
Lo stigma sociale del suicidio e il tormento interiore per quanto non si è potuto evitare grava primariamente su coloro che restano: perché il suicidio di una persona cara viene vissuto «come una propria inefficienza»?
Una premessa essenziale è che il menefreghismo sarebbe molto peggio… La sfumatura di cui parliamo è a mio parere una cosa molto umana: legata all’affettività, alla responsabilità, l’indifferenza si addice più ad altri mammiferi, meno compromessi con l’amore, con ‘gli altri’ (sempre che una mucca non soffra per la perdita del suo vitellino…). A parte gli scherzi, la morte naturale di una persona cara, oltre al dolore, induce col tempo il fenomeno tutto umano della accettazione, che magari assume una sfumatura di malinconia, e poi di tenerezza alla memoria. È un abbandonarsi all’inevitabile. Purtroppo tutto questo, nel caso di suicidio, non sussiste: inevitabile è il fatto che il suicida non ritorna, ma non si riesce a credere al naturale. C’è poi la complicazione tutta post-illuminista del ‘senso di colpa’, un giogo di cui forse non ci si libera mai.
È veritiero l’assunto secondo il quale non parlare tanto di suicidio equivale a farlo mentre parlarne tanto a non farlo?
Mah, qui forse entra in campo più il gioco intellettuale, letterario, che una verità oggettiva, diciamo statistica. Sta di fatto che tanti di quelli che ne hanno scritto tanto, teorizzando, su tutti Cioran, si siano ben guardati dall’eseguire, o Schopenhauer, tipi così. Secondo me impressiona molto di più l’immaginario collettivo il suicidio a sorpresa, quello che nessuno si aspettava, quello di uno che non ne ha mai scritto o detto o fatto sospettare nulla…
I dati rivelano che «gli uomini si suicidano due o tre volte più delle donne, mentre le donne hanno un tasso di tentati suicidi due o tre volte superiore a quello degli uomini»: uomini e donne, con lo stesso atto, vogliono significare cose diverse?
Escludendo il grande capitolo dei suicidi rituali, credo che l’atto rimanga molto individuale, molto personale, molto legato a fattori contingenti che riguardano più l’individuo in sé, che la persona identificata sessualmente. Non vorrei scivolare nel luogo comune della donna più portata alla drammaturgia e dell’uomo più pragmatico. Piuttosto farei un inciso anche polemico, legato alla connotazione di sesso: è l’uomo che uccide lei e poi si suicida, mentre il contrario non avviene praticamente mai. Solo questo atto così odioso, che detesto, è connotato sessualmente, e ha un preciso significato di cui molto ha parlato Foucault (che, curiosamente, nel libro non c’è): la perdita del potere maschile. Se questi suicidi resuscitassero, verrebbe da ammazzarli una seconda volta (chiedo scusa).
La lista di personaggi celebri che si sono dati la morte è lunghissima e in continuo aggiornamento: Hemingway, Turing, Primo Levi, Pavese, Majakovskij, Monicelli, Robin Williams, etc. etc.. Cosa rivelano questi suicidi circa le motivazioni che spingono a procurarsi la morte?
Credo che per ciascuno si potrebbe individuare una motivazione personalizzata, e una sola motivazione non in causa: la celebrità. La celebrità non è illusiva né delusiva, lo sanno bene quelli che la provano, è nulla, transit, fallace, inutile. Ci si suicida solo per motivazioni più consistenti.
Certi suicidi rappresentano come il punto finale di un percorso interiore di ricerca, una «parte integrante» della loro opera: pensiamo a Philipp Mainländer o Carlo Michelstaedter. Il suicidio è forse «la più alta forma di ascesi»?
Nonostante ciò che ho detto in precedenza riguardo a Schopenhauer o Cioran, questo mi sembra un percorso più percorribile. Con ciò non voglio dire che il pensiero, che so, di Michelstaedter sia induttivo, cioè possa indurre a. O perlomeno che questo possa valere per chiunque legga Michelstaedter o, mettiamo, Otto Weininger, o in campo letterario un Mishima o un Drieu La Rochelle. Penso che il percorso interiore di ciascuno di questi autori possa giustificare una forma di rito estremo, un rito dedicato a nessun altro dio che se stesso. E in questo senso sì, penso che sia una ascesi. Riservata però alle personalità eccezionali e alle interiorità complesse, per fortuna non a noi, comuni mortali.
Esiste una forma di suicidio più sottile, quella di chi si uccide quotidianamente «anche senza morire», il cupio dissolvi che passa, ad esempio, per l’alcolismo: è un «suicidio già commesso»?
Qui mi piacerebbe rispondere con un bel, lapidario, ‘sì’. Ma è evidentemente necessario argomentare, e quel sì lapidario non può essere sempre vero. Il sì lapidario potrebbe valere per esempio per personalità estreme come Faulkner, o per deboli congeniti come William Holden. Ma credo che sia vero anche il contrario: tra i tossicodipendenti da oppiacei ben pochi, quasi nessuno, vuole morire, vogliono farsi e basta. E qui c’è una rinuncia alla personalità. Il cupio dissolvi non fa più parte di alcuna personalità. Ma il ‘suicidio in vita’ ha in sé il germe della sua soluzione possibile, perché è reversibile. E allora mi viene in mente l’immenso John Cheever (un altro che nel libro non c’è…), che tutta la vita ha combattuto con questo cupio dissolvi, alcolista, omosessuale nascosto, cristiano praticante, ha combattuto dunque, soffrendo come un cane, ma senza rinunciare, mai. Il suicida sottile invece potrebbe eseguire domani, oppure mai: sarebbe esattamente la stessa cosa.
Franco Foschi è pediatra e scrittore. Ha pubblicato oltre venti libri tra narrativa e saggistica. Per cinque anni ha condotto la rubrica televisiva “Leggere negli occhi”, intervistando diversi scrittori. Tra le sue ultime pubblicazioni, il romanzo Lassù all’inferno (2019).