senso:

I nativi delle Americhe hanno incarnato ante litteram l’idea centrale dell’ecologia profonda, la sua propulsione interna, l’idea del Sé ecologico, epilogo di quel processo di autorealizzazione che secondo Naess, come si è detto, dovrebbe precedere qualunque svolta individuale e sociale in senso ambientalista. Questi popoli sono nati ecologisti, il loro stile di vita presupponeva naturalmente quella concezione del che oggi appare a molti come una conquista lontana, se non addirittura impossibile da realizzare. Uno stile di vita, un modo di guardare al mondo e di agire su di esso che, soprattutto, è apparso del tutto indecifrabile agli occhi dei colonizzatori cristiani e assetati di terre e di denaro che sbarcarono in quel “mondo” senza padroni: quando gli europei arrivarono nelle Americhe quello che videro, o meglio quello che poterono vedere dal “loro” punto di vista, fu semplice natura incontaminata in cui popolazioni “selvagge” del tutto prive di alcuna cognizione tecnica in ambito agricolo sopravvivevano in condizioni di vita arretrate e dissolute. E ciò, a quanto pare, fu sufficiente per dare ai colonizzatori il diritto di realizzare uno dei più terribili genocidi che la storia umana abbia sperimentato (e al contempo uno dei più grandi affari economici). I libri di storia, soprattutto i libri statunitensi, parlano molto di ciò che gli europei videro al loro arrivo e molto poco, invece, di quello che non riuscirono a vedere: davanti ai loro occhi non c’era semplicemente natura incontaminata e, quindi, spreco, vista l’apparente imperizia agricola delle popolazioni native, ma una delle forme più intelligenti e sofisticate di gestione sostenibile del territorio mai praticata da essere umano, che oggi, peraltro, molti concepiscono come la nuova frontiera dell’agricoltura sostenibile.

Mentre gli europei vedevano (e vedono tuttora) nella terra, negli animali che la abitavano e nel suo sottosuolo semplicemente oggetti da sfruttare, cose che possiedono valore soltanto nella misura in cui producono beneficio per lo sfruttatore, i nativi americani avevano già capito che qualunque forma di sfruttamento dell’ambiente doveva necessariamente svolgersi secondo le leggi immanenti nella natura, ossia nel rispetto delle relazioni interne ai suoi ecosistemi. Nella loro ottica l’azione dell’uomo non rappresentava un momento di frattura di quel flusso spontaneo che la natura utilizza per pervenire ad una qualche forma di equilibrio, inserendosi, bensì, in quel flusso e contribuendo come e più degli altri esseri viventi al mantenimento dell’equilibrio naturale dell’intero.

Gli europei, come d’altronde hanno fatto in tutte le terre che hanno conquistato durante i secoli delle grandi colonizzazioni, anziché sforzarsi di comprendere, magari per imparare, hanno scelto di sterminare quelle popolazioni e di cancellare le loro tecniche, la loro filosofia, la loro spiritualità e la loro storia, costringendo i pochi superstiti in riserve che ancora oggi si collocano ai margini delle società. È superfluo notare che dietro questa pagina così buia della storia europea e americana si cela banalmente un’insaziabile brama di risorse e di denaro, niente di più e niente di meno. Perché, evidentemente, e nonostante il monito di Toro Seduto, gli europei non sapevano, e molto spesso non sanno tuttora, che il denaro non si mangia.

Chi oggi crede che sia possibile essere ecologisti conservando la forma mentis dei colonizzatori dovrebbe ricordare questa triste storia. Dovrebbe ricordare che l’antropocentrismo, che in astratto potrebbe anche essere condivisibile quando concepito come l’inevitabilità di guardare al mondo da un punto di vista situato, quando impiegato nel concreto si traduce inevitabilmente in prevaricazione, innanzitutto su ciò, umano o non umano che sia, che si pone come ostacolo, nella maggior parte dei casi inconsapevole, ad un pieno sfruttamento delle risorse naturali. E contro ogni idea ontologica gestaltista, questa mentalità riduce i fiumi a fonti di energia, le foreste a fonti di legname, il sottosuolo al carbone e al petrolio che contiene e gli animali alla carne che possono fornirci: la natura per gli occidentali è un ammasso informe di cose che ha valore nella misura in cui può essere convertito in denaro. E gli altri esseri umani che si oppongono a tutto questo, manifestando un differente modo di essere e di pensare, divengono essi stessi delle cose che possono essere utilizzate senza ritegno o eliminate quando ostacolano le logiche del guadagno. È superfluo ricordare che quando le braccia dei nativi americani iniziarono a scarseggiare gli europei costruirono l’America usando quelle di milioni di Africani.

Sono queste le ragioni che oggi mi spingono a ritenere che diventare ecologista sia ancora possibile, ma che non esistono scorciatoie, perché diventarlo richiede un lavoro introspettivo profondo e accurato, un autoesame di coscienza individuale e collettivo attraverso il quale poter fare i conti con i grandi tabù della storia occidentale, spesso occultati da ormai sedimentati processi di rimozione e di mistificazione dietro i quali potremo ritrovare, forse ancora intatte, le ragioni per le quali abbiamo commesso così tanti errori e soprattutto le ragioni che potrebbero spingerci a rimediare. Non si tratta solo di rileggere la storia e di prendere coscienza del fatto che essa è stata scritta dagli occidentali ad uso e consumo dell’Occidente come Jack Goody ha brillantemente suggerito.

Si tratta di prendere atto che in molti casi la prepotenza europea ha influenzato direttamente il corso delle “storie” altrui, e non soltanto la loro narrazione, negando ad altri popoli il diritto di avere una storia e scrivendo sulle ceneri di una storia mancata, quella propria. Se Goody sostiene che abbiamo letteralmente rubato la storia, impossessandoci indebitamente di tradizioni, usanze, pratiche e valori che sono divenuti improvvisamente proprietà esclusiva della civiltà e della cultura europee, io sto cercando di evidenziare che, come nel caso dei nativi americani, la storia dei nostri colonizzati non è stata semplicemente alterata e riscritta, è stata impedita, inibita e in molti casi cancellata. E con questa è stata cancellata la voce di quei popoli, il loro punto di vista sul mondo, il loro modo di concepire l’essere umano e, cosa molto importante per i nostri fini, il loro modo di rapportarsi con la natura. È, dunque, necessario guardare con sguardo critico a buona parte della nostra narrazione dei fatti, quantomeno per ciò che riguarda quella lunga fase, mai del tutto sopita, in cui gli europei hanno assolutizzato il loro punto di vista spacciando l’eurocentrismo per antropocentrismo e creando così le condizioni politiche, economiche e sociali che hanno determinato l’ingresso dell’umanità intera nell’Antropocene.

Così stando le cose, lo stesso termine Antropocene contiene in verità un elemento di mistificazione: a guardar bene, infatti, non ci troviamo nell’era geologica dominata dall’impronta dell’azione degli esseri umani, di tutti gli esseri umani, ma nell’era dominata dall’impronta di una loro minoranza, quella ricca, tecnologicamente all’avanguardia e, forse proprio per tali ragioni (benché sia difficile distinguere la causa dall’effetto), annebbiata da una cultura del dominio e della sopraffazione. Sarebbe, dunque, più corretto parlare (provocatoriamente) di Arguriocene (dal greco ἀργύριoν – ricchezza). In effetti, la ricchezza entra in gioco due volte: è il presupposto che consente ad una fetta di umanità di imporre un modello economico su scala planetaria ed è il fine di questa azione egemonica. In effetti, per come esso viene utilizzato in ambito mediatico e politico, il termine Antropocene non ha soltanto una valenza descrittiva, viene quasi sempre impiegato nei termini di un’attribuzione di responsabilità. Appare, quindi, profondamente ingiusto attribuire tale pesante responsabilità anche ai miliardi di persone che sono solo vittime, al pari dell’ambiente, delle pratiche commerciali egemoniche imposte loro dalla parte ricca del pianeta. Per tali ragioni, credo sia più corretto definire questa nostra era Arguriocene, l’era dominata dal denaro, in quanto mezzo ed in quanto fine dell’azione economico politica di prevaricazione di una parte sul tutto. Perché il discrimine tra i buoni ed i cattivi, tra gli oppressori e gli oppressi, tra i colonizzatori ed i colonizzati non attiene all’antropologia, a presunte tendenze innate di aristotelica memoria, attiene alla ricchezza e al potere tecnologico. Se l’ambiente è in ginocchio la responsabilità è di quella parte di umanità che da secoli, e grazie alla ricchezza che ha saputo accumulare, ha sottomesso tutto ciò con cui è venuta a contatto.

Il punto su cui vorrei adesso porre l’attenzione è che questa mentalità non riguarda solo il nostro passato, il nostro vecchio colonialismo caratterizza molte pratiche egemoniche contemporanee che nel loro insieme finiscono per perpetuare e rafforzare il medesimo modello, nonché la medesima mentalità prevaricatrice. Oggi come allora, la creazione e la negazione dell’altro, del diverso sono costitutive dei princìpi e delle pratiche egemoniche. Oggi come allora la nostra civiltà giuridica e politica si contrappone all’inciviltà dell’altro lato. E l’antropocentrismo occidentale, veicolato attraverso le pratiche economico giuridiche del neoliberismo capitalista, altro non è che una “nuova” manifestazione di quella “vecchia” forma mentis.

Molti dei fenomeni che caratterizzano la nostra storia più recente, a cominciare dai fenomeni migratori africani, possono, anzi devono, esser compresi e, a mio avviso anche gestiti, inquadrandoli nella dimensione politico-economica a cui con ogni evidenza appartengono, senza la quale diviene molto facile per i nuovi detentori della vecchia mentalità della “disumanizzazione del selvaggio” alterare i fatti, la loro percezione, generando così pericolose narrazioni che ricordano molto da vicino le menzogne che colorivano le edulcorate narrazioni del vecchio colonialismo. Dimenticare, o far finta di dimenticare, che il continente africano è stato profondamente saccheggiato, per secoli, della propria gioventù e delle proprie risorse, consente oggi a buona parte dell’intellighenzia e dell’establishment politico europeo di vedere nei migranti degli invasori armati di cellulari e scarpe firmate in missione per esportare terrorismo e rubare lavoro. La logica è sempre la stessa. Ha ragione Goody quando afferma che gli occidentali continuano a scrivere la storia dal loro punto di vista, cancellando tutto ciò che non gli fa comodo, tutto ciò di cui doversi vergognare.

Ma c’è di più. Perché le pratiche neocoloniali cui alludo, del tutto simili per tasso di violenza a quelle dei secoli passati, presentano oggi un’importante novità: oggi come allora compromettono l’ambiente, depauperano risorse essenziali, producono ingiustizia sociale e discriminazione ecologica, ma in più fanno tutto ciò, paradossalmente, in nome dell’ecologia, beninteso, di quella “superficiale” che nel precedente capitolo ho definito, e francamente credo a ragione, finta ecologia. I colonizzatori di oggi, Europa, Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone, Arabia Saudita ed incredibilmente anche l’India, direttamente attraverso i loro governi o, più di sovente attraverso ricche multinazionali che per forza economica e per capacità di penetrazione nel tessuto sociale hanno poco da invidiare a buona parte degli stati nazionali, pongono in essere le loro pratiche egemoniche, ovviamente sempre al di là della linea, secondo uno schema d’azione che si pone in rapporto di evidente continuità rispetto al tradizionale schema capitalistico dell’Occidente ai tempi del colonialismo. Si tratta dello schema che mi azzardo a definire “neoliberismo ecologista”, la più raffinata e pericolosa variante del vecchio capitalismo.

Quest’ultimo, oggi bollato ipocritamente dai nuovi capitalisti come antiquato e fuori moda, in primis perché in contrasto con le più recenti legislazioni in tema ambientale, com’è noto si concretizzava, soprattutto durante il grande espansionismo coloniale europeo, in enormi investimenti in paesi ricchissimi di risorse naturali con il duplice fine di sottomettere la popolazione locale, costretta a lavorare per la madre patria colonizzatrice secondo rigidi e meditati processi di assimilazione culturale e di depredare il territorio di tutte le risorse, rinnovabili e non, che era capace di offrire. Il rispetto della natura non rientrava nell’orizzonte culturale dei colonizzatori che vedevano tanto nelle terre, res nullius, quanto nelle persone lì stanziate, anima nullius, meri oggetti da depredare e da sottomettere, senza limite e senza ritegno. È per questa ragione che il capitalismo aveva tutto l’interesse a minimizzare la questione ambientale che, per l’appunto, non faceva parte né della sua agenda, né della sua retorica.

Il vecchio capitalismo, soprattutto quando applicato al di là della linea, quando utilizzato come strumento dell’espansionismo coloniale, ha generato sempre povertà, infelicità, instabilità politica e, non da ultimo, crisi degli ecosistemi naturali, con buona pace di chi oggi edulcora il significato di quelle pratiche in quanto strumenti posti addirittura a beneficio dei colonizzati. Il suo fine ultimo consisteva unicamente nella crescita del capitale, nel guadagno, nel denaro, qualsiasi fosse il costo, in primis in termini di risorse umane ed ambientali. E dal punto di vista morale, l’aspetto più negativo del capitalismo consisteva proprio nel fatto che il costo derivante dal suo agire fosse sempre a carico dei diseguali al di là della solita magica linea: i guadagni da un lato e i costi dall’altro.

Oggi, la nuova faccia del capitalismo si chiama neoliberismo ecologista e la sua più grande “virtù” (e ovviamente due sole virgolette non bastano) è quella di riuscire a rendere attraente e desiderabile ciò che obiettivamente la storia ha dimostrato essere ingiusto e distruttivo, il capitalismo dei regimi coloniali.

Andrea Porciello è professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro, dove insegna anche Teoria generale del diritto ed Etica e ambiente. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Principi dell’ordine sociale e libertà individuale. Saggio sulla Jurisprudence di Lon L. Fuller (Pisa, 2016) e Diritto e morale: tre questioni. Scorci critici di teoria del diritto (Pisa, 2021).

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