
Quali tendenze è possibile identificare in relazione ad una disciplina giovane come la storia del cinema?
I primi lavori storiografici risalgono a un secolo fa e inaugurano quella che Michèle Lagny ha definito l’histoire-panthéon. È un adattamento del modello tradizionale offerto dalla storiografia dell’arte e della letteratura, e consiste nella selezione di autori, scuole e capolavori. Questo è stato l’orientamento dominante fino agli anni Settanta, quando, grazie all’affermazione degli studi sul cinema nelle università occidentali, si sono create le condizioni per lavori più innovativi e rigorosi. È iniziato il passaggio dalla storia dei film e degli autori alla storia del cinema come fenomeno culturale, sociale, economico e tecnologico fondato sempre più sulla ricerca d’archivio. Una tappa molto importante in questo processo è stato il convegno della FIAF (Fédération Internationale des Archives du Film), che si è tenuto a Brighton nel 1978, durante il quale sono stati proposti nuovi concetti per la pratica storiografica. Anzitutto, è stato contestato il presupposto secondo il quale il cinema fin dal principio fosse destinato al racconto, sottovalutando il suo legame con pratiche non narrative diffuse prima della sua invenzione, come la lanterna magica o il teatro di varietà. Questi cambi di paradigma – dal rifiuto della concezione teleologica della storia del cinema alla volontà di andare oltre il film – hanno segnato le tendenze storiografiche dei decenni seguenti fino a oggi.
Ma, come dicevo prima, nell’ultimo ventennio si è diffusa una più generale sensibilità storica negli studi cinematografici. E questo è l’esito di una reazione alla pratica dominante dalla loro istituzionalizzazione accademica agli anni Novanta, cioè l’analisi del film in chiave semiotica o semiologica. Il film veniva considerato come un testo autonomo, privato della sua storicità. Quest’ultimo aspetto è entrato in gioco nell’analisi filmica grazie alla spinta dovuta a una serie di eventi e tendenze che hanno segnato il dibattito culturale, sociale, politico, economico e tecnologico della fine del Novecento, come l’assimilazione del concetto antropologico di cultura e della sua relatività, la globalizzazione, le rivendicazioni di diritti da parte di gruppi emarginati e la “rivoluzione” digitale.
Qual è, in particolare, la situazione nel nostro Paese?
Questo cambiamento ha riguardato anche l’Italia: dagli anni intorno al 2000 i punti di riferimento teorico-metodologico sono stati sempre meno francesi e sempre più angloamericani, dove concetti come interdisciplinarità, ibridazione e postmoderno sono diventati le parole d’ordine per sintetizzare l’abbattimento delle frontiere fra cultura alta e bassa o popolare, fra i campi del sapere e fra i media. Questo stato di cose è evidente nel libro in questione. Basta dare un’occhiata alla sezione metodologica: storia culturale, cultural, gender, gay, lesbian e queer studies, cultura visuale e intermedialità. Le altre due sezioni testimoniano invece il crescente allargamento dello sguardo storiografico, che da un lato ha incluso fonti e temi nuovi e dall’altro ha riletto e interpretato in modo originale fonti e temi tradizionali. In Italia ha agito come propulsore lo straordinario lavoro di Gian Piero Brunetta che dagli anni Settanta a oggi – dalla monumentale Storia del cinema italiano all’altrettanto monumentale storia della Mostra del cinema di Venezia uscita recentemente – ha scandagliato il cinema italiano con l’obiettivo di farne una storia totale. Se infatti la svolta storica nel nostro paese è stata profondamente segnata dal dibattito internazionale, non hanno certo avuto un ruolo inferiore le lezioni di metodo dei nostri migliori storici.
Fabio Andreazza è professore ordinario di Storia del cinema all’Università di Chieti-Pescara. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano (2008), Canudo et le cinéma (2018) e l’edizione degli scritti di Ettore M. Margadonna Il cinema negli anni Trenta. Saggi, articoli, racconti (2013).