“Filologia umanistica greca” di Anna Meschini Pontani

Prof. Filippomaria Pontani, Lei sta curando l’edizione dell’opera Filologia umanistica greca, pubblicata dalle Edizioni di Storia e Letteratura, che raccoglie in 4 volumi (sono usciti per ora i primi due) le Kleine Schriften di Sua mamma, Anna Meschini Pontani. Come evidenzia nella Sua introduzione, «Anna Meschini, primogenita di una futura operaia della SNIA-BPD e di un futuro ferroviere delle FS, nipote di un contadino e di un sorvegliante d’acquedotto […] venuta alla luce in un contesto sostanzialmente medievale» divenne, «a 38 anni, uno dei più giovani professori ordinari d’Italia in una delle più antiche e gloriose università d’Europa»: come si è svolta la sua parabola intellettuale?
Filologia umanistica greca, Anna Meschini PontaniÈ una storia complicata, gloriosa e dolorosa come i misteri. È anzitutto la storia di un’ascesa sociale e culturale dovuta all’indefesso impegno di una studentessa dalle doti eccezionali, alle opportunità che l’Italia degli anni Settanta obiettivamente ancora offriva (oggi una simile parabola è assai ardua da immaginare), e ai sacrifici di una famiglia povera pronta – non senza esitazioni – a sostenere gli studi della figlia in nome di un futuro migliore. Nel contempo, è anche la fuga di una giovane dall’opprimente contesto della provincia di origine (la casa, la chiesa, la fabbrica), una fuga motivata dalla stessa insoddisfazione e dalla stessa insofferenza al conformismo e all’ingiustizia sociale che portò la sua amica e conterranea Barbara Balzerani a imboccare la via della lotta armata. Questa perenne insoddisfazione, un carattere tutt’altro che accomodante (anzitutto verso se stessa e i suoi errori), e l’estraneità di fondo alle consorterie, alle pastette, alle “amicizie che contano” – tutti elementi ahimè così importanti nel sistema accademico italiano – resero mia madre, fino ai suoi ultimi, drammatici anni, una persona per lo più schiva e isolata, sempre memore delle proprie origini, sempre in balía di un onnipresente senso del dovere, e spesso sconsolata nel vedere l’origine sociale avere la meglio sul merito individuale.

Come maturò, in lei, la fascinazione per la Filologia umanistica greca – disciplina che fu la prima a insegnare in Italia?
Quando ella, ancora giovanissima, ottenne un contratto presso l’Università di Padova, la Sezione di studi bizantini e neogreci appena fondata da mio padre Filippo Maria Pontani (il quale era sbarcato da pochi anni in accademia dopo lunghi anni di docenza liceale) ritenne che il fenomeno del greco umanistico, inteso come cerniera tra il mondo bizantino e i destini moderni del greco in Oriente e in Occidente, meritasse uno studio specifico e distinto, sia sul piano linguistico sia sul piano letterario. Fu un’intuizione precocissima, che giunse in un’epoca in cui lo studio paleografico dei copisti greci del Quattrocento (che avrebbe poi negli anni consentito tante identificazioni e attribuzioni, e dunque la ricostruzione di numerosi milieux culturali, biblioteche, centri di studio e di copia) era ancora ai suoi albori. D’altra parte, basti pensare che l’analisi scientifica della produzione letteraria in greco dei secoli XV e XVI è tuttora così arretrata (rispetto per es. a quanto avviene per l’àmbito latino) che la prima antologia della versificazione greca in età moderna è uscita nel 2022 – e sarebbe stata impensabile senza appunto l’abbrivio degli studi di mia madre, e di altri che l’hanno seguita.

Aggiungo un dettaglio non irrilevante: la Filologia umanistica greca è una disciplina che, più di altre, porta lo studioso a contatto con archivi, biblioteche, epigrafi, monumenti che fanno parte del tessuto storico del nostro Paese: questo legame con le pietre e con le carte dell’Italia fu in mia madre – nata, come detto, nel cuore del Latium vetus eppure del tutto aliena da ogni nazionalismo – sempre viscerale. Ella era persuasa, come lo sono anch’io, che non sia possibile studiare l’immagine di Firenze nelle fonti greche del Concilio del 1438-39 senza avere in mente la cavalcata dei Magi di Benozzo Gozzoli, o la controversia platonico-aristotelica del Quattrocento senza pensare al sepolcro di Pletone nel Tempio Malatestiano di Rimini, o le lezioni veneziane di Marco Musuro prescindendo dalla topografia di San Marco o di Sant’Agostin. Per chi studia il mondo delle lettere e della cultura classica si tratta di canali preziosissimi e delicati che legano – in modo spesso controverso, talora conflittuale – la tradizione antica a quella moderna: da questo punto di vista l’Italia offre un terreno di studio impareggiabile, che sta anzitutto a noi illuminare e vivificare.

In che modo, nei suoi scritti, emerge l’attitudine critica di Anna Meschini Pontani?
Gli scritti di Anna Meschini Pontani non sono una lettura semplice: fortemente fattuali, irti di dati, corredati di bibliografia sempre pazientemente discussa e digerita. Ella esercitava verso se stessa una severità pari a quella che riservava agli altri: documentare ogni affermazione, sfuggire alle vulgate critiche, o come minimo verificarne la fondatezza senza mai accogliere supinamente i risultati degli studiosi precedenti. Si tratta di un metodo che pare molto bello, e apparentemente quasi naturale, nel momento in cui lo si enuncia: ma va detto che nel panorama della pur assai prolifica ricerca umanistica odierna tale metodo è ormai praticato sempre più di rado, in tempi – i nostri, e mi ci metto anch’io, sia chiaro – in cui prevalgono i compendi, le sintesi, i ragionamenti speculativi sopra le sintesi altrui, mentre l’analisi di prima mano delle fonti (che richiede tempo e fatica, oltre a un’annosa formazione che metta in grado di praticarla) è appannaggio di una ristretta retroguardia. La pretesa di “vedere tutto” – o almeno di non lasciare mai nulla di intentato, di non mettere la polvere sotto il tappeto – in un’epoca in cui Google non esisteva, e buona parte del lavoro si faceva con schede cartacee da raccogliere pazientemente giorno per giorno, con microfilm che oggi giudicheremmo illeggibili e viaggi aleatori e dispendiosi, ebbene quella pretesa implicava un enorme investimento di tempo e concentrazione, che solo poteva condurre a vere scoperte, a veri avanzamenti del sapere.

Di quali importanti scoperte su Manuele Crisolora, Ciriaco d’Ancona e Giano Làskaris le siamo debitori?
Su Manuele Crisolora compì la scoperta più notevole di tutta la sua vita (ricordo bene che era l’unica di cui lei, che per definizione non si gloriava mai di niente, riconoscesse l’importanza): partendo da un codice della Biblioteca Malatestiana di Cesena, capì che il titolo bilingue (greco-latino: del tipo «Ὁμήρου Ὀδύσσεια / Homeri Odyssea», «Δημοσθένης / Demosthenes») che apriva nei primi fogli vari manoscritti di autori soprattutto classici conservati in diverse biblioteche d’Italia e d’Europa, rappresentava l’ex-libris del primo maestro di greco dell’Umanesimo occidentale. Solo così fu possibile comprendere appieno l’entità del contributo di Crisolora alla conoscenza dell’eredità antica in Italia nei primissimi anni del Quattrocento, oltre che la vastità e la profondità delle sue letture (e, particolare non secondario, ricavare un termine di confronto irrefutabile per riconoscere le sue postille autografe sui margini di tanti dei libri che portò con sé dall’Oriente).

Di Ciriaco d’Ancona, sommo viaggiatore, lettore accanito, e padre dell’epigrafia greca occidentale, seppe reperire la mano – inchiostri policromi, tratto assai elaborato e personalissimo – sui margini di un codice di Omero anch’esso conservato alla Malatestiana. Ma già in precedenza, raccogliendo e verificando i dati altrui e aggiungendo nuove scoperte, aveva compilato il più completo censimento esistente delle sue scritture greche, dalle iscrizioni ai disegni, dagli excerpta di autori antichi ai notabilia, dalle annotazioni marginali alle poesiole in metri incerti. Ne emerse che Ciriaco non fu mai un vero ellenista al livello di altri umanisti italiani, anche se la sua sete di sapere fu sconfinata, e la sua personale conquista del greco, impervia quanto ostinata, raffinata quanto edonistica, squaderna sotto i nostri occhi un momento cruciale nell’appropriazione dell’eredità antica.

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Di Giano Làskaris, poliedrica figura di poeta, diplomatico, filologo e agitatore culturale vissuto tra la seconda metà del XV e la prima metà del XVI secolo, Anna Meschini Pontani fu la massima conoscitrice nel secolo XX: scoprì o reinterpretò molti documenti relativi alla sua biografia, e soprattutto curò l’edizione di molti suoi scritti, da alcune lettere private in greco, latino e volgare fino alla raffinatissima epistola a Pietro de’ Medici sull’alfabeto greco (così gravida di riflessi sulla concreta prassi epigrafica in età umanistica), dalla prolusione in lode delle lettere greche tenuta allo studio di Firenze nel 1493 fino alle “informationi” spedite a papi e sovrani in merito all’Impero Ottomano e in favore della Crociata contro i Turchi; e poi quella straordinaria raccolta che sono i suoi Epigrammi greci (15271), ammiratissimi nel XVI secolo nonostante (o forse proprio per) la loro difficoltà e raffinatezza, talora lambiccata ma inarrivabile per i contemporanei (aperta è la competizione con quelli di Angelo Poliziano, usciti postumi nel 1498). Di tutti questi scritti Anna Meschini Pontani ha fornito per prima edizioni e commenti insostituibili.

Qual è l’eredità culturale di Anna Meschini Pontani?
Ha ereditato e profondamente rinnovato una tradizione di studi cruciale, volta a illuminare un passaggio decisivo della storia della tradizione greca tra Medioevo ed età moderna. Ha lasciato, per soprammercato, una traduzione e un commento esemplare di uno degli storici bizantini più importanti e difficili, Niceta Coniata (il narratore dell’età comnena e della Caduta di Costantinopoli del 1204). Presso l’università di Padova ha curato per anni una biblioteca di studi bizantini che rimane tra le migliori d’Italia. Ha fornito un esempio rarissimo di dedizione agli studi, di rigore scientifico e di intransigenza morale.

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