“Filologia dei viaggi e delle scoperte” di Luciano Formisano

Prof. Luciano Formisano, Lei è autore del libro Filologia dei viaggi e delle scoperte edito da Pàtron: quale rilevanza assumono, nella storia della letteratura mondiale, le scritture di viaggio?
Filologia dei viaggi e delle scoperte, Luciano FormisanoIl mio libro raccoglie la quasi totalità dei saggi che ho dedicato alla letteratura di viaggio a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, quando ho iniziato a lavorare su questo tema, sia pure in una prospettiva che all’epoca era strettamente collegata al mio progetto di un’edizione critica e commentata delle lettere di viaggio di Amerigo Vespucci. All’epoca, si trattava di contestualizzare quelle lettere. soprattutto in rapporto alla coeva produzione sulla scoperta del Nuovo Mondo e alla questione dei viaggi effettivamente compiuti dal Fiorentino, con particolare riferimento al primato dello sbarco sulla terraferma, che sarebbe avvenuto un anno prima di quello di Colombo, ma sempre negli stessi paraggi, sulla costa dell’attuale Venezuela. Quanto alla domanda, libri quali l’Odissea e l’Eneide sono una risposta eloquente.

In che modo la scrittura di viaggio si configura come «genere» letterario?
La scrittura di viaggio è un genere ibrido che attraversa una pluralità di generi. Si tratta di un genere narrativo che può realizzarsi in forma tanto estesa quanto breve; in entrambi i casi, il resoconto può essere fatto sia in prima sia in terza persona. Se svolta in forma estesa e in prima persona (come per il primo viaggio di Colombo) la narrazione può assumere la forma di un giornale di bordo, genere specifico che ha una sua propria grammatica, che nel caso del viaggio di cabotaggio lungo la costa è la stessa del portolano; ma la narrazione estesa in prima persona può anche limitarsi a un “diario di terra”, come nel caso di Marco Polo, salvo che nel viaggio di ritorno dalla Cina a Venezia, quel diario è allo stesso tempo “di terra e di mare”. Nella forma meno estesa, il resoconto assume l’aspetto di una lettera-relazione, anch’essa in prima o in terza persona, con i tempi per lo più al passato e con eventuale, ma intermittente, affioramento del calendario relativo alle tappe del viaggio. Anche la lettera-relazione ha una sua propria grammatica; al prologo indirizzato al destinatario segue la narrazione propriamente detta, a sua volta conclusa da un’indicazione cronotopografica (il luogo e la data di chiusura della lettera).

Come nel Milione di Marco Polo (ma il titolo esatto è Divisement dou monde, cioè Descrizione del mondo), valenza pratica e valenza fantastica spesso si alternano, con una prevalenza della prima nei viaggi immaginari, anche se non vi è viaggio reale che non sia in parte anche immaginario, non fosse altro perché colui che scrive decide cosa raccontare, cosa tacere e cosa mettere in valore, eventualmente con l’aggiunta di particolari di fantasia o con l’esagerazione di particolari reali. Per questo un viaggio non sarà mai raccontato allo stesso modo non solo, com’è ovvio, da due persone distinte che vi abbiano preso parte, ma dalla stessa persona; un’esperienza, questa, che ognuno di noi può fare.

Ciò premesso, nessuno empiricamente confonderà un racconto di viaggio con una novella o con un romanzo, anche se ciò non toglie che l’Odissea sia al tempo stesso un poema epico e il racconto di un (lungo) viaggio, così come un romanzo è l’Ulysses di Joyce che vi si ispira e un poema epico sono i Luisiadi di Camões. Del resto, anche la Divina Commedia è il racconto di un viaggio, sia pure compiuto nei mondi ultraterreni. Questo anche per aggiungere che la letteratura di viaggio non esclude la narrazione in versi, che, anzi, nel XVI secolo è una forma ben rappresentata. Diciamo, che nell’Odissea e nei Lusiadi, da una parte, nella Commedia, dall’altra, il viaggio in quanto tale fornisce il tema e la trama; lo stesso, ovviamente, vale per l’Ulysses di Joyce e per tutte quelle narrazioni che narrano di un movimento da un punto A a un punto B: tali i romanzi cavallereschi del Medioevo, soprattutto quando assumono la forma di una quête, di una “ricerca”, si tratti o meno di un oggetto mitico come il Graal o di un personaggio (Ginevra, rapita da Meleagante, alla cui ricerca muovono, ciascuno per suo conto, Lancillotto e Galvano).

Quale contributo offre la filologia allo studio di questi testi?
Il contributo della filologia è duplice. Da una parte, si tratta di fissare un testo che sia il meno lontano dall’originale, raccogliendo, confrontando e valutando con gli strumenti della “critica del testo” le versioni, manoscritte o a stampa, che ce ne sono pervenute, incluse le traduzioni in altre lingue, giacché non si può escludere che una traduzione sia stata eseguita su una versione autorevole, poi perduta. Così, in non meno di duecento luoghi del Milione di Marco Polo la tarda versione latina del cosiddetto Codice Zelada si rivela senz’altro superiore alla redazione franco-italiana giunta sino a noi, anche se l’opera è stata composta non in latino, ma in franco-italiano. D’altro canto, la filologia, che non si limita alla critica testuale, o ecdotica, ma include anche lo studio della lingua, è l’unico strumento di cui disponiamo per una caratterizzazione non approssimativa del testo, specie quando si tratti di stabilirne la cronologia e l’area geo-linguistica di appartenenza; ciò che per le opere più antiche, in ogni caso anteriori alla stampa, non è sempre un dato scontato. C’è poi l’individuazione delle fonti, operazione necessaria per misurare l’attendibilità e l’originalità, ma anche il “punto di vista”, dell’autore.

Quali elementi caratterizzano i resoconti di viaggio nati a ridosso delle Grandi Scoperte?
I primi viaggiatori si trovano a contatto con un mondo assolutamente nuovo dal punto di vista tanto geografico, quanto naturalistico e antropico, ciò che peraltro costituisce un ulteriore elemento di “straniamento”, se si considera che quegli stessi viaggiatori, a partire da Colombo, erano certi di aver raggiunto un estremo lembo dell’Asia. Man mano poi che la scoperta si estende al continente americano, ciò che fino a pochi anni prima era il nuovo in assoluto diviene, a sua volta, “meno nuovo”. Si pensi ai grandi fiumi del Venezuela, alla costa senza fine estesa fino a una latitudine di 50° sud; alla scoperta dello Yucatán, della civiltà maya e poi atzeca; alla scoperta del “Mare del Sud” (l’Oceano pacifico); e anche da quella parte una costa immensa, con la Cordillera della Ande e la civiltà inca. Si tratta dunque di registrare una novità che via via si diversifica, al punto da imporre la consapevolezza di un nuovo continente (un Mundus Novus, in termini vespucciani). Ovviamente, non è possibile descrivere il nuovo se non contrastivamente con riferimento al già noto, con il quale, anzi, si tendono a stabilire analogie, ad esempio nella denominazione degli animali e delle piante. Si pensi anche al recupero del mito dell’Eden: l’indio come un nuovo Adamo; i pacifici tainos delle Antille come abitanti di un mondo dove non ci sono né re né sacerdoti e tutto è in comune, ma anche gli antropofagi dei Caraibi (da cui la parola cannibale, prima nome etnico e poi nome comune), del Venezuela e del Brasile, realtà che rinviano a popoli e miti del mondo antico.

Come si sviluppa la letteratura delle esplorazioni geografiche?
I primi fotogrammi dell’America appartengono a Colombo, “Novis Orbis repertor”; è quindi naturale che i successivi tendano a ripeterli con poche o trascurabili variazioni. L’impatto della Lettera di Colombo sulla scoperta (1493), immediatamente tradotta in italiano e in latino, fu enorme, comunque tale da costituire da farne un vero Baedeker per quanti si sono poi messi in viaggio sulla scia dello scopritore, una sorta di promemoria da capitalizzare al pari dei resoconti più antichi (Marco Polo, Mandeville) e delle più recenti, e poi senz’altro coeve, narrazioni sulle scoperte portoghesi lungo le coste dell’Africa e dell’Asia. Uno studio comparato delle prime narrazioni “americane” mi ha convinto che di Colombo non ha circolato solo la Lettera con l’annuncio della scoperta. Il Giornale di bordo del primo e del terzo viaggio sono stati pubblicati solo in età moderna, ma dovevano essere in parte già noti, quanto meno nei circoli più vicini all’Ammiraglio; in ogni caso, insieme alle relazioni sul secondo viaggio, sono stati utilizzati in compendi, sia in spagnolo che in italiano e in latino. Abbiamo così una trafila di testi in cui non è sempre facile distinguere tra originale e plagio (in alcuni casi, il plagio è però comprovato): una letteratura secondaria (che in Italia dà vita anche ad alcune compilazioni antologiche a stampa) che avrà influito sulla letteratura primaria delle relazioni originali, con l’inevitabile impressione di déjà vu. La “monotonia” che caratterizza gli scritti di Colombo è anch’essa in parte dovuta alla ripetizione degli stessi fotogrammi. In linea di principio, viene però rispettata la distinzione tra i due grandi modelli: “il viaggio di Colombo” e “il viaggio di Calicut” (l’approdo del primo viaggio di Gaspar da Gama); se si preferisce, “il viaggio alle Indie occidentali” e “il viaggio alle Indie orientali”, quest’ultimo una sorta di “marcopolismo” rinnovato dai Portoghesi.

Come viene descritta la scoperta dell’America dai viaggiatori italiani del primo Cinquecento?
Non esiste una “specificità” italiana. Il contributo italiano alla scoperta dell’America è stato enorme, sia in termini di capitali investiti, sia in termini di forze intellettuali, e tuttavia viaggiatori italiani e spagnolo si muovono all’interno di una stessa cultura, direi quasi di una stessa lingua, una “interlingua” a base spagnola; non a caso, le relazioni di viaggio italiane abbondano di ispanismi, non tutti di carattere nautico. Insomma, Colombo è il primo e gli altri lo seguono; tuttavia, ciò non significa che i più colti non rechino le tracce delle proprie letture. Ad esempio, Vespucci cita, direi molto a proposito, Dante (la Commedia) e Petrarca (il Canzoniere); Dante è ancora presente in Pigafetta. Lo stesso non si può dire per Colombo o per i viaggiatori meno ‘smaliziati’.

Come avviene la ricezione del Nuovo Mondo nelle scritture di viaggio?
A questa domanda credo di avere già risposto, ma visto che ho accennato ad alcuni casi di plagio conclamato, vorrei citare l’esempio del Libretto de tutta la navigatione de Re de Spagna de le isole et terreni nuovamente trovati, in assoluto la prima antologia di interesse americanistico stampata in Italia (Venezia, 10 aprile 1504), di fatto un plagio della prima delle otto Decades de Orbe Novo di Pietro Martire d’Anghiera, stampata nel 1511, a Siviglia, senza il consenso dell’autore e poi ristampata, in forma profondamente rivista, insieme alla seconda e alla terza, ad Alcalá de Henares nel 1516. Ciò significa che la Decade era già disponibile in italiano prima che uscisse nell’originale latino senza che il lettore potesse averne il minimo sentore, soprattutto senza che ne venisse menzionato l’autore, che infatti ebbe poi a rammaricarsene.

Quale importanza rivestono le lettere di Amerigo Vespucci nella storia della letteratura?
Fino al XVIII, XIX secolo di Vespucci si conoscevano solo le due lettere a stampa: il Mundus Novus latino e la Lettera dei quattro viaggi (nota come Lettera a Piero Soderini), quest’ultima soprattutto nella versione latina pubblicata a Saint-Dié di Lorena nel 1507 all’interno di una Cosmographiae introductio, un manuale di cosmografia vòlto ad aggiornare Tolomeo con Vespucci, a sua volta accompagnato dal famoso planifero in cui per la prima volta compare il nome America. Il latino ha permesso l’internazionalizzazione di Vespucci e del suo contributo alle scoperte, anzi senza la versione latina della Lettera al Soderini non si spiegherebbe la nascita della cosiddetta “questione vespucciana”. Vespucci era dunque internazionalmente noto; ad esempio, è ben presente ad André Thevet che se ne servì, non senza citarlo, nel suo libro su Les singularités de la France antarctique, autrement nommée Amérique (Parigi 1558), estesa relazione sul suo soggiorno in Brasile al seguito di Nicolas Durand de Villegagnon. Allo stesso modo, la Lettera al Soderini è virtualmente presente nell’Utopia di Thomas More (1516), che si finge registrazione del racconto di Raffaele Itlodeo, personaggio di immaginazione dietro il quale si celerebbe uno dei compagni di Vespucci durante il viaggio portoghese del 1503-1504. La stessa lettera è volta in ottava rima da Matteo di Raimondo Fortini, che se ne serve per il suo Libro dell’Universo (ma il titolo è convenzionale), purtroppo rimasto a lungo inedito. Non mancano i tentativi di un’“epica vespucciana”: il poema L’America di Raffaele Gualterotti (Firenze 1611), che però si arresta al primo canto; l’enorme e indigesto poema dallo stesso titolo di Girolamo Bartolommei Smeducci, pubblicato a Roma nel 1650 e da allora non più ristampato. Tentativi ancora più fallimentari di quelli di un’”epica colombiana”, che pure non è stata del tutto spregevole, come dimostra Il Mondo Nuovo di Tommaso Stigliani, i cui primi venti canti sono stati pubblicati a Piacenza nel 1617, la versione completa, in trentaquattro canti, a Roma nel 1628.

Nel complesso, l’importanza di Vespucci nella storia della letteratura, anche solo italiana, non mi pare particolarmente eclatante, forse perché le lettere di Vespucci più che produrre immagini, suscitano riflessioni; e quale riflessione più importante di quella che ha portato all’identificazione del Nuovo Mondo con un quarto continente distinto da Europa, Africa e Asia?

Il volume compie anche un’incursione moderna sul terreno dei I diari della motocicletta di Ernesto «Che» Guevara: come si inserisce, l’opera, nel panorama delle scritture di viaggio?
Pare inevitabile che il nome dell’autore mal si leghi all’immagine di uno scrittore, sia pure socialmente impegnato, Eppure I diari della motocicletta (ma il titolo dell’originale spagnolo è Notas de viaje), pubblicati postumi nel 1992, sono la relazione di un viaggio da Córdoba, in Argentina, a Caracas, il racconto di un’avventura che è anche un rito di iniziazione il cui seguito politico-militare non era, per così dire, necessitato. Niente di simile al Diario del Che in Bolivia, anch’esso ovviamente postumo, che non a caso si è guadagnato la prefazione di Fidel Castro. I Diari andrebbero letti insieme alla narrazione parallela del compagno di viaggio, e grande amico, Alberto Granado (Con el Che por Sudámerica, La Habana 1986): parallela, ma non sovrapponibile, proprio come parallele e non sovrapponibili sono le relazioni di uno stesso viaggio anche quando provengono da uno stesso autore. Come ho detto, la narrazione implica sempre una selezione, soprattutto se condotta in forma di autobiografia, e questa selezione non è mai ingenua. Forse la scrittura narrativa di Ernesto Guevara non ha tutti i crismi per essere percepita come “letteratura” (benché sia più “letteraria” di quella diaristica di Alberto Granado), ma questa è un’osservazione che si può applicare all’intero “genere”, un genere sempre in bilico tra “documento” e “monumento”, proprio come accade ad ogni scrittura di tipo storico. Quando la “valenza fantastica” prende il sopravvento su quella pratica o documentaria, la scrittura di viaggio perde l’ancoraggio all’oggetto che la definisce e diventa tutt’altra cosa. L’Odissea e l’Eneide o l’Ulisse di Joyce conservano l’oggetto, ma non ne ricevono la tematizzazione necessaria per essere definiti “letteratura di viaggio”.

Luciano Formisano è professore ordinario di Filologia romanza nell’Università di Bologna

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