“Fare storia del cinema” a cura di Fabio Andreazza

Prof. Fabio Andreazza, Lei ha curato l’edizione del libro Fare storia del cinema. Metodi, oggetti, temi, pubblicato da Carocci: quale evoluzione ha caratterizzato, negli ultimi anni, gli studi sul cinema?
Fare storia del cinema, Fabio AndreazzaL’avvento del digitale ha comportato un mutamento ontologico dell’immagine filmica e una proliferazione di supporti per la fruizione del materiale audiovisivo, che hanno catalizzato l’interesse di un numero crescente di studiosi. Da un lato l’immagine è passata dalla riproduzione analogica di oggetti preesistenti attraverso un processo chimico-fisico alla loro riproduzione in pixel, corrispondenti a valori numerici assegnati da un computer, che possono essere facilmente modificati, rendendo l’immagine più inattendibile dal punto di vista referenziale. Dall’altro lato la moltiplicazione di dispositivi con cui vedere film ha reso ancora più marginale la sala, la cui centralità era progressivamente venuta meno decenni fa con l’ingresso nelle case della televisione. L’identità del cinema è diventata quindi un concetto sempre più problematico, che ha generato una crisi sul piano teorico. Questa crisi ha però permesso lo sviluppo di una maggiore disponibilità ad allargare lo sguardo sul paesaggio mediatico, non solo contemporaneo (i cosiddetti nuovi media), ma anche del passato, vale a dire tutto un insieme di strumenti ottici, acustici e audiovisivi oggi dimenticati, che si ponevano come alternative al cinématographe Lumière. Accanto a questo interesse tecnologico si è consolidata una tendenza già in atto, e cioè lo studio dell’esperienza cinematografica, che alcuni, penso a Raymond Bellour, ritengono che sia solo la condizione spettatoriale garantita dalla sala (oscurità e visione collettiva in un tempo prescritto), mentre altri, penso a Francesco Casetti, sostengono che si tratti di una condizione trasferibile, “rilocabile” in altri contesti mediali. Questo interesse sempre più diffuso per l’esperienza ha prodotto due effetti: da un lato ha rinnovato il dialogo degli studi sul cinema con la filosofia e ne ha avviato uno con le scienze cognitive, dall’altro ha rafforzato il rapporto della teoria con la storia, perché l’esperienza è situata nello spazio e nel tempo. Questo secondo effetto rientra in un fenomeno più ampio, vale a dire la diffusione sempre più pervasiva della sensibilità storica, tanto che non è esagerato parlare di “svolta storica” per gli ultimi venti anni.

Quali tendenze è possibile identificare in relazione ad una disciplina giovane come la storia del cinema?
I primi lavori storiografici risalgono a un secolo fa e inaugurano quella che Michèle Lagny ha definito l’histoire-panthéon. È un adattamento del modello tradizionale offerto dalla storiografia dell’arte e della letteratura, e consiste nella selezione di autori, scuole e capolavori. Questo è stato l’orientamento dominante fino agli anni Settanta, quando, grazie all’affermazione degli studi sul cinema nelle università occidentali, si sono create le condizioni per lavori più innovativi e rigorosi. È iniziato il passaggio dalla storia dei film e degli autori alla storia del cinema come fenomeno culturale, sociale, economico e tecnologico fondato sempre più sulla ricerca d’archivio. Una tappa molto importante in questo processo è stato il convegno della FIAF (Fédération Internationale des Archives du Film), che si è tenuto a Brighton nel 1978, durante il quale sono stati proposti nuovi concetti per la pratica storiografica. Anzitutto, è stato contestato il presupposto secondo il quale il cinema fin dal principio fosse destinato al racconto, sottovalutando il suo legame con pratiche non narrative diffuse prima della sua invenzione, come la lanterna magica o il teatro di varietà. Questi cambi di paradigma – dal rifiuto della concezione teleologica della storia del cinema alla volontà di andare oltre il film – hanno segnato le tendenze storiografiche dei decenni seguenti fino a oggi.

Ma, come dicevo prima, nell’ultimo ventennio si è diffusa una più generale sensibilità storica negli studi cinematografici. E questo è l’esito di una reazione alla pratica dominante dalla loro istituzionalizzazione accademica agli anni Novanta, cioè l’analisi del film in chiave semiotica o semiologica. Il film veniva considerato come un testo autonomo, privato della sua storicità. Quest’ultimo aspetto è entrato in gioco nell’analisi filmica grazie alla spinta dovuta a una serie di eventi e tendenze che hanno segnato il dibattito culturale, sociale, politico, economico e tecnologico della fine del Novecento, come l’assimilazione del concetto antropologico di cultura e della sua relatività, la globalizzazione, le rivendicazioni di diritti da parte di gruppi emarginati e la “rivoluzione” digitale.

Qual è, in particolare, la situazione nel nostro Paese?
Questo cambiamento ha riguardato anche l’Italia: dagli anni intorno al 2000 i punti di riferimento teorico-metodologico sono stati sempre meno francesi e sempre più angloamericani, dove concetti come interdisciplinarità, ibridazione e postmoderno sono diventati le parole d’ordine per sintetizzare l’abbattimento delle frontiere fra cultura alta e bassa o popolare, fra i campi del sapere e fra i media. Questo stato di cose è evidente nel libro in questione. Basta dare un’occhiata alla sezione metodologica: storia culturale, cultural, gender, gay, lesbian e queer studies, cultura visuale e intermedialità. Le altre due sezioni testimoniano invece il crescente allargamento dello sguardo storiografico, che da un lato ha incluso fonti e temi nuovi e dall’altro ha riletto e interpretato in modo originale fonti e temi tradizionali. In Italia ha agito come propulsore lo straordinario lavoro di Gian Piero Brunetta che dagli anni Settanta a oggi – dalla monumentale Storia del cinema italiano all’altrettanto monumentale storia della Mostra del cinema di Venezia uscita recentemente – ha scandagliato il cinema italiano con l’obiettivo di farne una storia totale. Se infatti la svolta storica nel nostro paese è stata profondamente segnata dal dibattito internazionale, non hanno certo avuto un ruolo inferiore le lezioni di metodo dei nostri migliori storici.

Fabio Andreazza è professore ordinario di Storia del cinema all’Università di Chieti-Pescara. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano (2008), Canudo et le cinéma (2018) e l’edizione degli scritti di Ettore M. Margadonna Il cinema negli anni Trenta. Saggi, articoli, racconti (2013).

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