“Fenomenologia dell’impostore. Essere un altro nella letteratura moderna” di Giancarlo Alfano

Prof. Giancarlo Alfano, Lei è autore del libro Fenomenologia dell’impostore. Essere un altro nella letteratura moderna edito da Salerno: come si sviluppa il racconto di Jean de Coras della straordinaria vicenda di Martin Guerre e della sua sostituzione?
Fenomenologia dell’impostore. Essere un altro nella letteratura moderna, Giancarlo AlfanoJean de Coras fu uno dei giudici della corte di appello che discusse il caso di sostituzione di persona avvenuto verso la metà del Cinquecento in Francia quando un giovane uomo, chiamato Pansette, prese il posto di Martin Guerre che si era allontanato da casa otto anni prima abbandonando la moglie e il figlioletto.

Nel suo racconto, Coras ricostruisce l’andamento dell’inchiesta, realizzata dallo stesso collegio giudicante, con la «perplexité grande» della corte che non sapeva bene come muoversi tra la gravità delle accuse, compresa quella di aver esercitato la magia nera per ingannare le vittime della sostituzione di persona, e la disinvoltura di un imputato che si dimostrò capace di raccontare con grande precisione dettagli anche minuti e intimi della sua vita famigliare del passato. Il libro di Coras, che rappresenta la fonte principale se non unica di questa straordinaria vicenda (i documenti di archivio non esistono più), è interessante sia perché mostra il modo in cui la magistratura inquirente dell’epoca affrontò una questione spinosa e complessa dal punto di vista giuridico (non era nemmeno chiaro quale fosse il reato preciso commesso dall’impostore), sia perché ci fa entrare nella organizzazione mentale degli uomini del Rinascimento, perplessi di fronte alla messa in discussione della individualità del concetto di persona. Il racconto del giudice è arricchito da note giuridiche piene di riferimenti a casi letterari antichi che mostrano molto bene il profondo cambiamento tra il mondo greco-romano (o giudaico delle origini) e il mondo europeo successivo alla grande svolta della diffusione del Cristianesimo, quando l’introduzione della confessione personale partecipò alla definizione di un nuovo “sentimento” della individualità che avrebbe progressivamente determinato l’idea di soggetto come proprio, specifico, autonomo e non-intercambiabile che si è affermata nella modernità.

Come viene rappresentata, nella letteratura moderna, l’impostura?
Non c’è un unico modo in cui Shakespeare, Molière, Rousseau o Goldoni rappresentano l’assunzione da parte di un individuo della personalità altrui. Tutte le storie di questo tipo – si tratti di drammi scenici, di romanzi o di racconti – si caratterizzano però per due aspetti principali. Il primo riguarda l’abilità performativa dell’impostore, la sua capacità di situarsi in uno spazio culturale e mentale, in un sistema comportamentale: una abilità che gli permette di essere percepito “come uno di noi”. Il secondo riguarda invece i meccanismi della verosimiglianza: l’impostore è infatti sia “uno che agisce” sia “uno che racconta”; i suoi racconti risultano persuasivi, coerenti coi riferimenti concettuali correnti, con le abitudini del pensiero, con le categorie di base che strutturano il mondo dell’epoca in cui egli vive. Nel mio libro ho cercato di mostrare – sempre ricostruendo casi di grandi opere letterarie – in che modo l’impostura sia legata a una concreta modalità individuale, alla abilità retorico-performativa di un soggetto capace di spacciarsi per un altro. Poiché questo “altro” è una persona qualsiasi, l’abilità in questione deve essere particolarmente raffinata perché implica una profonda “simulazione del mondo quotidiano”.

Proprio questo mi pare infatti il grande fascino dell’impostore moderno: nel mondo antico ci si spaccia per una grande personalità (il figlio dell’Imperatore, il fratello del Re, o il Re in persona, il Papa), nel mondo moderno, quando si creano le condizioni mentali, psicologiche e giuridiche per poter ragionare in termini di “individuo”, chi si spaccia per qualcun altro prende di solito il posto di un altro “uomo qualunque”. Per questo motivo, egli potrebbe anche non essere mai scoperto; e morire così come è vissuto: come qualsiasi altro.

In che modo l’impostura, in tutte le sue forme, popola le strade e le corti del Medio Evo e della prima Età moderna?
Nel capitolo III del libro mi soffermo sull’arte della truffa nella prima Età moderna, tra i ss. XIV e XVII. Piero Camporesi ritrovò e pubblicò anni fa alcuni brevi trattati in cui si illustravano le varie tipologie di truffatori di strada. In questi trattati si insisteva di solito sulla notevole specializzazione di questi piccoli delinquenti stradajoli: elemosinieri, venditori di false reliquie, spacciatori di specifici e bevande miracolose, etc., avevano ciascuno la propria arte specifica, spesso portata ad altissimi livelli di raffinatezza. Il fenomeno, peraltro, era di massa: «Il flagello era molto remoto», il «”mestiere” di ciurmatore» era un’«invenzione (o necessità) antichissima», divenuta però «un colossale impianto a delinquere quando l’etica cristiana» aveva reso l’elemosina un «comandamento morale». Con queste parole, Camporesi metteva subito in evidenza l’antichità di un’attività fraudolenta che, sorta in tempi assai remoti, dopo aver attraversato il mondo medievale e moderno si sarebbe poi incarnata nel mito borghese e metropolitano delle «classi pericolose».

Un fenomeno di lungo periodo, dunque, ma anche un fenomeno estensivo, giacché per secoli il vagabondaggio coinvolse grandi percentuali della popolazione europea costretta a vagare di luogo in luogo. E anche un fenomeno interclassista, correlato a quella mobilità «extrème, deconcertante» caratteristica della società medioevale che non rispondeva solo alle ragioni del bisogno economico, se è vero che la instabilitas animi e il desiderio di viaggiare e correre il mondo erano considerati sintomi tipici dell’accidia, o melanconia, malattia che a quel tempo veniva normalmente attribuita agli intellettuali.

Chierici irrequieti e uomini al bordo della società, intellettuali melanconici e furfanti fuorilegge (outlaw o sans aveu) percorrono insieme le vie d’Europa, ingrossando le fila di quei mendici validi (o falsi mendicanti) i quali trovavano sostentamento nell’elemosina pubblica e privata, al pari di quei frati condannati da Boccaccio come ipocriti all’inizio della novella di frate Alberto (Dec. IV 1), i quali, per «dimandar l’altrui», si vestono di «panni larghi e lunghi», rendono i «visi artificialmente palidi» e camuffano «le voci» per farle sembrare «umili e mansuete». Del resto, l’etimologia medievale voleva che la parola ‘volto’ (vultus) derivasse dal verbo ‘volere’ (volo), facendo della parte del corpo più intimamente associata alla individualità una diretta espressione dell’intenzione soggettiva. Intenzione ingannevole che arriva a modellare l’intero corpo dell’impostore, sul quale vengono diffondendosi «malattie, ferite, piaghe, gonfiori, bubboni», tutti procurati ad arte.

Ma questa arte della modificazione del corpo – che è arte dell’attore –, si accompagnava necessariamente all’utilizzo delle più varie tecniche della retorica al fine di persuadere, cioè imbrogliare, il malcapitato di turno. Per questo motivo quei trattati a cui ho fatto cenno parlavano della truffa come di una ottava arte, cioè come una sorta di derivato quintessenziale delle scienze medievali (il trivio e il quadrivio): il truffatore era insomma considerato come un esperto in retorica, pertanto capace di adattarsi all’uditorio offrendo una performance credibile sotto ogni aspetto: dall’inventio, con la scelta opportuna degli oggetti della sua orazione, alla pronunciatio o actio, con la prossemica e il tono adeguati al contesto, passando per la dispositio (l’organizzazione degli argomenti), l’elocutio (lo stile che più si attaglia al tema e alla situazione) e, ovviamente, la memoria.

Parallelamente, nelle corti europee si veniva sviluppando una complessa teoria della simulazione e della dissimulazione: in un ambiente ristretto e controllatissimo come quello della corte di un principe (e poi di un Re assoluto: si pensi alla Versailles di Luigi XIV, dove agirà proprio Molière), le idee, i pensieri, i sentimenti stessi possono costituire un eccellente strumento per conquistarsi il rispetto e la fiducia degli altri cortigiani e dello stesso signore; ma possono anche rovesciarsi in un’arma formidabile di auto-denuncia. Lo mostra benissimo il Libro del cortegiano, il capolavoro che Baldassar Castiglione pubblica nel 1528. Ne parlo all’inizio del cap. IV della mia Fenomenologia dell’impostore, quando ricordo che l’autore immagina che alla corte di Urbino un nobiluomo proponga agli altri cortigiani che ciascuno riveli in che modo, «avendo ad impazzir pubblicamente», egli crede che mostrerebbe le sue «scintille di pazzia». Ognuno avrebbe dunque dovuto esporre agli altri lo sviluppo di quegli accenni, quei germi di ossessività, di nevrosi, di eccentricità che gli è sembrato di intravedere in se stesso. Si tratta di un brano di impressionante chiarezza, in cui, riprendendo le modalità della Chiesa antica, Castiglione immagina un cortigiano che confessa le sue colpe innanzi all’intera comunità, ispirandosi a un principio di trasparenza, di sé a sé e di sé innanzi agli altri, per giungere a rivelare la propria interiorità: il giocatore immaginato da Castiglione deve infatti essere disposto a indagare i più reconditi movimenti della sua psiche per dedurre, dalle scintille, una pazzia pubblica: cioè non solo una pazzia che apparirebbe evidente a tutti, ma che egli stesso dovrebbe rendere pubblica. Apparizione esterna di ciò che è latente, processo maieutico, o se vogliamo auto-denuncia, che il cortigiano è chiamato a saper governare.

Quale ruolo svolgeva la dissimulazione nella società dell’epoca?
L’auto-disciplinamento imposto dalla vita di corte non sarebbe possibile se il cortigiano non avesse consapevolezza della natura sociale della propria identità soggettiva, del fatto cioè che essa è il prodotto dell’insieme dei vincoli e delle richieste (esplicite, ma soprattutto indirette) cui chi frequenta la corte deve saper ottemperare. Nelle parole di Castiglione (il più grande teorico della questione), il cortigiano deve adoperare il suo «bon giudicio» per capire «ciò che piace al principe» e per «sapersegli accomodare», addirittura arrivando a «farsi piacer quello che forse da natura gli dispiacesse». Uno “snaturamento” il cui livello ultimo è individuato nel «vestirsi di un’altra persona»: risorsa estrema cui si deve far ricorso quando è necessario sottrarsi a un’eccessiva intimità col signore. Sapersi acconciare ai gusti del principe e in generale «accomodarsi ai costumi delle nazioni ove [ci] si ritrova» è quel processo che potremmo chiamare di introiezione dell’altro, di assunzione su di sé (o dentro di sé) delle modalità generali dell’esistenza pubblica. L’indicazione avrà lunga vita, se è vero che sulla stessa linea si colloca la virtù guicciardiniana della discrezione, o l’avvertimento di Giovanni Della Casa sulla necessità di corrispondere alle attese e ai gusti «di coloro co’ quali usiamo», o ancora tutta la riflessione seicentesca europea sulla necessità di conformarsi alle regole del mondo in cui ci si trova a vivere.

Questa profonda indagine sui vincoli e le dipendenze cui gli individui sono sottoposti ci permette di considerare la corte al pari di una «istituzione sociale» così come la ha definita Erwin Goffman, cioè come un «luogo circondato da barriere permanenti tali da ostacolare la percezione». Esattamente come in una prigione, una scuola, una caserma o un ufficio pubblico, anche dentro le mura del palazzo signorile «si svolge regolarmente un certo tipo di attività» e si realizzano delle «rappresentazioni» che hanno un profondo impatto sull’identità soggettiva, al punto che «la stessa struttura del sé» può esser considerata come il frutto «delle tecniche e degli strumenti» che vi vengono adottati. Insomma, anche per il mondo signorile di Antico regime appare legittimo parlare di una «vita quotidiana» realizzata «come rappresentazione», tanto che diversi studiosi vi hanno riconosciuto una «progressiva teatralizzazione ed estetizzazione» dei rapporti interpersonali.

Questa dialettica appare evidente quando si ripercorre la riflessione cinquecentesca e seicentesca intorno a una delle principali tecniche dell’azione pubblica dell’uomo di corte: la dissimulazione. La quale, secondo Jon Snyder (cui si deve un’ampia ricostruzione del pensiero europeo al riguardo), partecipò in maniera importante al processo culturale che fece affermare la distanza come criterio fondamentale che regola il rapporto tra gli individui e il potere e degli individui tra di loro. Nel grande movimento della civilizzazione occidentale, è stata appunto la dissimulazione a configurare l’apprendimento delle distanze e a renderle compatibili con la vita associata, smussando i conflitti che sorgono tra i soggetti quando vivono in una stretta interrelazione all’interno di «barriere permanenti».

Come si sviluppa, nei secoli successivi, il tema letterario dell’impostura?
Non mi è facile sintetizzare in poche righe i cinque restanti capitoli del mio libro, che vanno dal Tartufo di Molière (grande dramma comico sulla nascita della borghesia) ai recentissimi racconti di Carrère e Cercas. Mi limito pertanto a due considerazioni conclusive.

La prima riguarda il rapporto dell’impostura con il grande motivo culturale della credenza, Prendendo il posto di qualcun altro, soprattutto se questo qualcun altro è “uno come noi”, una persona media, priva di elementi distintivi che non siano quelli che il nostro piccolo ambiente gli attribuisce (e si attribuisce), l’impostore si avvale di tutti quegli impliciti culturali, di tutta l’enciclopedia che unisce il detto e il non-detto della vita quotidiana. Ciò che abitualmente crediamo (ogni società in ogni epoca si poggia su di un insieme di elementi che non mette in discussione se non vi è costretta da contraddizioni troppo eclatanti) serve a colui che non è chi dichiara di essere per poter esserlo.

La seconda riguarda invece il rapporto tra credenza e credito, cioè proprio il credito economico, o finanziario. Ne discuto in particolare nel capitolo in cui ripercorro uno straordinario romanzo di Melville, The Confidence-Man, dove le lettere di San Paolo e le sue dichiarazioni sulla Grazia sono direttamente associate alla truffa economica. Ma ho provato a mostrarlo anche nel capitolo sul Tartufo di Molière (dove la questione della proprietà privata è assolutamente centrale). Ed è infine evidente nella agghiacciante storia raccontata da Emmanuel Carrère nell’Avversario, in cui l’«avversario» del titolo, che è il Demonio della Bibbia dei Cristiani, è al tempo stesso una apparizione del Male e la rivelazione della nostra inevitabile dipendenza dalle necessità economiche.

La letteratura, credo, riesce anche nei nostri tempi a rivelare i meccanismi più profondi della vita. E la figura letteraria dell’impostore non è altro che il più tipico dei personaggi moderni: l’uomo qualunque.

Giancarlo Alfano (1968) insegna Letteratura italiana all’Università di Napoli «Federico II». Tra i suoi libri: L’umorismo letterario (Roma 2016) e Il Rinascimento. Un’introduzione al Cinquecento, con Claudio Gigante ed Emilio Russo (Roma 2016)

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