
Qual era la condizione sociale degli insegnanti di grammatica e retorica nel mondo romano?
Sulla base delle testimonianze antiche, in particolare il De grammaticis et rhetoribus di Svetonio, non sembra che in età imperiale a Roma i grammatici e i retori godessero di una situazione sociale privilegiata: anzi la loro condizione era spesso servile e la loro azione fortemente dipendente da quella dei patroni. Certo, esistono eccezioni, e alcuni maestri seppero riscattarsi, in virtù del proprio prestigio e delle proprie conoscenze, dall’emarginazione sociale, che li ‘condannava’ a una sorta di marginalità, e ascendere nella scala sociale, fino ad arrivare a posizioni economiche di rilievo. Come scriveva il poeta Marziale, indirizzandosi all’amico Lupo, che gli aveva chiesto a chi affidare il figlio, “ti ammonisco a evitare tutti i grammatici e i retori”, nel caso volesse imparare “artes… pecuniosas” (quelle arti che danno guadagno). La situazione sembra però migliorare nell’età tardo-antica, come attesta la Commemoratio professorum Burdigalensium, un’opera poetica di Ausonio (attivo nel IV secolo d.C.), che fu precettore dell’imperatore Graziano e oltretutto maestro di retorica.
Quale contributo offrì Incmaro di Reims al dibattito filologico e teologico di epoca carolingia?
Le armi della filologia e della grammatica potevano essere affilate anche di fronte a grandi problemi di ordine teologico. È il caso della controversia relativa alla predestinazione, innescata nel sec. IX dalla predicazione di Godescalco d’Orbais, al quale s’oppose, dall’alto della cattedra archiepiscopale di Reims, Incmaro. La complicata questione teologica, che ebbe un forte impatto sociale e coinvolse non soltanto le più alte gerarchie ecclesiastiche della Francia carolingia ma addirittura re Carlo il Calvo, provocò un intenso studio di testi patristici, che dovevano essere cercati, copiati ed emendati per evitare gravi fraintendimenti. Incmaro, con i suoi collaboratori, lesse attentamente le opere di Agostino e gli atti degli antichi concili ecumenici e accusò il suo contendente di falsificare i testi del Padri o di aggiungere speciose interpolazioni atte a sostenere le sue idee. Solo l’analisi delle opere, l’attività di collazione e l’intuizione, assai moderna, che ci fosse un capostipite ‘falsificato’ da cui dipendevano tutte le altre copie con le stesse caratteristiche (è il concetto di archetipo ante litteram) potevano svelare il virus dell’errore.
Di quale valore è l’opera di Eustazio per la conoscenza del clima culturale alla corte di Bisanzio nel XII secolo?
Uomo di Stato e di Chiesa nell’Impero bizantino del sec. XII, Eustazio, figura di rilievo nelle Scuole Palatine di Costantinopoli e arcivescovo di Tessalonica dal 1178 circa, è noto soprattutto nelle vesti di commentatori dell’Iliade e dell’Odissea. Un suo allievo, Niceta Coniata, racconta che nel 1185, quando Salonicco fu conquistata dai Normanni, Eustazio, custode del suo gregge, restò accanto ai suoi fedeli; in precedenza fu lui a trattenere il vecchio imperatore Manuele I Comneno da un tentativo di avvicinarsi al mondo islamico, con qualche cedimento sul piano dottrinale. Nel suo resoconto dell’espugnazione di Tessalonica risalente al 1185, evento a cui aveva partecipato in prima persona, egli riversa la sua esperienza di maestro e di conoscitore sovrano dei poemi omerici: l’arcivescovo vuole offrire una narrazione veritiera a favore di tutti, perché “chi odia l’esatta descrizione, odia non meno la verità”. Egli è testimone attendibile e autentico, ancor più di quanto non lo fosse Omero, che scrisse dopo i fatti narrati. Nella descrizione della conquista normanna emerge l’esperienza del maestro e del retore, che sa esemplare il resoconto attingendo al modello della presa di Troia per mezzo di una sapiente scelta lessicale (che rimanda a Omero naturalmente, ma anche al tragico Euripide). In questa fase di crisi la voce degli antichi offre spunti di riflessione e il pieno dominio della materia (come si è detto, Eustazio fu commentatore sommo dei poemi omerici) consente di non ridurre le riprese dai testi dei ‘classici’ a semplici elementi di decorazione erudita
Di quali strumenti si servì la lotta ingaggiata da Boccaccio con i danni della tradizione?
Nella storia della filologia del Trecento emerge grandiosa la figura di Francesco Petrarca, i cui meriti nell’ambito della riscoperta e soprattutto nella diffusione di alcuni testi degli antichi sono unanimemente riconosciuti. Eppure anche Boccaccio, che assegnò a Petrarca l’appellativo di proprio preceptor, giocò un ruolo di decisiva importanza per quanto riguarda in particolare la scoperta di nuovi testi (Tacito e Marziale per esempio). Sul fronte dell’impegno filologico Boccaccio, che ebbe una formazione più provvisoria e in parte da autodidatta, non poteva gareggiare ad armi pari con Petrarca. Tuttavia, negli anni della maturità, egli si dedicò alla stesura di opere erudite di grande impegno e sostenute da un’ampia ricerca di fonti. Si pensi alla Genealogia deorum gentilium e al De montibus, un più breve trattato latino sulla geografia degli antichi a servizio della lettura dei testi, con elenco in ordine alfabetico di monti, selve, laghi, fiumi, stagni, paludi e mari. Nella Genealogia Boccaccio decide di raccogliere la sparse membra di dati e conoscenze scampate al naufragio che ha compromesso la trasmissione di alcuni testi. Molte sono le motivazioni che hanno provocate queste perdite: cause naturali, la poca cura dei cristiani nel custodire opere che parlassero di dei falsi e bugiardi, l’avarizia, lo scorrere del tempo e il disinteresse delle autorità politiche. Nel De montibus è straordinaria la riflessione sul perché i testi antichi sono contaminati da errori. Ci sono sì gli errori d’autore, ma soprattutto quelli provocati dalla trascuratezza dei copisti per loro ignoranza: si preferisce così avere sotto gli occhi un testo esteticamente appagante ma poco curato sul fronte della forma e dell’ortografica (e questo è particolarmente grave per i nomi propri). Con grande acutezza Boccaccio riflette sulla genesi degli errori che affliggono le opere dell’antichità, per rimediare ai quali occorre affidarsi alla grammatica e talora, nei casi in cui la correzione risulta impossibile con altri mezzi, alla divinitas (quella che i moderni filologi chiamerebbero la divinazione).
Quale concezione avevano, circa il ruolo della filologia, gli umanisti?
A fine Trecento il grande cancelliere di Firenze Coluccio Salutati, erede della tradizione culturale di Petrarca e Boccaccio, in un suo trattato, De fato et fortuna, sostenne che per mettere un freno alla corruzione dilagante nei testi era necessario trovare un pubblico rimedio, con l’istituzione di biblioteche, secondo il modello della ‘mitica’ Biblioteca di Alessandria di Egitto, guidate da uomini di grande dottrina a cui fosse affidato l’alto compito di rivedere accuratamente le opere dell’antichità da consegnare corrette alle generazioni successive. Questo magnanimo proposito coinvolge le pubbliche autorità, anche nella tutela del patrimonio della letteratura. Poco dopo un papa umanista, Niccolò V (al secolo Tommaso Parentucelli), che salì sul trono di Pietro nel 1447, si impegnò per costruire una raccolta di libri, arricchita da opere nuove (e per questo finanziò cacciatori di testi, che rinnovassero le imprese di Poggio ai tempi del Concilio di Costanza), da traduzioni dal greco (e dunque si fece committente di versioni in latino) e, soprattutto, da testi corretti (e così ingaggiò dei revisori ufficiali che in un certo senso curassero questo aspetto). Grande era dunque l’ambizione: attraverso figure professionali (i filologi) sarebbe stato possibile arginare la corruzione testuale. Nell’età dell’umanesimo, come scrive Silvia Rizzo, «la filologia aveva […] un’importanza quale non ebbe forse in nessun altro periodo della storia», faceva parte di una sorta di habitus mentale nell’ambito di un generale rinnovamento. Le vicende biografiche di molti umanisti, a partire dal ‘padre’ Petrarca fino ad arrivare ad Angelo Poliziano, attraverso una selva di figure grandi e piccole (basti evocare i nomi di Lorenzo Valla o di Guarino Veronese), testimoniano come gli studia humanitatis, nello sforzo dai tratti epici volto al recupero dell’antichità in tutti i suoi aspetti, fossero apprezzati e potessero garantire, almeno in alcuni casi, un certo prestigio sociale.
Marco Petoletti è professore ordinario di Letteratura latina medievale all’Università Cattolica di Milano. Si occupa della circolazione e della fortuna dei classici nel Medioevo europeo e della produzione latina di Dante, Petrarca e Boccaccio. È direttore di «Italia medioevale e umanistica». Ha curato l’edizione delle postille del Virgilio Ambrosiano di Petrarca (Padova-Roma 2006), dei Rerum memorandarum libri di Petrarca (Firenze 2014) e delle Egloghe di Dante (Roma 2016). Ha scoperto e indagato nuovi manoscritti delle biblioteche di Petrarca e di Boccaccio. I suoi interessi si estendono all’Alto Medioevo con particolare riferimento alle iscrizioni poetiche e agli epistolari.