
Il legame tra la Regia Marina e il regime fascista può essere descritto come un’alleanza trasformatasi in subordinazione con il procedere del processo di espansione totalitaria del regime. Nel 1922, la marina, come l’esercito, appoggiò l’arrivo al potere del fascismo, ritenendo che fosse la risposta alla crisi che l’istituzione stava attraversando, come riflesso della crisi postbellica più generale del paese. Il fascismo si presentò agli ammiragli come l’unico attore politico credibile del dopoguerra in grado di supportare i progetti geopolitici sostenuti dall’istituzione.
Si costruì allora un’alleanza politica che fu confermata nella crisi politica del 1925-26, quando il fascismo si trasformò definitivamente in dittatura. Da quel momento, Mussolini divenne l’interlocutore di riferimento per le forze armate e questo mise in atto un processo di riduzione progressiva della loro autonomia, sfociato negli anni Trenta in una decisa subordinazione politica degli ammiragli a quella del duce. Un processo che avvenne con la connivenza della leadership navale, che ritenne il fascismo capace di permeare l’istituzione di uno spirito nuovo e dinamico, in linea con la trasformazione politico-economico-sociale che il regime dichiarava di voler attuare nel paese.
Con la deriva totalitaria degli anni Trenta e l’affermazione nell’istituzione del potere carismatico del dittatore, i processi decisionali e funzionali all’interno della Regia Marina si trasformarono seguendo questa tendenza, privando l’istituzione dell’autonomia e dibattito interno necessari a delineare una politica navale efficace, rendendo la marina sempre più soggetta alle scelte di un dittatore incompetente di questioni militari.
Quali ambizioni geopolitiche condivideva la Marina col regime?
L’èlite della marina, già durante il periodo liberale, si era proposta come un centro di elaborazione per tesi geopolitiche vicine a quelle del nazionalismo, che prevedevano l’espansione italiana nel Mediterraneo e nel Mar Rosso come pilastri della politica estera nazionale. La Grande guerra e la dimostrata vulnerabilità delle comunicazioni marittime italiane (il paese rischiò la carestia tra il 1917 e il 1918, a causa delle mancate importazioni) esacerbarono queste ambizioni, che divennero parte integrante del programma politico fascista. Il regime e l’istituzione condividevano la visione dell’Italia come potenza in ascesa che necessitava di espandersi nel Mediterraneo, Medio Oriente e in Africa, eventualmente approfittando dell’indebolimento degli imperi britannico e francese, avviatosi dopo la Prima guerra mondiale, auspicando invece una possibile comunanza di interessi con la Germania anche prima dell’ascesa del nazismo al potere. Già prima della stagione espansionistica del regime, i pensatori chiave della marina, discutevano della necessità di espandersi per creare uno spazio imperiale in grado di garantire la sicurezza economica dell’Italia fascista, contribuendo in questo modo a legittimare le rivendicazioni fasciste che avrebbero costituito la base della politica estera del regime negli anni Trenta. La comunanza di tali ambizioni fu fondamentale per la costruzione del legame tra la marina e il regime.
Quali furono gli ammiragli che diedero maggior prova di adesione al regime?
In realtà, più che parlare di un’adesione in senso lineare bisogna considerare l’adesione in relazione alle diverse fasi del regime e della storia dell’istituzione nel ventennio tra le due guerre. Thaon di Revel, anche se era decisamente più vicino alla monarchia che al fascismo, contribuì con il suo appoggio politico a legittimarne la figura politica di Mussolini nelle fasi iniziali del potere fascista. Giuseppe Sirianni, sottosegretario e ministro (1925-1933) invece aprì le porte della marina al fascismo, spingendo anche per l’inserimento del partito nella vita dell’istituzione, ritenendo che lo “spirito del regime” avrebbe contribuito a meglio preparare la marina per realizzare i progetti geopolitici che l’istituzione e il fascismo condividevano. Tale spinta interna contribuì a favorire l’adesione degli ufficiali al partito e ad aprire le porte dell’Accademia navale ad un processo più o meno aperto di fascistizzazione, con l’esclusione dei docenti ritenuti ostili al regime e l’inserimento dei cadetti nelle associazioni giovanili del fascismo.
Tale processo proseguì e si rafforzò sotto Cavagnari, che fu l’esponente del vertice che dimostrò la maggiore dedizione nei confronti del duce, contribuendo alla legittimazione del suo potere in senso carismatico nell’istituzione. Tuttavia, se nel periodo di Sirianni l’atmosfera introdotta dal regime sembrava portare ad un maggiore dinamismo, quella del periodo di Cavagnari fu caratterizzata da una crescente censura, chiusura e centralizzazione, riflettendo l’evoluzione più generale della struttura politica della dittatura.
Accanto a queste figure chiave vanno considerati anche altri esponenti, come Romeo Bernotti, il principale pensatore navale italiano del periodo, che pure sostennero apertamente il regime, almeno fino a quando si dimostrò capace del dinamismo politico necessario a migliorare la marina, ma non riservarono le loro aperte critiche alle scelte del fascismo, fatto che costò loro la marginalizzazione nella seconda metà degli anni Trenta.
Quale fu la politica navale del regime fascista?
Prima della Seconda guerra mondiale, la forza degli stati nella comunità internazionale era determinata in larga misura dalla potenza della marine militari, gli unici strumenti in grado di garantire una proiezione di potenza globale. La Grande guerra ridisegnò l’assetto geostrategico del mondo, perché tre grandi imperi (tedesco, russo e austroungarico) e la loro potenza navale scomparvero dalla scena. Tale cambiamento fu sancito dalla conferenza navale di Washington (1922), che stabilì la “gerarchia” delle potenze navali del pianeta: Stati Uniti e Gran Bretagna alla pari, seguite dal Giappone, a sua volta seguito da Francia e Italia, pure alla pari sul piano teorico.
Il fascismo, dal punto di vista navale, si trovò in una situazione estremamente favorevole, perché la potenza della marina italiana era in una situazione di forza mai sperimentata prima. Gli ammiragli premettero perché la parità con la Francia fosse mantenuta a qualunque costo, in quanto era necessaria per assicurare all’Italia predominio del Mediterraneo centro-orientale. In realtà, i primi anni di governo fascista furono caratterizzati dal contenimento della spesa militare, necessario per la ripresa economica. Tale problema portò a costanti attriti tra Paolo Thaon di Revel, capo di stato maggiore durante la guerra e primo ministro della marina del governo fascista (1922-25), e Mussolini. Tensioni alimentate anche dalla scelta di costituire un’aviazione indipendente, la Regia Aeronautica, che privò la flotta di un’aviazione navale degna di questo nome, considerata invece necessaria alla luce dell’esperienza bellica.
Le tensioni esplosero in parallelo alla crisi politica seguita all’omicidio Matteotti, manifestandosi nell’aperto dissenso da parte di Revel e dei suoi alleati politici riguardo le scelte di politica navale del fascismo. La soluzione del conflitto arrivò all’interno del contesto più generale della trasformazione politica allora in atto. Tra il 1925-26 questo portò alla formulazione di un compromesso tra gli ammiragli e il duce, parte del più generale compromesso che si formò allora tra il regime e le istituzioni. Mussolini da allora e fino alla Seconda guerra mondiale preferì mantenere le forze armate divise, secondo una logica policratica che portò alla contrapposizione dei reciproci interessi, scatenando costanti conflitti di competenza e ripartizione delle risorse economiche e materiali. Nonostante questi problemi, negli anni successivi, la spesa navale aumentò, anche perché il duce non poteva permettere che la parità teorica conquistata con la Francia fosse messa in discussione a livello internazionale, mentre le critiche pubbliche nei confronti della gestione della politica militare fascista, in particolare quelle relative ai rapporti tra le forze armate, cessarono di colpo.
La nuova fase fu rappresentata dalla figura del sottosegretario di stato e poi ministro Giuseppe Sirianni (1925-1933). Il nuovo capo della marina, spesso dipinto come una longa manus del ministro delle comunicazioni Costanzo Ciano, in realtà si dimostrò competente e deciso a migliorare la marina. Fino al 1930, questo permise di coniugare crescita quantitativa e qualitativa. La Regia Marina si presentò anche agli osservatori stranieri come una forza in rapida crescita e temibile per efficienza. Tali successi spinsero anche una maggiore apertura dell’istituzione al regime.
La situazione subì un deciso cambiamento dopo la Conferenza navale di Londra (1930). I francesi si dimostrarono sempre più opposti al mantenimento della parità teorica con l’Italia e il fallimento dei successivi negoziati spinse Mussolini a premere per una maggiore crescita quantitativa della flotta, anche a scapito della preparazione, per dimostrare l’effettiva capacità del paese di sostenere il confronto con la vicina d’oltralpe. Nel contempo la questione dell’inadeguata capacità di cooperazione aeronavale continuò a manifestarsi cronicamente e iniziarono a manifestarsi i primi segni di rallentamento tecnologico, dovuti alla scelta di mantenere la produttività, per sostenere l’industria nazionale colpita dalla crisi del 1929, a scapito dell’innovazione. Inoltre, il duce si dimostrò riottoso a spostare le risorse esistenti sulla marina, perché questo avrebbe richiesto anche ridisegnare gli equilibri politici tra le tre forze armate e continuò ad opporsi, anche per l’influenza di Italo Balbo, allo sviluppo di portaerei e di un’aviazione navale adeguate. Tra il 1930 e il 1933, Sirianni e il capo di stato maggiore Gino Ducci protestarono ripetutamente per la rapida perdita di efficienza che la flotta rischiava.
Il potere del duce sullo Stato e l’inizio della spinta totalitaria del regime, alla cui legittimazione l’istituzione nel suo piccolo contribuì, però portarono alla riduzione al silenzio di queste voci di dissenso. Mussolini riassunse il controllo dei dicasteri militari nel 1933, in quanto riteneva che l’Europa si avviasse decisamente ad una guerra di grandi proporzioni e non intendeva consentire che voci di dissenso alla sua politica estera e militare potessero levarsi dall’interno delle istituzioni. La marina da allora fu sempre più soggetta ad una spinta carismatico-dittatoriale, implementata nell’istituzione dal nuovo sottosegretario Domenico Cavagnari (1933-1940), fedele esecutore della volontà del duce, che ebbe pesanti effetti sulla politica navale italiana.
La necessità di supportare la politica espansionista di Mussolini spostò le risorse della marina verso la costruzione di una flotta dotata di maggiori capacità offensive, rappresentate dalle grandi navi da battaglia impostate negli anni Trenta. Il confronto con la Gran Bretagna nel Mediterraneo, soprattutto in seguito alla Guerra d’Etiopia (1935-36), contribuì ad esacerbare questa tendenza, mentre i problemi manifestatisi all’inizio degli anni Trenta, riguardanti il calo di efficienza, il crescente ritardo tecnologico e la mancanza di un’aeronautica di marina, non furono corretti. A metà del decennio, gli ammiragli maggiormente consapevoli della situazione, posero nuovamente al centro delle loro richieste una politica navale adatta alle ambizioni che il regime e la marina condividevano. Mussolini invece era convinto che la marina di cui disponeva fosse sufficiente per la realizzazione dei suoi progetti politici e ignorò le richieste di questi ammiragli, marginalizzandoli, mentre il vertice dell’istituzione, pur essendo consapevole dei crescenti problemi, si lasciò guidare fedelmente dalle scelte del duce: questa fu la ricetta per la sconfitta.
Quale fu l’esito delle politiche fasciste sulla Marina?
Soprattutto dopo la Guerra d’Etiopia, che aveva dimostrato in apparenza il timore britannico di uno scontro sul mare con l’Italia, Mussolini si convinse che una marina “leggera” centrata sui sommergibili e sul potere dell’aviazione italiana, in realtà molto debole in termini aeronavali, bastasse per fronteggiare la superiore potenza navale anglo-francese. Tale convinzione spinse all’accantonamento definitivo dei progetti di portaerei, intorno al 1935-36, spostando l’asse della politica navale italiana su quattro punti: un forte nucleo di navi da battaglia, aerei, sommergibili e l’alleanza con la Germania nazista.
La formazione dell’Asse Roma-Berlino in primis, e l’avvicinamento al Giappone in misura minore, divennero pilastri per la preparazione della marina, in quanto l’alleanza avrebbe dovuto disporre di sufficienti risorse navali per mettere sotto pressione le potenze occidentali. In questo modo si sarebbe dovuta creare una situazione abbastanza favorevole perché la flotta italiana potesse mantenere il controllo del Mediterraneo centrale. Tale approccio però privò la Regia Marina della capacità di proiettarsi fuori da queste acque, rendendo impossibile un controllo italiano del Mediterraneo orientale, che invece sarebbe stato necessario per riuscire a fronteggiare efficacemente la Gran Bretagna e acquisire il controllo del Canale di Suez. La Regia marina avrebbe “atteso” il nemico nelle proprie acque per logorarlo con questi mezzi leggeri, prima che le sue navi da battaglia potessero infliggere il colpo decisivo. Tale scelta strategica si rivelò inefficace e in questo vanno rintracciate le origini delle sconfitte del 1940-41.
Fabio De Ninno è professore a contratto di Storia della storiografia presso l’Università degli studi di Siena