
di Anna Simone, Ilaria Boiano e Angela Condello
Mondadori Università
«Uno dei principali paradossi del discorso politico contemporaneo è la frequenza con cui vengono nominate ‘le donne’, senza alcuno sforzo teso a dimostrare adeguata conoscenza dell’immenso sapere scientifico, giuridico e politico che esse hanno lasciato e che, instancabilmente, continuano a generare. Cosicché questa categoria neutra, ‘le donne’, diventa (a seconda delle contingenze) un oggetto del sapere giuridico o politico al fine di far apparire come più ‘democratiche’ le leggi elettorali, di affinare nuove politiche sociali, di legittimare politiche securitarie e via discorrendo. Eppure ‘le donne’ non sono una minoranza etnica, né una variabile costruita ad hoc per sopperire alla grave crisi o alla trasformazione, nel senso più reazionario del termine, delle democrazie dei paesi occidentali. Men che meno esse possono essere considerate come un mero oggetto del sapere o come una variabile statistica.
Le donne rappresentano, infatti, la quota maggioritaria della popolazione e ogni volta che, a partire dal femminismo, hanno proferito o proferiscono discorsi con valenza scientifica, politica, giuridica hanno rimesso al centro il soggetto e i soggetti. Come gesto originario, primo e fondamentale, le donne hanno incarnato – a partire dalla ricchezza della propria esperienza – le stesse parole troppo neutre, oggettivate e astratte usate per definirle. Inoltre, se è vero che non tutte le donne sono femministe, è altrettanto vero che il sapere femminista non è utile solo alle donne, perché nasce e si sviluppa come un pensiero critico fondamentale e fecondo per tutte e tutti: a volte mettendo al centro e valorizzando la relazione con gli uomini, a volte il conflitto. Non solo, insomma, un sapere del sé che comincia e finisce nel sé, marginale, identitario, di nicchia, persino inutile come spesso tende a pensare chi non lo conosce.
Pertanto, il suo scopo principale, nonché il nostro scopo attraverso questo libro, è quello di ri-nominare, ri-pensare, ri-articolare le strutture e i fondamenti scientifici di base del diritto, delle forme di convivenza civile e di organizzazione della società costruiti ab origine a partire dall’universalismo dell’Uno. Un uno maschio, bianco, padre di famiglia, il soggetto unico e solo posto a fondamento nella prima modernità.
Se nella letteratura scientifica internazionale la parola ‘femminismo’ non suscita alcun timore nell’opinione pubblica, come dimostra l’enorme produzione in contesti anglosassoni di manuali e riviste accreditate, dedicate ai Gender Legal Studies, alla Feminist Jurisprudence e alla Feminist Criminology (per nominarne solo alcune), in Italia sembra rassicurare di più il termine ‘femminile’, inteso non come progetto di auto-valorizzazione della propria differenza per cambiare alla radice il sapere giuridico e politico prodotto dagli uomini (come facciamo in questo libro), ma come un femminile generato e legittimato a prendere parola per concessione maschile. Altrettanto ‘concessa’ appare la locuzione più neutra e generica di ‘Studi di genere’. Tuttavia, se sull’ontologia del sesso e del genere in relazione al diritto si trovano molte indicazioni nelle pagine a seguire, sul punto di partenza di questo libro, invece, è meglio fare da subito chiarezza. Lo abbiamo pensato e concepito per varie ragioni situandolo a partire da bisogni specifici.
La prima ragione è che era necessario uno strumento utile per orientarsi all’interno del concetto che proponiamo, uno strumento che potesse fornire una summa e, al contempo, una prospettiva ariosa di interpretazione del diritto e dei diritti. Viviamo, infatti, in un momento storico fortemente segnato dall’uso politico del diritto per ripristinare o per contenere le derive democratiche del presente, nonché i principi cardine di una civiltà giuridica e politica sempre più debole, presa in considerazione solo come protesi tecnica, mai come fonte di rinnovamento di un sapere che nasce dalla tradizione degli studi umanistici. Parallelamente, assistiamo a una progressiva erosione della possibilità di esigere i diritti, specie quelli fondamentali sanciti dalle Carte Costituzionali e dai Trattati internazionali, senza sapere mai bene come orientarci tra l’evocazione degli ordinamenti giuridici interni e il diritto internazionale. Nella prospettiva femminista, invece, il diritto è uno strumento utile solo se considerato nel suo insieme, e quindi non come una semplice coercizione definibile definibile a partire dalla legge. In altri termini, nella prospettiva che qui presentiamo, il diritto diventa interessante solo in quanto esercizio politico votato a realizzare una forma di giustizia più ampia e allargata.
La seconda ragione è che sempre più di frequente la politica oggi affronta questioni che toccano direttamente i saperi e le vite delle donne, come la sessualità, la procreazione, l’immigrazione, i confini, la violenza, la vulnerabilità sociale, utilizzando strumenti giuridici sessualmente neutri. Ciò concorre a escludere il sapere soggettivo dell’‘altra’ e degli ‘altri’ che oggi popolano le nostre società perennemente in trasformazione.
La terza ragione è più squisitamente scientifica. Spesso, probabilmente a causa di un provincialismo interiorizzato, si tendono a valorizzare i saperi femministi che arrivano da altre latitudini, considerando la ‘differenza italiana’ come un qualcosa di superato, nella gran parte dei casi senza mai neppure averla esperita e compresa. Con questo lavoro tentiamo di rovesciare questa impostazione e, pur ricostruendo anche i dibattiti internazionali sui concetti chiave che secondo noi oggi sono dirimenti (diritto/diritti/giustizia; differenza/eguaglianza; sesso/sessualità/riproduzione; cittadinanza/frontiere; devianza/questione criminale/sicurezza; vittima/vittimologia/vulnerabilità), approdiamo al pensiero femminista italiano, alle sue autrici più importanti – Letizia Gianformaggio, Tamar Pitch, Silvia Niccolai e Lia Cigarini – per valorizzarle e fare in modo che il pensiero femminista italiano possa trovare una posizione e un respiro internazionali attraverso le ‘politiche della traduzione’ (come si dice frequentemente negli studi postcoloniali). D’altronde ogni sapere femminista, per essere davvero tale, si situa a partire da un posizionamento fisico-geografico, oltre che dall’idea secondo cui a parlare e ad interrogarci è innanzitutto il corpo.
La quarta ragione, dirimente per effettuare anche una scelta di campo all’interno del rapporto tra diritto/diritti/giustizia e femminismo, è stata ed è per noi la necessità di togliersi da quella confusione sopra accennata per cui dire ‘femminismo giuridico’ equivale a rivendicare i diritti delle donne, oppure occuparsi di una ‘questione femminile’, o della ‘condizione femminile’, come fossimo ancora nell’Ottocento o nell’Europa del dopoguerra. Se è vero, infatti, che il femminismo nasce come movimento di rivendicazione dei diritti politici delle donne e per il suffragio universale, è altrettanto vero che da allora a oggi le teorie e le pratiche femministe in relazione al diritto hanno assunto una geografia varia e complessa, per nessun motivo riducibile solo ai cosiddetti ‘diritti delle donne’ o all’approccio più recente denominato ‘giusfemminismo’ – che si basa in prevalenza sul diritto anti-discriminatorio, dunque sulla rivendicazione formale e sostanziale del principio di eguaglianza e parità –, o ancora ai cosiddetti ‘diritti di genere’.
La radicalità del femminismo giuridico italiano, a differenza di molti altri femminismi delle origini, consiste invece nell’aver rimesso al centro la differenza sessuale come gesto, pratica e parola in grado di contestare alla base l’Uno, cioè quell’universalismo dei saperi e dei poteri che aveva escluso le donne all’origine e che oggi mira a includerle nella differenza, passando dall’emancipazionismo (vogliamo essere come gli uomini) al differenzialismo identitario (dobbiamo rispondere a un femminile che non corrisponde al nostro desiderio, perché di fatto non lo ascolta e non lo interroga, ma alla costruzione che di esso ha fatto la cultura patriarcale prima e quella paternalista poi). Fare la differenza, invece, significa sottrarsi sia alla logica dell’egualitarismo, sia alla logica del differenzialismo identitario, perché differenza è innanzitutto differimento, spostamento, «quel non farsi mai trovare al proprio posto», come scriveva Angela Putino e, al contempo, quella risignificazione, a partire dall’essere due, e più di due in grado di accogliere più mondi, più linguaggi: nella pratica politica, nel tecnicismo giuridico, nella logica economica.
Nel 1992 la giurista Sylviane Colombo redigeva, nominandola per la prima volta, la voce «femminismo giuridico» nel Digesto delle discipline privatistiche (sez. civ.). Il sapere enciclopedico, come sappiamo, legittima l’uso dei concetti, li rende disponibili, dà conto, ma non sempre prende posizione. Nella voce, infatti, non si chiarisce bene se con ‘femminismo giuridico’ dobbiamo intendere la visione emancipazionista dei diritti delle donne, intese come identità e gruppo sociale svantaggiato, o valorizzare le nostre differenze ovunque ci troviamo. Noi abbiamo optato per questa seconda ipotesi senza tradire la stessa Sylviane Colombo. Quest’ultima, infatti, scriveva che se il tratto comune delle giuriste, delle filosofe e delle sociologhe del diritto femministe femministe d’oltralpe era ed è la critica del formalismo giuridico e della sua pretesa di universalità per il tramite del diritto positivo, è altrettanto vero che non c’è mai stato un vero sforzo, nelle stesse autrici anglosassoni a cui lei si riferisce, di assumere una prospettiva epistemologica innovativa per il diritto e per le sue politiche provando a cambiarlo alla radice delle sue matrici, siano esse discendenti dal giusnaturalismo o dal giuspositivismo. Il femminismo giuridico italiano, invece, lo ha fatto ed è per questa ragione che vale la pena di rimetterlo al centro degli studi filosofico-giuridici e socio-giuridici contemporanei. Infatti non c’è autrice in questo libro, da Letizia Gianformaggio a Lia Cigarini, da Tamar Pitch a Silvia Niccolai che non abbia, seppure da posizionamenti diversi, assunto il diritto per rivoltarlo ‘come un calzino’, cambiandone dall’interno forma, struttura, interpretazione, argomentazione. Così come non c’è argomento trattato in questo lavoro che non tenti di rovesciare gli innumerevoli approcci, sempre più neutri e oggettivi, di cui si occupa.»