
Premetto poi che le risposte che darò saranno molto articolate, ma senza la pretesa di esaurire l’argomento.
Prima dunque di descrivere a grandi linee il primato saudita nell’aver saputo interpretare la via dell’islamizzazione della modernità in modo vincente, occorre considerare il concetto di modernità. Parlarne in relazione al mondo islamico presenta notevoli difficoltà e occorre fare attenzione. Bisogna infatti tenere a mente che la modernità è una concezione complessiva del funzionamento politico, sociale, tecnico e culturale (con una forte connotazione ideologico/etica), nata nello specifico contesto europeo. Quando se ne parla nel e relativamente al mondo islamico, va costantemente ricordato che si tratta dunque di un concetto prettamente europeo, dalle caratteristiche oggi sempre più sfumate e che viene ad esempio declinato in maniera sensibilmente differente dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, negli Stati Uniti. Noi, inoltre, insistiamo a usare concetti e idee che sono propri della nostra storia, come se avessero un valore e un significato stabilito una volta per tutte e valido sempre e per tutti. Si pensi, per fare l’esempio più tragico di questi ultimi quindici anni, al termine democrazia. La realtà storica, invece, è che non solo per noi, e nei nostri stessi paesi, questi termini assumono via via connotazioni differenti – si pensi cosa poteva essere la modernità alla fine dell’800, in termini tecnologici, politici e sociali, e cosa è oggi – ma anche solo illustrarne una serie di caratteristiche fondamentali sarebbe complesso, figuriamoci poi descrivere l’evoluzione di queste caratteristiche. E tutto questo, beninteso, rimanendo all’interno del nostro contesto culturale europeo.
Fra le molte questioni che dunque differenziano i modi di rappresentare, concepire e articolare la modernità nell’Islam rispetto al modello europeo, per quanto riguarda il mio lavoro quella che ritengo più importante e gravida di conseguenze è la questione della divisione fra potere religioso e potere politico: uno dei cardini della modernità europea da cui discendono innumerevoli temi come il costituirsi delle istituzioni, la legittimità del potere, la funzione del diritto. Temi che qui ormai vanno sbiadendo, ma che il modello saudita/wahhabita ha saputo invece sviluppare, per l’appunto, islamizzando la modernità a partire proprio dalla valorizzazione e implementazione di un tratto specifico della tradizione islamica: in sostanza proprio l’assenza della divisione fra potere politico e religioso (anche se questo non vuol dire affatto che i due poteri non esistano, definiti ciascuno da un proprio specifico corredo di azioni e obiettivi).
Aver islamizzato la modernità vuol dire in sostanza aver saputo interpretare in base alle proprie specificità islamiche le dinamiche della modernità, più che le sue forme. Relativamente alle forme della modernità – leggi, ordinamenti, organizzazione degli eserciti, regolazione della vita civile, dell’istruzione, dotazione tecnica, economia e finanza, proprietà privata, giustizia, amministrazione, ecc. – fin dalla metà dell’Ottocento, con le famigerate “leggi benefiche” (le Tanzimât) emesse dall’Impero Ottomano fra il 1839 e il 1876, nel mondo musulmano si erano iniziate ad adottare, per così dire, le forme della modernità europea, sovrapponendole al sostrato sociale, religioso e culturale prettamente islamico. Questa era in sostanza la strada della modernizzazione dell’Islam e fu chiamata nahada – risveglio. Nel capitolo III di Figli del loro tempo definisco proprio la differenza del modello saudita rispetto a quella tendenza storica, che si sarebbe esaurita con la sconfitta della Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e col declino del nasserismo, sua massima espressione panarabista, dopo quella del nazionalismo turco di Kemal Atatürk.
In questo senso la strada intrapresa sia dai wahhabiti che dai Saud, ben prima che il petrolio sgorgasse dai pozzi di estrazione e sorgessero i grattacieli, era stata quella del tajdīd, un processo di rinnovamento religioso – di nuovo l’idea di rinnovamento, ma qui declinato in maniera opposta a quello descritto dalla parola nahada – iniziato nel XVIII secolo e di cui proprio il wahhabismo è uno degli esponenti principali. Questa tendenza religiosa, in Italia poco conosciuta, acquisì notevole forza nell’Africa subsahariana e in India (spesso esprimendo tendenze di aperta ostilità verso l’occupazione coloniale), così come nella penisola Arabica. Tipica di questa processo di rinnovamento religioso è l’utopia restrospettiva (l’esatto contrario della nostra utopia), uno dei registri più efficaci e allo stesso tempo più controversi su cui e con cui si è islamizzata la modernità, ispirandosi ai tempi dei “califfi ben guidati”, i tempi dei “pii antenati”, degli al-Salaf, da cui appunto prende il nome la salafiyya.
Il rinnovamento religioso – nel caso specifico dei wahhabiti caratterizzato da elementi di forte identitarismo, di stretta codificazione rituale e di un letteralismo relativo ai testi sacri nel quale spesso si annida la più pragmatica delle Realpolitik religiose – è stato dunque la cifra attraverso cui si è islamizzata la modernità. In sostanza un rinnovamento religioso intriso di utopia retrospettiva – un tratto in comune con la salafiyya e l’Islam politico, sebbene declinato da tutti e tre in modi spesso radicalmente differenti – che però, nel caso della wahhabiyya ufficiale, della modernità non ha rifiutato l’aspetto strumentale. Nel momento in cui il regno dei Saud si è costituito, questo va sottolineato molto chiaramente perché costituisce motivo di grande differenza rispetto a molti salafiti che predicano e praticano il totale distacco dal mondo “moderno”, il wahhabismo ufficiale ha invece sostanzialmente rinunciato a uno degli strumenti principali con cui aveva imposto alla popolazione il suo letteralismo esasperato, cioè il concetto di bid‛a, o “innovazione perniciosa”. In sostanza è entrato in aperta contraddizione con uno dei capisaldi del proprio stesso esasperato letteralismo. Se avesse seguito quel concetto, non ci sarebbe stato alcuno spazio per l’ammodernamento tecnologico del regno, che spesso nei paesi musulmani è la cifra più autentica della modernità priva di tutto l’apparato ideologico/culturale che noi europei siamo soliti attribuirle. Un’impostazione simile a quella saudita la troviamo anche negli Stati Uniti, una società con una caratterizzazione della propria identità e della propria missione fortemente religiose e in cui la convivenza tra una pletora di fondamentalismi e denominazioni protestanti e la più spinta modernità (in termini tecnici sensu latu) è un dato assodato e per nulla controverso.
Per capire dunque in che modo il wahhabismo ha saputo predisporre la società saudita ad accogliere il capitalismo di consumo, bisogna partire da qui. Il suo ruolo non è stato quello che in Europa, relativamente alla nascita del capitalismo classico, si ritiene abbia svolto ad esempio il calvinismo, con la sua etica del lavoro volta a “scremare” il senso di colpa per la ricchezza. Assolutamente no. Il wahhabismo, oltre a condividere una più generale stigmatizzazione culturale del lavoro tipica delle società musulmane, che tendono invece a prediligere il commercio, ha anche peculiarità tutte sue. Una è la particolare freddezza, se non vera e propria indifferenza, verso qualsiasi condanna morale della ricchezza, vista invece come risultato della grazia divina, o beneficio – ni‛ma. Va infatti ricordato che sebbene non si possa propriamente definire l’Islam una religione totalmente intrisa del concetto di predestinazione (resa con al-qadā’ wa-l-qadar insieme di due termini che indicano le risoluzioni eterne di Dio e la loro esecuzione nel tempo), è bensì difficilmente negabile la totale libertà decisionale di Allah, slegata da qualsiasi vincolo. Questa sua libertà assoluta – una delle caratteristiche fondanti del tawḥīd – implica che non possa essere toccato né dalle buone, né dalle cattive azioni umane. Un’impostazione che può anche essere interpretata in maniera assai simile alla predestinazione. È quello che fa il wahhabismo, che non si è mai dimostrato incline a rifiutare la ricchezza e l’arricchimento. Il fatto che sia un movimento religioso sotto molti aspetti “puritano”, non vuol dire in alcun modo che sia ostile ai piaceri della vita e alla ricchezza, qualora non trascendano i limiti normativi, come si è visto improntati a un robusto realismo, per non dire opportunismo. Proiettare una dinamica contrastiva fra integralismo religioso e arricchimento è una delle tante trappole del neo-orientalismo in cui finiamo quando insistiamo nell’utilizzare nostre specifiche categorie concettuali e morali, nel vano e spesso violento tentativo di interpretare e giudicare altre religioni e società.
In questo senso il ruolo del wahhabismo non è stato quello di predisporre la popolazione all’accettazione acritica del capitalismo di consumo. Il concetto stesso di critica, o di mancanza di critica rispetto al capitalismo, è un frutto specifico del pensiero politico europeo piuttosto recente – diciamo degli ultimi duecento anni – mentre l’impostazione wahhabita va totalmente in un’altra direzione. A portarci fuori strada, in questo caso, è l’idea profondamente radicata che il capitalismo sia in sé un fatto di semplice derivazione religiosa, come ha insegnato Max Weber. Ma questa impostazione è fuorviante rispetto al wahhabismo e per tutto il mondo islamico, come risulta sempre più chiaro, ma anche per quello cosiddetto occidentale. Non spiega ad esempio come mai, proprio nel cosiddetto occidente, lo sviluppo economico, pur avendo ingenerato secolarizzazione dei costumi, laicismo, forme di desacralizzazione e razionalità – insomma quei fenomeni che amiamo pensare connotino in toto le nostre società – non lo abbia però fatto in modo uniforme. In alcuni casi questo processo, invece, non è per niente avvenuto, paradossalmente proprio in larghe fasce del paese occidentale economicamente più sviluppato, gli USA. Il paese occidentale che ha sempre manifestato il maggior tasso di religiosità e antimodernità. Soprattutto dobbiamo notare che questo illusorio meccanismo di causa-effetto tra sviluppo economico e secolarizzazione, inizia a presentare profondi segnali di crisi, arretramento e inversione di paradigma anche in Europa. Per capire il caso saudita rispetto a questa questione, l’interpretazione del capitalismo svolta da Walter Benjamin – al quale ho fatto riferimento anche nel mio libro – funziona molto meglio. Il pensatore tedesco sosteneva infatti che il capitalismo è di suo un fenomeno di natura religiosa. Una religione, però, di esclusiva natura cultuale. Ecco, se si legge l’atteggiamento wahhabita nei confronti del capitalismo – un atteggiamento iper-rituale, ossessionato dalle forme cultuali e normative, indifferente a qualsiasi sfumatura etica e alla sanzione morale dell’arricchimento – si vede bene come funziona l’ibridazione con le logiche che questo dispiega: quelle “imperiali” e regolatrici della produzione, volte a controllare e disciplinare lo spazio attraverso i mercati, e quelle mutagene e virali proprie del consumo, che costantemente innesca un desiderio sregolato volto a trasformare ogni aspetto del proprio vissuto emozionale ed esperienziale in quella che Benjamin definiva «la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci [senza tregua e senza pietà]». Ritualismo e letteralismo esasperati estetizzano l’ortoprassi islamica così come codificata dalla wahhabiyya, e questa particolare torsione delle pratiche devozionali costituisce senza dubbio il punto di intersezione con le logiche del consumo come momento cultuale della religione capitalista.
Il capitalismo di consumo, in sostanza, trova nel sostrato religioso wahhabita un catalizzatore per certi versi perfetto: estetizzazione del comportamento, conformismo, brandizzazione del vissuto del tutto assimilabile all’estetizzazione dell’ortoprassi religiosa come way of life, stile di vita in cui fra i comportamenti di consumo rientra senza particolari problemi la sfera religiosa. Una sfera religiosa che nell’Islam, è bene rammentarlo, si sostanzia di atti ed elementi divisi in base al grado di liceità o di proibizione (i due estremi sono ḥalāl, “lecito”, e ḥarām “proibito”) e non in base al criterio di un’ortodossia il cui concetto, così centrale nel credo cristiano, è non solo inesistente, ma assimilabile semmai a ciò che fa la maggioranza dei credenti. Il wahhabismo esaspera all’inverosimile tutte queste tendenze che sono comuni, dove più, dove meno, al mondo islamico, in particolare a quello sunnita. Per questo non si può dire che abbia fatto accettare acriticamente il capitalismo di consumo, ma piuttosto che abbia svolto esattamente la funzione di rileggerlo in chiave islamica, cioè di islamizzarlo. E viceversa il capitalismo di consumo – che di base funziona su processi e dinamiche indifferenti e strumentali verso i contenuti, cioè quanto attiene a presunte tassonomie morali, concettuali, ideali e politiche – ha saputo catturare il bisogno di autoriconoscimento di questo approccio religioso, innescando in esso una progressiva attenuazione delle sue già flebili tendenze spirituali a favore di un’ossificazione dell’ortoprassi, cioè la fissazione di comportamenti dai quali, come nei comportamenti di consumo, la dimensione del travaglio interiore viene espunta, con risultati di tipo estetizzante e identitario la cui componente principale è volta alla riconoscibilità, alla coesione e all’eliminazione di ogni forma di conflitto col desiderio, nel quale si manifesta l’ipostasi materiale del sacro.
Su questa questione del conflitto interpretativo tra quelli che possiamo definire, semplificando, libero arbitrio e predestinazione, nella teologia speculativa islamica si gioca un conflitto secolare sulla natura stessa dell’atto umano. Una fattispecie rilevante, rispetto a questo tema del travaglio di coscienza e della natura degli atti umani – fatto estremamente importante in un’ortoprassi come quella islamica -, è la “sincerità a Dio” o “purezza di intenzione”, in sostanza la natura della niyya (cioè l’intenzione con cui si compie un atto con lo scopo di onorare Dio) su cui, rispetto agli atti di natura religiosa, agisce il culto consumistico. Su questa questione il wahhabismo fa una precisa scelta. Se i due estremi relativi a come giudicare la niyya di un’azione, nel pensiero religioso islamico, si situano tra «Le azioni si giudicano dalle loro intenzioni» (cioè la coscienza che ha mosso l’azione è centrale nella valutazione dell’atto stesso, in modo prevalente rispetto anche a come questo viene svolto) e «Il giudizio si compie sulle apparenze» (al-hukm bi-l-zāhir, il principio di giurisprudenza religiosa per cui l’azione viene giudicata esclusivamente da quello che si vede esternamente, noi lo definiremmo un approccio formalistico), va detto che il wahhabismo opta decisamente per la seconda delle soluzioni, cioè quella formalistica, in questo costituendo un terreno fertile per i comportamenti di consumo. Infine: uno dei passi fondamentali nella definizione di questo dissidio tra adesione formale all’Islam e adesione “del cuore” – cioè con “sincerità a Dio”, con intenzione – è proprio nella Sura Al-ḥujurāt – Le Stanze Intime – in Cor., 49,14: «I beduini hanno detto: “Noi abbiamo creduto”. Dì: “Voi non avete creduto”; dite piuttosto: “Ci siamo sottomessi”, mentre ancora non è entrata la fede nei vostri cuori» [corsivo mio], dove si delinea una netta distinzione fra l’adesione formale e l’adesione del cuore.
Quali vicende hanno portato il regno saudita, proclamato nel 1932 e all’epoca poverissimo, a divenire uno dei paesi leader del nuovo capitalismo del XXI secolo?
Più che le vicende, direi di concentrarci sul modo in cui queste sono state metabolizzate dal regno saudita e dal suo mondo religioso. Partiamo dalle risorse petrolifere. Il capitalismo di consumo non è trionfante oggi in Arabia Saudita per il solo fatto che si tratta di un rentier state – lo stesso sarebbe dovuto allora accadere anche in Iran, in Iraq o in Libia (esempi di altre soluzioni, differenti, che l’Islam ha adottato rispetto al capitalismo in sé…) – ma per il convergere di diversi altri elementi. Ci tengo a sottolineare che non esiste né è mai esistita una necessità che determini la comparsa e il consolidarsi di determinate trasformazioni sociali, economiche e politiche. Questo va sempre tenuto presente, per evitare l’illusione del determinismo storico. Possiamo però cercare di interpretare alcune svolte, alcuni processi che caratterizzano questi cambiamenti, che a seconda della loro intensità e natura, possiamo chiamare trasformazioni, mutamenti o mutazioni. Su quanto attiene al wahhabismo, mi sono ampiamente dilungato nella precedente risposta, anche per chiarire meglio l’interpretazione svolta in Figli del loro tempo, che nel libro ha un carattere più generale, che non si addentra nello specifico. Ma altri due elementi sono di sicuro centrali, rispetto alla domanda.
Uno di questi due elementi può essere riassunto e reso evidente attraverso la figura stessa e l’azione di re Faysal (ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd), che anche prima del suo regno – dal 1964 al 1975 – si fece interprete di quella che si può definire l’islamizzazione della modernità (che ha avuto in occidente, fin da subito e non solo per il viscerale anticomunismo, un alleato potente nella controrivoluzione conservatrice e capitalista di cui parlo nel libro). Lo fece, nel concreto, con decisioni molto specifiche, che ne dimostrano l’abilità e la perspicacia nel cogliere lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi che sopraggiungeva. Già nel 1962, ad esempio, organizzò la Lega Mondiale Musulmana, che nel tempo sarebbe stata il principale strumento per combattere il panarabismo di Nasser – così come tutte le forme di nazionalismo laico e socialisteggiante che in quegli anni sembravano vincenti nel mondo islamico post-coloniale. Allo stesso tempo avrebbe permesso all’Arabia Saudita di accreditarsi come punto di riferimento del mondo islamico che intendeva il rinnovamento come “ritorno ai fondamenti”. Porto ad esempio la Lega Mondiale Musulmana perché illustra in che modo il tajdīd, grazie a Faysal, si sia concretizzato in organizzazioni ben precise, permettendogli fra l’altro di capitalizzare al massimo il suo ruolo di custode e difensore dei due luoghi più sacri dell’Islam (la Kaʿba nella Grande Moschea di Mecca, l’Al-Masjid al-Ḥarām, e la città di Medina, nella quale il Profeta migrò dovendo abbandonare Mecca, effettuò cioè l’hijra, la “migrazione” da cui prende avvio il calendario islamico). Nel caso specifico la Lega funzionò anche come veicolo di esportazione del wahhabismo, grazie alle ingenti risorse che il re vi investì. Fu l’inizio di quello che viene anche chiamato “petro-Islam”. Il III capitolo del libro, intitolato «Petrolio: il nero tajdīd saudita», descrive come le azioni intraprese dal re saudita abbiano tradotto in prassi di governo e politica un’istanza profondamente religiosa. È questo tipo di iniziative che avrebbe permesso la ricezione e l’accettazione sociale di un compiuto regime capitalistico, senza però tutte le componenti di secolarizzazione, democratizzazione e laicizzazione che in occidente, in modo ormai smaccatamente ideologico, si continua a voler correlare all’espansione dei mercati e soprattutto dei consumi. L’opera di Faysal, in questo senso, descrive proprio in che modo il concetto di rinnovamento sia stato fatto proprio, dalla casa regnante saudita e dalla maggioranza del paese, in chiave eminentemente religiosa. Egli fondò, quando ancora era principe nel 1961, l’Università islamica di Medina, fucina di ulamā e “predicatori” wahhabiti, costituendo con decreto regio del 1966 la facoltà di daʿwah e Uṣūl al-Islām (in sostanza di proselitismo e fondamenti dell’Islam). In pratica un organismo statale dedito alla formazione religiosa: forme moderne per veicolare valori prettamente religiosi, senza che questo, va ripetuto costantemente, costituisca in alcun modo un esempio di teocrazia (un termine totalmente inappropriato per il mondo islamico e che è un’altra delle trappole concettuali del neo-orientalismo).
Altra organizzazione che diede un impulso internazionale, fondamentale e decisivo, all’azione di islamizzazione della modernità “a guida” saudita, fu la creazione nel 1969 dell’Organizzazione della conferenza islamica (dal 2011 Organizzazione della cooperazione islamica, OIC, con ben 55 membri e 6 osservatori), a Rabat in Marocco, su impulso sempre di Faysal. A questa organizzazione, che ha sede a Jedda, venne riconosciuto nel 1975 lo status di osservatore presso l’Assemblea Nazionale delle Nazioni Unite. Oggigiorno l’OIC comprende al suo interno, per dare una vaga idea della sua influenza e della capacità di contenere, mediare e rappresentare le istanze del mondo islamico: l’Unione Parlamentare degli Stati membri della stessa OIC, la Lega Araba, l’Area Araba Allargata di Libero Scambio, il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’Unione del Maghreb Arabo, l’Accordo di Agadir, l’Organizzazione di Cooperazione Economica, il Consiglio Turco, l’Unione Economica e Monetaria Ovest-Africana e l’Autorità del Liptako-Gourma. Non si può dunque sottovalutare che proprio attraverso questo tipo di strumenti – che della modernità interpretano la parte funzionale, per così dire, ma non quella “valoriale” che noi europei insistiamo a volerle attribuire – il rinnovamento religioso si sarebbe plasmato come vettore del capitalismo odierno. Faysal, inoltre, inaugurò l’istruzione di stato, principalmente di natura religiosa e tecnica, ponendola però sotto il controllo della wahhābiyya ufficiale. Allo stesso modo patrocinò l’avvio delle trasmissioni televisive, sebbene strettamente sorvegliate dagli ulamā wahhabiti. Tutte queste iniziative andarono a costituire l’infrastruttura tecnico-burocratica che avrebbe predisposto la società saudita al confronto con le forme del capitalismo di consumo, senza che venisse mai veramente articolato, come valore sociale, il lavoro. Non è un caso che dalla fine degli anni ’40 del XX secolo, in Arabia Saudita la maggioranza dei lavoratori veri e propri sono stranieri, e che il fenomeno dell’immigrazione di manodopera è una costante che ha oggi raggiunto dimensioni inaudite. Rispetto ai 27 milioni di abitanti, i quasi nove milioni di immigrati lavoratori costituiscono il 25% circa dell’intera popolazione, una persona su quattro! Va ricordato infatti che non fa assolutamente parte del bagaglio dei valori tradizionali delle popolazioni del Golfo, e di quelle saudite (sia la parte stanziale che quella di origine beduina), nulla di assimilabile all’etica del lavoro, mentre è sempre stata prevalente una storica predisposizione verso i commerci, un tratto per altro tipico del mondo islamico. Dopotutto, lo stesso Profeta era stato un abile mercante e carovaniere.
Quando dunque nel 1973, in occasione della Guerra del Ramadan, o Yom Kippur, su impulso di Faysal l’OPEC innalzò i prezzi del petrolio, negli anni successivi si riversò nelle casse del regno saudita una quantità enorme di risorse economiche, mai più vista in tutta la sua storia. Certamente quella che qui è ricordata come la crisi energetica, in Arabia Saudita fu invece una stagione – gli anni ’70 – in cui la società si immerse in uno sfrenato consumismo, cercando ossessivamente, allo stesso tempo, di declinare questa ricchezza secondo i limiti di volta in volta articolati dagli ulamā wahhabiti.
Per terminare la parte relativa a Faysal, non stupisce scoprire che ancora quando era principe, nel 1962, fondò la Lega Mondiale Musulmana. Si tratta della più importante organizzazione internazionale religiosa espressa dal mondo musulmano. È dedita fin dalla sua fondazione a una indefessa attività panislamista. In sostanza funziona da mezzo secolo come vettore dell’islamizzazione della modernità attraverso un’opera di diffusione, promozione, finanziamento e formazione di personale, istituzioni e iniziative religiose. Ancora una volta: è attraverso questo tipo di strutture, modernissime nel modo di operare, che però si è determinata quella torsione in chiave religiosa dello sviluppo economico e sociale dell’Arabia Saudita. Ed è anche attraverso questa torsione che l’Arabia Saudita e la sua società hanno saputo e potuto coniugare capitalismo di consumo e ossessiva normazione religiosa.
L’altro elemento che ha connotato e per certi versi dato forma agli eventi che avrebbero permesso al regno dei Saud di divenire uno dei paesi dal capitalismo di consumo più spinto, è stato certamente quello che in mancanza di un termine più appropriato ho definito la Realpolitik religiosa del wahhabismo. Va detto che uno spiccato pragmatismo ha sempre connotato tutte le tipologie religiose islamiche che in un modo o nell’altro hanno accompagnato il potere più specificatamente esecutivo. Un pragmatismo in larga parte dovuto al fatto che la religione islamica, non va scordato, è un’ortoprassi ed è strutturata, in particolare per le forme di regolazione sociale, sub specie iuris. Questa giurisprudenza religiosa trova espressione nella Shari‛a. Ques’ultima, però, ha un tasso di interpretabilità enormemente superiore a qualsiasi codice, sia esso riferibile al diritto romano che a quello consuetudinario anglosassone. Nel caso del wahhabismo, fin da subito esso ha infranto le tradizionali interpretazioni giuridiche shariatiche, il cosiddetto Taqlid, delle quattro principali scuole giuridico-religiose (madhhab) sunnite (hanafita, malikita, sciafeita, hambalita). In sostanza ha espresso un’istanza di radicale rinnovamento giurisprudenziale ed ermeneutico, tanto da essere stato a lungo e ancora oggi spesso descritto come una vera e propria setta. Questa sua intransigenza nel voler scavalcare le interpretazioni giurisprudenziali religiose tradizionali, in nome di un più zelante letteralismo coranico – qualcosa di assimilabile a quello del fondamentalismo biblico protestante – col tempo si è però colorita di un realismo a tratti sorprendente. L’adozione di strumenti come la radio, le condotte petrolifere, la fotografia, gli aerei, le armi da fuoco moderne, le automobili, la televisione – per non parlare della presenza di non musulmani sul territorio saudita – avrebbe dovuto scatenare la sua furia, la stessa con la quale a colpi di bid‛a (l’accusa di introdurre innovazioni perniciose) i wahhabiti avevano sempre imposto la loro interpretazione religiosa. Ma dopo che negli anni ’20 Ibn Saud ebbe spazzato via gli Ikhwān, la fratellanza wahhabita che gli si era rivoltata contro, la wahhābiyya accettò supinamente tutte le innovazioni che avrebbero permesso al regno saudita di attrezzarsi a divenire la potenza che è oggi. Anzi, proprio in questo frangente il wahhabismo ufficiale, privato di ogni potere costituente, diede appunto prova di una robusta Realpolitik religiosa, collaborando con la casa regnante fino a divenire parte integrale del “sistema istituzionale” saudita. Questa sua capacità di integrarsi nel sistema di potere – per certi versi un tratto storico della maggior parte dei movimenti religiosi islamici, come accennato – gli ha permesso col tempo di arrivare a certificare la conformità shariatica delle transazioni finanziarie e ad essere soggetto attivo e dirimente nell’approvazione dei prodotti finanziari, per fare un esempio.
Più che domandarsi quali eventi hanno condotto l’Arabia Saudita ad essere un paese “scintillante” di consumi e ricchezza, la risposta va invece cercata negli atteggiamenti e nelle iniziative con cui la casa regnante – nella figura esemplare di Faysal – e il wahhabismo, hanno saputo confrontarsi con quello che di volta in volta accadeva, sapendolo via via recuperare, plasmare, interpretare e rielaborare. Faysal diede forma agli strumenti che avrebbero permesso al regno, alla lunga, di potersi confrontare con gli aspetti tecnici della modernità – e quindi di saper agganciare le dinamiche del capitalismo di consumo – quali formazione di tecnici, sviluppo dei sistemi bancari e finanziari, infrastrutturazione tecnica del paese, adozione della comunicazione di massa, implementazione dei consumi, dando allo stesso tempo strumenti e dotazioni alla “narrazione” del panislamismo, intuendone l’enorme potenziale simbolico che avrebbe svolto. Da parte sua il wahhabismo, fra controllo sociale e dell’istruzione, avrebbe invece “incantato” la società saudita in un’ossessione ritualistica e cultuale inedita nell’Islam – spesso e volentieri perseguita attraverso i mass media – ossificando l’ortoprassi fino alla sua estetizzazione, in maniera del tutto coerente con la brandizzazione della religione.
Un caso esemplare della convergenza di questi due modi di articolare accettazione, adeguamento e implementazione del capitalismo di consumo, è la pluridecennale trasformazione delle strutture adiacenti e circostanti la Grande Moschea di Mecca in seguito ai gravi fatti del 1979. Il 20 novembre di quell’anno, infatti, durante l’ḥajj, nel primo giorno del 1400 d.H., mese di muharram – una data altamente evocativa, perché a ogni fine di secolo si ritiene che Allah invii il riformatore della fede, il mujaddid – un commando di oltre 300 zelanti credenti armati fino ai denti (è uno degli episodi più rimossi e censurati della storia saudita, ed è il tema centrale del capitolo I del libro) sequestrò tutta l’area di preghiera attorno alla Ka‛ba, proprio al centro della Al-Masjid al-Ḥarām, tenendo in ostaggio migliaia di fedeli in pellegrinaggio in quel luogo – il più sacro di tutto l’Islam. In seguito ai tragici e sacrileghi fatti di sangue che ne seguirono, la casa regnante decise di risistemare l’intera area – che pure era già stata ammodernata – trasformandola a poco a poco e con interventi nell’ordine di centinaia di milioni di euro, in un vero e proprio “parco a tema” della fede, attraverso ristrutturazioni e riconfigurazioni che per dimensioni e carica simbolica potremmo paragonare alla ristrutturazione di Parigi effettuata durante il Secondo Impero dal Barone Haussmann (ne parlo nel libro alle pagine 76-78). Di sicuro un’operazione architettonica con un valore – economico e religioso – difficilmente sottovalutabile, caratterizzata da un gigantismo e da un kitsch dal sapore disneyano che ha dell’inquietante – anche per molti fedeli musulmani – come tutti i megaprogetti urbanistici in cui il regno saudita si è ormai lanciato, proprio sulla falsariga della “grande espansione” – come viene chiamata in Arabia Saudita questa ricostruzione della Mecca, in particolare proprio dell’area attorno alla Ka‛ba situata al centro della Al-Masjid al-Ḥarām. Le vicende urbanistiche e architettoniche legate alla “grande espansione”, costituiscono con tutta probabilità la risposta più direttamente percepibile alla domanda.
Quali prospettive, a Suo avviso, per la società saudita?
Nell’arco di neanche due anni, il regno è passato dagli accordi di Abramo, preludio a normali rapporti diplomatici con Israele, alla riapertura del dialogo, politico e diplomatico, con l’Iran, una riapertura che ha dell’incredibile se la si paragona agli ultimi 40 anni. Ma dopotutto la società saudita, forgiata nel modo che ho cercato di illustrare rispondendo alle precedenti domande, conosce e sa gestire molto meglio delle nostre società quelli che un tempo, anche qui in Europa, erano chiamati i rapporti di forza, in sostanza la cifra più autentica di ogni realismo politico, al di là degli assolutismi pseudo-etici oggi tanto in voga. Una cosa è chiara: il regno saudita è uno dei maggiori esempi di realismo politico all’interno del mondo islamico, e ha saputo cogliere con spregiudicata prontezza il nuovo ventaglio di relazioni – diplomatiche, economiche, energetiche e militari – che l’invasione russa dell’Ucraina ha aperto. Da questo punto di vista la società saudita è certamente più attrezzata rispetto al futuro che si prospetta, in altre parole un futuro nel quale il regime capitalistico potrà dispiegarsi facendo a meno delle narrazioni tipiche del mondo euro-occidentale. Da tutto quello che fin qui ho cercato di illustrare, infatti, ciò che genera contraddizioni e paradossi nel comprendere l’evoluzione della società saudita – e in genere di quelle islamiche – è insistere a correlare democrazia liberale e progresso sociale, apertura dei mercati e secolarizzazione/laicizzazione (è una delle presunzioni ideologiche con cui si è preteso di “mettere il cappello” alle cosiddette primavere arabe, con esiti drammatici), presumendo che le condizioni di vita possano migliorare in senso “progressista” grazie esclusivamente all’adozione di diritti particolari a particolari assetti valoriali. In realtà la società saudita, al netto di proteste e petizioni che non sono rappresentative della grande maggioranza della popolazione, sa vivere perfettamente la propria appartenenza religiosa declinata in un sistema capitalistico, facendo del tutto a meno del nostro set di presunte superiorità valoriali. E lo dico senza nessuna valutazione da parte mia.
Senza voler dunque prevedere nulla, posso però ipotizzare che le forme estetizzate della propria religiosità, così come le ha scarnificate il letteralismo wahhabita, unite alle dinamiche dei consumi, sempre così efficaci nel ridurre a way of life qualsiasi aspetto della propria esistenza, costituiranno con buona probabilità la direzione in cui la società saudita si svilupperà.