
In agricoltura, l’introduzione di nuovi strumenti e tecniche di produzione ha consentito di moltiplicare i livelli di output impiegando una frazione degli occupati. Lo stesso è accaduto per le risorse minerarie ed energetiche. Anche il commercio, fondamentale motore di crescita, è stato spinto da molteplici innovazioni, tecniche e finanziarie.
Invenzioni come la macchina a vapore a fine Settecento e dinamo ed energia elettrica a metà Ottocento hanno prodotto la prima e la seconda rivoluzione industriale, allargando l’economia e aumentando la produttività. Analogamente l’introduzione dell’elaboratore elettronico negli anni cinquanta, del personal computer negli anni ottanta e la diffusione commerciale di internet a partire dagli anni novanta, hanno moltiplicato la produttività del lavoro intellettuale e creato nuove attività, con risvolti positivi su tutta l’economia. Il susseguirsi d’innovazioni in campo scientifico, organizzativo e finanziario ha stimolato la crescita in tutti i settori.
Una delle maggiori innovazioni organizzative è stata la divisione del lavoro. Per Adam Smith è una delle fonti di ricchezza delle nazioni. Frederick Taylor e Henry Ford la introducono in fabbrica, aprendo la strada alla produzione di massa organizzata. Infine, lo sviluppo della finanza ha accompagnato nel tempo la crescita dell’economia, agevolando i pagamenti e facilitando il commercio, canalizzando il risparmio in investimenti produttivi, consentendo la diversificazione e la copertura del rischio. Ma l’innovazione finanziaria è spesso stata decisiva nel rendere possibile il cambiamento tecnologico stesso. L’evoluzione di strumenti e tecniche finanziarie ha consentito a invenzioni di diventare innovazioni, a idee di tradursi in processi, prodotti e servizi, facilitando e accelerando l’impatto positivo dell’innovazione tecnologica sulla crescita.
Il legame tra innovazione e crescita è sempre stato strettissimo. Ma in futuro le cose potrebbero andare diversamente.
Quali cambiamenti e nuovi paradigmi ha imposto la rivoluzione tecnologica?
La rivoluzione in corso non riguarda solo sostenibilità e innovazioni tecnologiche ma è anche politica. Perché ha conseguenze su economia, società, etica. E perché comporta scelte di valore che la collettività deve fare per sé e per le generazioni future.
La prima scelta, la più importante, è se dare priorità alla crescita a ogni costo o mettere l’uomo al centro. Privilegiare la crescita senza preoccuparsi di sostenibilità e conseguenze occupazionali dovute all’automazione può essere frutto della convinzione che il sistema troverà da solo – come accaduto in passato – un nuovo punto di equilibro. Ma un tale approccio può non essere compatibile con i crescenti vincoli di sostenibilità. Favorire la centralità dell’uomo non significa rifiutare il progresso o rinunciare alla crescita. Al contrario, questa scelta richiede che l’uomo interagisca con la tecnologia senza però arrendersi alle macchine, che persegua la crescita ma in modo sostenibile, che aumenti la ricchezza prodotta ma ripartendola equamente, che migliori la produttività ma anche la qualità di vita e lavoro delle persone.
Mettere la persona al centro è il punto di partenza che fa del sistema valoriale la bussola da seguire per trovare la giusta rotta e fare alcune scelte imprescindibili. Occorre innanzitutto un nuovo quadro normativo che regoli alcune criticità – legali, fiscali, etiche – relative alle nuove tecnologie e che aiuti a inserire i vincoli di sostenibilità nel modello di crescita economica. È necessaria una politica economica che renda economicamente vantaggioso un comportamento sostenibile e una politica del lavoro che concili la tutela di quello esistente con la creazione di quello nuovo. Fondamentale è anche investire in scuola e formazione e migliorare la collaborazione tra sistema educativo e imprese, per ridurre il crescente divario tra competenze richieste e disponibili (skill gap) e per accrescere la sensibilità in materia di sostenibilità. È inoltre necessario affrontare il tema della redistribuzione, per consentire a tutti di partecipare ai benefici del progresso tecnologico.
Le sfide sono complesse, richiedono scelte coraggiose e una visione politica di lungo periodo. La tentazione di rimandarle alla prossima generazione è grande. Soprattutto da parte di una politica sempre più concentrata sul presente.
Cosa ha significato, dal punto di vista occupazionale, la rivoluzione tecnologica?
Nel corso della storia l’impatto dell’innovazione sull’occupazione è sempre stato positivo. E la crescita è stata il principale canale di trasmissione tra l’una e l’altra. Talvolta nel breve termine le innovazioni hanno portato al sacrificio di alcuni settori e dei relativi posti di lavoro. Tuttavia, in seguito hanno determinato aumenti di produttività, crescita delle retribuzioni medie, allargamento delle dimensioni dell’economia e creazione di nuovi mestieri. Il saldo netto dell’occupazione – per quantità e qualità – è sempre stato positivo.
Sarà così anche questa volta, con rivoluzione digitale?
Certamente alla perdita di certi mestieri corrisponderà anche in futuro la nascita di nuovi. Tuttavia, questa volta la fase di transizione potrebbe essere particolarmente difficile e il saldo finale sull’occupazione incerto. Esiste addirittura la possibilità di uno scenario in cui la nuova occupazione sarà molto inferiore a quella persa e in cui il valore mediamente riconosciuto al lavoro diminuirà. I segnali in questa direzione, che marcano la differenza rispetto al passato, sono diversi.
Innanzitutto la frequenza nell’introduzione d’innovazioni dirompenti non ha precedenti nella storia. In passato un’innovazione importante produceva, dopo un periodo di assestamento, un nuovo equilibrio nel mondo del lavoro che durava qualche generazione. Altri elementi senza precedenti sono velocità di penetrazione e pervasività delle attuali innovazioni. Vi è poi un effetto combinatorio molto forte nelle innovazioni tecnologiche attuali, che si alimentano reciprocamente accelerando il progresso e allargando i campi di applicazione.
Altra novità rispetto al passato è che all’automazione fisica, con macchine e robot che rimpiazzano le braccia, si affianca sempre più quella cognitiva, con l’intelligenza artificiale che sostituisce molte mansioni intellettuali. Per la prima volta sono quindi a rischio anche professioni con competenze elevate e livello d’istruzione medio-alto. La diffusione d’innovazioni tecnologiche sta inoltre creando una dicotomia senza precedenti nel mercato del lavoro – ampliando il divario tra chi le sa utilizzare e chi no – con conseguente polarizzazione dei redditi. Ciò contribuisce anche al disallineamento, o mismatch, tra le competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori. Infine, la combinazione di tecnologia e globalizzazione favorisce la mobilità del lavoro, soprattutto dei nuovi mestieri creativi e ad alto valore aggiunto, aumentando esponenzialmente la competizione fra territori per attrarre nuova occupazione.
Quali sono i maggiori vincoli alla crescita?
L’ultima, durissima, crisi economica e l’attuale pandemia di Covid-19 hanno riportato alla ribalta il dibattito su limiti della crescita e sull’importanza della sostenibilità.
Il legame virtuoso innovazione-crescita è in crisi a causa di vincoli molto più forti rispetto al passato: oggi infatti sono in pericolo non solo la sostenibilità demografica, alimentare, energetica ma anche quella ecologico-ambientale, sociale, politico-istituzionale.
La sostenibilità va ben oltre l’aspetto strettamente ambientale cui spesso è associata e presenta diverse dimensioni spesso collegate tra loro. La crescita economica è sostenibile se è attenta a inquinamento ed equilibrio ecologico ma anche a quello demografico, minacciato da aumento e invecchiamento della popolazione e da crescenti tensioni intergenerazionali. Per essere sostenibile la crescita deve essere compatibile con la disponibilità di risorse naturali, specie alimentari ed energetiche. E deve poter preservare nel lungo periodo un equilibrio socio-istituzionale, di cui sono elementi cardine l’offerta di adeguati livelli d’istruzione e formazione, l’esistenza di opportunità di lavoro, e una redistribuzione equa e inclusiva della ricchezza.
In un mondo sempre più tecnologico, quale futuro per il lavoro?
Un’ondata d’innovazioni senza precedenti si sta abbattendo sul mondo del lavoro. Su come affrontarla ci sono visioni diverse. Secondo la più ottimista, l’innovazione tecnologica – come altre volte nella storia – aprirà nuovi cicli di sviluppo con conseguenze positive anche sull’occupazione. In una visione più pessimista, il lavoro dell’uomo sarà in larga misura sostituito da macchine e l’impatto sull’occupazione sarà nel complesso negativo.
Nel primo caso la sfida è gestire al meglio la transizione. Che comunque sarà lunga e complessa, trasversale a tutti i settori e le professioni. La difficoltà è integrare le nuove tecnologie nell’economia e nella società, nei tempi più rapidi e con il minor trauma possibile, cogliendo le nuove opportunità di crescita, economica e occupazionale, e facendo sì che i benefici siano per tutti e non per pochi. Un ruolo cruciale lo giocano istruzione, formazione e meccanismi di redistribuzione. Se invece si ritiene che l’impatto sull’occupazione sarà nel complesso negativo, il discorso è più ramificato. Alcuni raccomandano di ostacolare e rallentare la tecnologia. Tuttavia già Ricardo avvertiva che il risultato di una scelta luddista sarebbe stato trasferire il progresso – e con esso crescita e occupazione – all’estero.
Se si accantona l’ipotesi di fermare l’avanzata delle macchine, quali sono le alternative? C’è chi ritiene che sia inevitabile – o addirittura auspicabile – delegare il lavoro alle macchine, in tutto o in parte, e aumentare il tempo libero dell’uomo. Ciò significa ripensare la funzione del lavoro e l’impostazione di vita degli individui. Gli scenari possibili sono quelli dell’uomo che si dedica completamente all’ozio, riduce l’orario di lavoro o lo offre gratuitamente. Un così radicale cambiamento del tradizionale rapporto uomo-lavoro rende necessario identificare fonti di reddito alternative al lavoro stesso e solleva un problema di sostenibilità del sistema previdenziale. Alcune delle risposte possibili sono reddito universale, reddito minimo garantito, imposta negativa, dividendo sociale.
All’estremo opposto altri ritengono che eliminare, o ridurre drasticamente, il lavoro dell’uomo sia un errore, sociale ed economico. Perché la disoccupazione può avere conseguenze di portata molto più ampia della sola perdita di reddito. Lo Stato deve quindi garantire a tutti un lavoro e perseguire la piena occupazione, indipendentemente dal livello di automazione (e dall’utilità del lavoro). Il reddito da lavoro mantiene una funzione redistributiva e sostiene la domanda, ma sono necessarie ingenti risorse finanziarie per creare e retribuire il “lavoro di cittadinanza”.
C’è poi una terza via. accettare la sfida di una convivenza intelligente tra uomo e macchina. A livello macroeconomico significa una spartizione del lavoro tra uomo e macchina. L’avanzata delle macchine diventa l’occasione per investire massicciamente in attività ad alta intensità di lavoro – come educazione, beni culturali, sanità e servizi alla persona – lasciando alla tecnologia quelle che richiedono alta intensità di capitale, come gran parte del manifatturiero. A livello di singola professione, è possibile una stretta collaborazione tra uomo e macchina. L’idea è di sfruttare le innovazioni tecnologiche per migliorare le prestazioni di lavoro dell’uomo. La tecnologia fornisce all’uomo l’opportunità di concentrarsi su quelle mansioni che, nell’ambito di ogni professione, generano valore aggiunto. Quelle basate su caratteristiche che sono difficili da automatizzare, come empatia, creatività, capacità d’interazione e di dialogo. Una tale scelta richiede di rivalutare il ruolo del lavoro e investire in conoscenza per utilizzare al meglio la tecnologia.
Quali scelte siamo chiamati a compiere perché quello che ci attende non sia un futuro disumano?
L’ondata d’innovazioni che caratterizza la nostra epoca offre opportunità senza precedenti. Si pensi ai progressi in campo medico-scientifico e ai miglioramenti nella qualità di vita. Oppure, in ambito economico, alla creazione di valore consentita dallo sviluppo delle macchine. Tuttavia, in pochi decenni l’umanità cambierà più di quanto non abbia fatto in molti secoli. La sfida è senza precedenti. Le scelte da fare sono complesse e urgenti. L’obiettivo è gestire questi processi dirompenti in modo da attutirne le conseguenze negative e contenerne i rischi, cogliere le straordinarie opportunità che emergono, garantire una crescita sostenibile e un’equa partecipazione ai frutti del progresso.
Se saprà utilizzare l’enorme potenziale a disposizione, avere una visione di lungo periodo e assumersi grandi responsabilità, l’uomo potrà governare questo cambiamento e influenzarne positivamente l’esito.
A due condizioni. La prima è che l’uomo ricordi che il giardino dell’Eden gli è stato affidato affinché lo coltivi e custodisca. La stessa cura va riservata al pianeta e alle sue risorse, preservandole per le future generazioni. La seconda condizione è che, nel rapporto con le macchine, l’uomo riscopra ed eserciti in pieno la propria capacità di guida, la sua secolare funzione di “pastore”. Essere pastore di robot significa utilizzarli per migliorare la propria vita mantenendo centralità e preminenza.
Marco Magnani, economista, vive da trent’anni fra Italia e Stati Uniti. Docente di International Economics e Monetary and Financial Economics in Luiss e Senior Research fellow alla Harvard Kennedy School. Collabora con “Il Sole 24 Ore” e “AffarInternazionali”. È autore di Sette anni di vacche sobrie (Utet, 2014), Creating Economic Growth (Palagrave Macmillan, 2015), Terra e buoi dei paesi tuoi (Utet, 2016), Fatti non foste a viver come robot (Utet, 2020) e L’Onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti (Luiss University Press, 2020). www.magnanimarco.com