“Federico II e la crociata della pace” di Fulvio Delle Donne

Prof. Fulvio Delle Donne, Lei è autore del libro Federico II e la crociata della pace, edito da Carocci: cosa rese straordinaria la crociata dell’imperatore svevo?
Federico II e la crociata della pace, Fulvio Delle DonneLa crociata condotta da Federico nel 1228-1229 fu davvero straordinaria per almeno due motivi. Il primo è che non ci fu alcuno spargimento di sangue: tutto fu risolto attraverso accordi diplomatici tra l’imperatore Federico II e il sultano d’Egitto, al-Malik al-Kāmil: fu una “crociata di pace”, nel senso più pieno e anche contraddittorio dell’espressione, perché non ci furono battaglie, né morti. Proprio questo, il fatto che fu incruenta, fu un aspetto che l’imperatore svevo, nei trionfalistici messaggi solenni inviati a tutta l’ecumene cristiana, sottolineò come miracoloso, come il segno della speciale protezione che Dio gli aveva riservato. L’altro motivo, altrettanto se non forse ancor più sorprendente, perché a prima vista incongruente, è che fu compiuta da uno scomunicato. In altri termini, l’impresa che rappresentava il dovere più alto della militanza spirituale cristiana fu compiuta proprio da chi era stato escluso dalla comunità dei Cristiani. Infatti, Federico II era stato fulminato dalla scomunica di papa Gregorio IX nel 1227, proprio perché aveva tardato ad avviare la spedizione d’Oltremare: e la scomunica non gli fu revocata neppure dopo che entrò a Gerusalemme e consentì ai fedeli l’accesso al Santo Sepolcro.

Quale aura mistica avvolse l’evento?
Era un’epoca in cui si riteneva prossimo l’arrivo dell’Anticristo, che sarebbe stato preceduto immediatamente dal trionfo di colui che i testi chiliastici chiamavano “imperatore della fine dei tempi”: colui che avrebbe ricondotto sulla terra l’età dell’oro e, dopo aver riunito Oriente e Occidente sotto la sua guida, avrebbe deposto la corona sul Golgota, a Gerusalemme. Solo allora, in seguito a un breve periodo di pace universale, sarebbe sopravvenuto il giudizio finale, in cui i malvagi sarebbero stati condannati a pene eterne e i puri d’animo sarebbero ascesi alla contemplazione del Signore. Era, dunque, quella la temperie di attese e di timori in cui Federico II compì la sua impresa, e che probabilmente sfruttò per ammantare la sua persona di un’eccezionale aura mistica e di un fascino che ancora oggi permane imperituro. Proprio l’entrata in Gerusalemme sembrava portare a compimento gli antichi vaticini: era l’Anticristo o l’Imperatore della fine dei tempi? Su questo il mondo si spaccò in due, in funzione dell’appartenenza all’una o all’altra delle due fazioni: quella filo-imperiale e quella filo-papale (appoggiata anche dai Comuni della Lega lombarda).

Quali vicende ne segnarono lo svolgimento?
Federico prese la croce il 25 luglio 1215, allorché fu incoronato re dei Romani ad Aquisgrana. Poi, però, seguirono lentissimi preparativi, che non subirono accelerazioni neppure quando, nell’estate del 1221, la disfatta di Damietta (al culmine della crociata che numeriamo come “quinta”, con un computo che non ha alcun significato) sembrava rendere urgente l’intervento. Una svolta decisiva avvenne nel 1225, quando Federico prese in moglie Isabella di Brienne, regina di Gerusalemme, che portava in dote quel regno e rendeva più allettanti gli interessi per le terre d’Oltremare: Federico sarebbe diventato signore dell’intero Mediterraneo. Nell’estate del 1227 tutto sembrava ormai pronto. A Brindisi, scelta come porto d’imbarco, si erano radunati migliaia di cavalieri e di pellegrini, ma il calore estivo, in una città impreparata ad accogliere tante persone, favorì il dilagare di una devastante epidemia. L’8 settembre Federico partì, ma dopo appena qualche giorno, allontanatosi solo di poco dal porto di partenza, fu costretto a tornare indietro, perché si era ammalato gravemente. Il papa non volle sentire ragioni e ritenne che fosse un’altra scusa: il 29 settembre gli lanciò la scomunica, mettendolo al bando della comunità cristiana. I preparativi ripresero nella primavera del 1228, appena la stagione consentì di tornare a navigare: questa volta Federico partì davvero, il 28 giugno, e giunse in Siria il 5 settembre. Occorsero oltre due mesi per arrivare sulle coste medio-orientali e altri sei per riuscire ad entrare a Gerusalemme, dove fece il suo ingresso il 17 marzo 1229 (rimanendovi solo pochi giorni) in seguito a un accordo diplomatico e pacifico con il sultano al-Kāmil, che consentiva ai Cristiani di accedere liberamente al Santo Sepolcro per 10 anni, 5 mesi e 40 giorni (il massimo consentito dalla legge islamica sarebbe stato 10 anni, 10 mesi, 10 settimane e 10 giorni). Il ritorno in Italia fu rocambolesco e precipitoso: le truppe papali avevano invaso il Regno e ci vollero mesi per riconquistarlo, città dopo città.

Quale lezione possiamo trarre oggi da tale crociata pacifica e controcorrente?
L’idea del libro è nata e si è andata gradualmente elaborando in connessione con quella lunga e frequente serie di avvenimenti tragici e sanguinosi culminati nel 2015 con gli assalti a «Charlie Ebdo» e al «Bataclan». Al di là del senso di stupore per eventi terribili capitati nel cuore di un’Europa patria comune, una delle ricorrenti reazioni collettive è stata l’insofferenza verso tutto ciò che viene avvertito come diverso, con l’evocazione più o meno esplicita di nuove crociate. In particolare si è spesso visto nell’Islam il nemico che attenta alla sicurezza del nostro mondo, e si è guardato a tutti i Musulmani (senza alcuna distinzione) come a pericolosi integralisti che, anche quando vivono in Occidente, non si vogliono conformare alle nostre usanze e alle nostre leggi. In questa situazione, il rischio più grande è di dimenticare il maggiore insegnamento dell’Illuminismo, cioè la “tolleranza”, o, per meglio dire, la disponibilità ad accettare l’altro, ciò che è diverso da noi. Le “guerre sante” – crociata o jihad – sono un retaggio ineludibile del nostro passato, ma sono troppo spesso piegate alle strumentalizzazioni politiche più meschine. Per fortuna, però, neppure nella contemporaneità quotidiana è venuto a mancare lo sguardo vigile e sereno di chi ha proposto alternative all’abuso della sacralizzazione politica della violenza. In un’enciclica del 2019 papa Bergoglio ha proposto il modello pacifico del santo di cui ha preso il nome, di quel Francesco che «mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature» si recò dal sultano al-Mālik «armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto». La suggestione che propongo nel libro è che alla prospettiva cristiana e francescana si possa accostare quella “laica” federiciana. È utile ricordare che mentre tutti attorno inneggiavano all’odio e pretendevano che si lavasse col sangue la strada per il Santo Sepolcro, la decisione di non imbracciare le armi e di condurre una trattativa pacifica portò vantaggi che non si sarebbero potuti ottenere altrimenti. Certo, sia l’imperatore che il sultano mirarono a un loro vantaggio particolare, perché con la loro tregua decennale poterono risolvere più facilmente i problemi che li affliggevano sul fronte interno; ma quel loro vantaggio fu utile a tutti, Cristiani e Musulmani, in Occidente e in Oriente. E, per ottenerlo, entrambe le parti fecero un passo indietro, rinunciando a qualcosa di importante. Ecco: ricondurre all’attenzione della contemporaneità una vicenda lontana può contribuire a indicarci una via possibile anche in questo nostro presente, in cui si sentono rimbombare troppo da vicino i colpi di cannone.

Fulvio Delle Donne insegna Letteratura latina medievale e umanistica all’Università degli Studi della Basilicata

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