
All’instaurazione del regime fascista contribuirono non poco i poteri forti economici.
Le interpretazioni marxiste hanno messo in luce i condizionamenti forti che i poteri economici hanno imposto alla formazione del regime fascista e del suo consolidamento. Una lettura che, portata agli estremi di considerare il fascismo come una sorta di “agenzia” del grande capitale, è del tutto inadeguata – dal mio punto di vista. Essa infatti depotenzia il fascismo in quanto tale, i suoi contenuti ideologici e progettuali, magari vaghi e incoerenti. Da questo punto di vista De Felice ha dato un contributo importante, seppure a suo tempo fortemente criticato. Ha fatto parlare le fonti fasciste per quanto esse intendevano dire, ne ha evidenziato la consistenza autonoma. Attribuire un peso particolarmente forte agli interessi economici significa, d’altra parte, rischiare di sminuire il peso del consenso verso il fascismo, espresso (magari a momenti e spesso in modo superficiale ed emotivo) da una parte significativa degli italiani, appartenenti a tutti i ceti sociali. Consenso nella fase dell’ascesa al potere, e consenso coltivato e conquistato nel ventennio anche attraverso un apparato di propaganda e di manipolazione, unico nel suo genere su scala internazionale. Apparato che costituisce – per così dire – uno degli apporti originali del fascismo alla formazione della società e della politica contemporanea. Questo non intende smentire che nei momenti cruciali il regime abbia sempre scelto di schierarsi a sostegno degli interessi economici forti. Così nella costruzione di istituzioni corporative in larga misura “fasulle”, o nelle scelte di politica economica ed estera.
La pregiudiziale antifascista che è fondamento della Repubblica italiana pare contraddistinguere anche certa storiografia
La pregiudiziale antifascista, il “paradigma antifascista” – come spesso viene chiamato, ha rappresentato l’asse portante di una lunga e fertile stagione di studi sul fascismo, che dal 1945 (o anche prima) arriva perlomeno agli anni ’80 inoltrati. È questa linea interpretativa, pur articolata al suo interno, che ha condizionato la mia stessa formazione di storico e che io ho inteso mettere sotto il fuoco critico nel piccolo libro di cui stiamo parlando. È stata una stagione fruttuosa, che però soprattutto nell’analizzare la guerra e, dopo il settembre 1943, la nascita del movimento partigiano, ha finito per esaltare alcuni aspetti (la partecipazione popolare, il legame forte fra masse e partigiani), trascurandone altri. Ne cito solo due, che nel libro ho analizzato con particolare attenzione: la sottovalutazione del peso specifico della RSI, di una larga adesione di cittadini (uomini e donne) al suo seppure vago e irrealistico progetto politico, e la sopravvalutazione del peso popolare del movimento partigiano. In altre parole: da un lato la RSI non può essere semplicemente considerata (e sminuita) come un regime-fantoccio, nelle mani degli occupanti. Dall’altro, i partigiani erano pochi perché la loro scelta di campo era estremamente difficile, mentre ben più vasta era quella che De Felice ha chiamato “zona grigia”: la massa degli italiani, che non hanno scelto dove schierarsi, spesso perché oggettivamente non potevano, spesso perché non avevano gli strumenti culturali per scegliere (non dimentichiamo che da generazioni gli italiani erano cresciuti a latte e fascismo), spesso perché prevaleva la necessità della sopravvivenza in una difficile condizione di guerra e di occupazione.
Quale interpretazione diede del fascismo Renzo De Felice?
De Felice è stato importante, senza dubbio. Per primo ha messo al centro delle sue ricerche i documenti fascisti, le fonti dirette del regime. Per primo ha posto il problema del consenso, al quale la storiografia marxista, o antifascista, aveva cercato di sottrarsi. Il suo contributo è stato perciò importante e molte delle critiche nei suoi confronti sono state strumentali. Nè va dimenticato che nessuno dei suoi critici ha in fondo intrapreso la difficile strada di rispondere a De Felice con studi altrettanto ampi e articolati. Poi occorre anche dire che soprattutto nel periodo berlusconiano De Felice ha preso la strada di una rilettura spesso superficiale e grossolana del tardo fascismo. Da questo punto di vista la pubblicazione dell’ultimo volume della sua gigantesca biografia mussoliniana, dedicato al periodo 1943-1945, che lo storico non ha potuto terminare a causa della malattia e della morte, non ha giovato. Si tratta infatti di un’opera incompiuta, di un torso che inevitabilmente si presta a critiche. In effetti, l’ultimo De Felice ha fortemente interagito con la politica, con la stagione berlusconiana – come ricordavo sopra. E perciò le sue interpretazioni hanno finito per essere inevitabilmente grossolane e poco meditate. Un peccato, a mio parere, perché il contributo di De Felice alla storiografia sul fascismo deve essere considerato assai importante – nonostante i suoi limiti.
Quali sono gli esiti del dibattito storiografico di interpretazione del ventennio fascista in Italia?
Dopo questo complesso e articolato percorso storiografico, fortemente influenzato da motivi politico-ideologici, ritengo che oggi vi siano i segnali di una nuova stagione di studi, portata avanti soprattutto da ricercatori più giovani, molto attenti al dibattito storiografico internazionale (nei decenni precedenti questo era raro, essendo gli storici italiani concentrati soprattutto sulla propria ottica nazionale) e, per motivi generazionali, più distaccati da ideologie e prese di posizione partitiche, che quasi non esistono più, o che sono sempre meno influenti. Nelle ultime pagine del libro porto svariati esempi (ma molti altri si potrebbero aggiungere) di ricerche nuove e originali, che senza dubbio stanno ampliando e arricchendo le nostre conoscenze del fenomeno fascista. Per fare solo qualche esempio: gli studi dettagliati sui regime di occupazione (militare e civile) italiana durante la Seconda guerra mondiale, oppure studi biografici sul personale politico del regime, dai gerarchi ai livelli intermedi, o ricerche nella prospettiva della gender history. Infine, questo tipo di ricerche coinvolge sempre più più storici italiani e stranieri, in un dialogo che non può che essere particolarmente fruttuoso. Insomma, sono convinto che nel prossimo futuro la storiografia sul fascismo sarà più ricca, più articolata e più attenta a sfumature e ambiguità, di quanto non lo sia stata la lunga stagione storiografica postbellica, di una parte della quale io sono sono stato (piccolo) partecipe.