
Come si diventa scrittori?
Leggendo molto. Può sembrare una risposta banale, ma per me non è così, perché non do mai per scontata la lettura e quindi la scrittura. Per scrivere bene occorre leggere tanto da riuscire a capire se l’autore scrive con onestà. È necessario sottrarre i trucchi, come diceva Carver. A volte credo che la lettura sia come il lavoro di un buon giardiniere: non ci si deve limitare a osservare le foglie, il tronco e i fiori della pianta, ma bisogna imparare a capire la natura delle radici, perché è facile lasciarsi ingannare da una bella chioma, ma non è possibile farlo con quella parte sulla quale l’albero si regge. La stessa cosa accade con la scrittura: occorrono basi solide sulle quali far crescere la struttura del romanzo e queste fondamenta non te le può dare nessuno, se non la lettura, l’analisi e lo studio di un libro scritto bene. All’inizio mi chiedevo se la lettura dei grandi non avrebbe influenzato il mio modo di raccontare le storie, poi ho capito che se fosse successo, sarebbe stata una cosa bellissima, perché se si riesce a interiorizzare così profondamente lo stile di un autore da riuscire ad imitarlo, allora si ottiene la capacità di ascoltare la propria voce interiore e trovare il proprio stile originale.
Viene prima la passione per la lettura o quella per la scrittura?
Per me quella della lettura. Sono innanzitutto un divoratore di libri. Funziono come un vaso: riesco a scrivere solo quando sono colmo di storie fino all’orlo. Ho imparato a leggere presto e ho iniziato a scrivere molto tardi rispetto alla media, quindi per me la lettura viene sempre al primo posto rispetto alla scrittura.
Può dare a chi non legge una ragione per farlo?
Vorrei avere questo potere, sarei ricercatissimo da tutte le case editrici, ma credo che in fondo nessuno lo abbia. Sento spesso critiche muovere contro youtuber, calciatori, cantanti e social media influencer che si mettono a scrivere libri. L’obiezione più comune è che dovrebbero lasciar fare il lavoro dello scrittore agli scrittori veri, oppure che sono tutte operazioni di marketing per spremere il più possibile il pubblico. Io invece credo che, al di là del valore che possa o non possa avere un libro, se spinge un non-lettore a entrare in libreria, ha comunque raggiunto uno scopo importante.
E se oltre a comprarlo chi lo ha acquistato riuscirà a leggerne qualche pagina, eccolo trasformato in un lettore. Da qui ad appassionarsi alla lettura, il passo potrebbe essere breve. Anche per la lettura, tutto sta a iniziare.
Quanto c’è di autobiografico nei Suoi libri?
Isabel Allende ha detto che la scrittura è un atto disperato per preservare la memoria. Non posso che essere d’accordo con lei. Ogni scrittore, quando scrive, non fa altro che raccontare se stesso. Può illudersi di fare dell’altro quando racconta di storie distanti dalla sua vita. Ambientate in contesti fantastici, per esempio; ma se approfondiamo, capiamo che tutto parla di lui. Per quanto mi riguarda, io scrivo sempre e solo di me stesso. A volte in modo ironico, altre doloroso, ma parlo sempre di chi sono e di cosa potrei diventare.
I dati Istat evidenziano come oltre il 60% degli italiani non legga: quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?
Il lato positivo è che almeno il 40% lo fa. Per indagare sulle cause di questo abbandono della lettura servirebbero una legione di sociologi e svariate decine di migliaia di pagine. Credo però che una delle maggiori cause -se non addirittura la prima- dell’abbandono della lettura, sia la percezione errata del tempo. Ci siamo convinti che non ce ne sia abbastanza e preferiamo impiegarlo in contesti informativi e comunicativi più rapidi. I messaggi hanno sostituito le lettere, i vocali hanno sostituito i messaggi, le emoticon i vocali. Guardiamo tutorial su Youtube, anziché comprare un manuale. Rispondiamo con gif animate o meme su Facebook, anziché argomentare e fare la fatica di farci capire. Un libro necessita di attenzione e di una pianificazione temporale per essere fruito. Ha bisogno di continuità per essere goduto, ma l’esondazione di stimoli ai quali siamo sottoposti ogni giorno rende quasi impossibile pianificare la lettura. Allora ben vengano le serie televisive, che possono darci intrattenimento passivo illudendoci di essere osservatori attivi. Basti pensare ai commenti sotto ogni puntata di Game of Thrones: sono diversi da quelli che otterremmo da un gruppo di lettura dei libri da cui la serie televisiva è stata tratta, perché nel primo caso i fruitori commentano l’impatto emotivo sul breve periodo, che migrerà naturalmente nell’episodio successivo, mentre nel secondo l’impatto emotivo è più lento e meditato. La società, se da un lato si sta evolvendo verso una cultura fast food, dall’altro sta creando delle enclave di gourmet. Non possiamo fare nulla per fermare il dilagare del primo gruppo: dovremmo concentrarci più sul secondo, rendendolo inclusivo e non esclusivo, perché c’è solo un modo per aumentare gli amanti della lettura, ed è renderla pop. Se la percezione della letteratura continuerà a essere quella di intellettuali contro non-lettori, l’unico risultato che si otterrà sarà quello di allargare ancora di più la forbice, fino a sfasciarla del tutto.
È possibile educare alla lettura? Se sì, come?
Non so se il verbo educare sia quello corretto. Credo piuttosto che dovremmo cercare di aumentarne il fascino e fare in modo che le persone si innamorino della lettura, ma reputo altrettanto che debba esserci una sorta di chiamata, di bisogno interiore. Le persone che si avvicinano alla lettura lo fanno per due ragioni: la curiosità e l’imitazione. Entrambe vanno stimolate. La realtà con la quale oggi la letteratura deve fare i conti è più rapida di quella nel quale si trovava anni fa. Ogni cosa è diventata immediata e la scrittura, come la lettura vera è inconciliabile con il concetto di velocità. È complesso trovare un punto di incontro tra queste estremi, ma penso sia questa la risposta.
La tecnologia fatta di tablet ed e-book reader insidia il libro cartaceo: quale futuro per i libri?
I libri sono entità non dissimili da un essere vivente: anch’essi sono costretti ad assoggettarsi alla legge di Darwin: o si adattano o muoiono. Siamo nati come creature orali e moriremo come tali. La parola scritta è solo un brevissimo intermezzo nella storia della cultura umana. Stiamo già tornando alla trasmissione orale del sapere e delle informazioni. Pensiamo agli audiolibri, sempre più presenti negli store digitali, che hanno raggiunto picchi di vendite superiori al 30% negli scorsi anni. Le modalità di fruizione del prodotto libro cambiano in base alle esigenze del consumatore. Si leggono e si ascoltano libri digitali in auto, in palestra, a casa mentre si riordina o si cucina, mentre si lavora o si fa jogging. Il cartaceo è e rimarrà sempre l’ecosistema ideale per le storie, ma in contemporanea trovo sia giusto e naturale che si sviluppino altri strumenti di fruizione. Ogni tentativo di resistenza all’evoluzione porta al disastro.
Quali provvedimenti dovrebbe adottare a Suo avviso la politica per favorire la diffusione dei libri e della lettura?
La politica di questi anni è concentrata nel mantenere una sorta di condizione da campagna elettorale permanente: la cultura è diventata solo un punto (e nemmeno così importante) del programma politico: non ci si può aspettare che torni a essere predominante, dopo che la figura dell’intellettuale è stata demonizzata per così tanto tempo. Sono molto critico su un indirizzo politico che sostenga concretamente il ritorno alla lettura. Questo vorrebbe dire avere elettori consapevoli e non penso che questo sia l’obbiettivo reale di chi governa. Di certo non in questo periodo, dove vengono tolti fondi alle attività culturali e gli organizzatori dei festival sono costretti a ricorrere sempre di più a sponsor privati, con tutto quello che ne consegue. L’aver trasformato i libri in un prodotto commerciale non dissimile da un giocattolo ha avuto come effetto collaterale quello di renderli sostituibili con altro. Bisognerebbe che la politica ricominciasse a finanziare la cultura dal basso. Eventi locali, presentazioni di nuovi autori, manifestazioni anche nei comuni più piccoli. Si è creato un distacco tra l’autore e il lettore e questo strappo deve essere ricucito.
Quali consigli si sente di dare ad un aspirante scrittore?
Leggere, leggere, leggere. Non ci sono scuole di scrittura migliori di un buon libro letto bene e poi, chi vuole scrivere, deve avere una qualità imprescindibile: la caparbietà. Deve chiedersi se con la scrittura ci vuole convivere da quando apre gli occhi al mattino, fino alla sera, e talvolta persino nei sogni. Non sempre è una compagna piacevole.
Poi, ovviamente, bisogna praticarla. Scrivere non è differente da fare sport agonistico: occorre imparare i movimenti fondamentali autonomamente autonomamente e per farlo bisogna ripetere le stesse azioni infinite volte, fino a quando i muscoli non sviluppano una sorta di memoria. Con la scrittura è lo stesso: si legge, si pensa, si immagina fino a quando non si è pronti a scrivere la propria storia in modo onesto, sincero, vero.
Dino Buzzati diceva: «scrivi, ti prego. Due righe solo, almeno e i nervi non tengono più. Ma ogni giorno. A denti stretti, magari delle cretinate senza senso, ma scrivi». Credo che non ci sia incoraggiamento migliore.
Filippo Tapparelli (Verona, 1974) lavora in un’azienda veronese. È stato istruttore di scherma, pilota di parapendio e artista di strada. Ha studiato letteratura inglese e russa all’università. Con il suo primo romanzo dal titolo L’inverno di Giona ha vinto la XXXI edizione del Premio Italo Calvino.