
Come vanno ripensati i tratti caratterizzanti della filosofia alla luce dei cambiamenti che negli ultimi due secoli hanno radicalmente trasformato il contesto scientifico-culturale?
Le lontane premesse dei cambiamenti ai quali la domanda fa riferimento risalgono per lo meno allo sviluppo della scienza moderna. Prima di allora le sole branche del sapere che non appartenevano alla filosofia erano le matematiche, l’astronomia e la medicina. Con la rivoluzione galileiano-newtoniana avviene, invece, che una branca della filosofia – la philosophia naturalis – si stacca di fatto dalla ‘scienza’ madre di cui faceva parte, come mostra il titolo stesso della grande opera di Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica. La philosophia naturalis diviene la fisica odierna ed è seguita, in questo processo di distacco dalla comune matrice filosofica, da tutte le altre discipline scientifiche che oggi conosciamo, dalla chimica alla biologia, dalla cosmologia all’informatica. Da allora – come si è detto – la filosofia è venuta sempre più assomigliando a un grande impero che ha perso progressivamente le sue province. Negli ultimi due secoli le cose si sono poi ulteriormente aggravate perché le scienze, ormai del tutto autonome, sono giunte a risultati che hanno inciso profondamente anche sugli specifici problemi rimasti fino ad allora appannaggio della ricerca filosofica; e ciò in un duplice senso. Anzitutto, esse si sono fatto carico di tali problemi, dando per esempio risposte scientifiche a quesiti sulla natura dello spazio e del tempo, oppure sulla causalità e il determinismo (si pensi alla fisica relativista e alla meccanica quantistica), oppure ancora sull’uomo e la sua vita ‘spirituale’ (si pensi all’evoluzionismo e alla teoria psicanalitica). In secondo luogo, alcune teorie filosofiche fondamentali sono risultate non più sostenibili, quantomeno nella loro forma originaria, rispetto agli sviluppi delle scienze. È quanto è avvenuto, per esempio, nel caso della teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori. Ciò ha comportato, nell’indagine filosofica, un netto spostamento di accento. Rispetto al filone di ricerca metafisico tradizionale – che alcuni filosofi hanno con svariati argomenti ridefinito (per esempio, Kant) o rifiutato (per esempio, i neopositivisti) – ha preso forza sempre maggiore, fin dalla rivoluzione copernicana di kantiana memoria, la tendenza a vedere il campo più proprio dell’indagine filosofica nell’altro filone di ricerca, ossia in quello che riguarda gli aspetti strutturali del nostro sistema di riferimento concettuale. Come ho detto rispondendo al primo quesito, questo secondo genere di indagine ha sempre convissuto con la ricerca di tipo metafisico, ma ciò che si è modificato sono i rapporti fra i rispettivi pesi che le due indagini hanno assunto e che oggi trovano forse un piano di equilibrio nei tentativi di gettare un ponte fra esse per la sempre più chiara consapevolezza della loro interconnessione (non della loro confusione, come qualcuno vorrebbe far credere). E questo soprattutto per merito della filosofia di indirizzo analitico che secondo alcuni oggi rappresenta l’unico modo di fare filosofia – una tesi che io non condivido, pur riconoscendo la grande importanza di tale movimento di pensiero.
Come si sviluppa la riflessione metafilosofica contemporanea?
Quanto ho appena detto rispondendo alla domanda precedente consente di impostare la risposta a questo nuovo quesito. Per ‘metafilosofia’ o ‘filosofia della filosofia’ si intende quella particolare specialità filosofica che si interroga sulla natura della filosofia, sui suoi compiti, sui suoi metodi, sulle sue possibilità. Alcuni non amano usare questa denominazione perché vedono nel prefisso ‘meta’ il pericolo di innalzare la metafilosofia al di sopra della filosofia, come se la prima rappresentasse un’istanza superiore cui la seconda deve rendere conto. Io non sono di questo parere, perché mi pare che una caratteristica generale delle specializzazioni filosofiche contenenti il prefisso ‘meta’, per esempio la metaetica o la metaontologia, sia quella di svolgersi in una costante interazione con i risultati delle discipline oggetto di indagine. Per esempio, se passiamo dal piano della morale a quello della filosofia della morale o metamorale o metaetica, abbandoniamo il terreno di una teoria normativa che indichi quali azioni vanno considerate moralmente buone per portarci su quello di un’indagine sul concetto di buono nella sua generalità e astrazione. Ma è difficile tenere separati questi due piani tranne che per ragioni di tipo per così dire metodologico. Infatti, sarà difficile arrivare a una caratterizzazione della nozione di bene che non abbia implicazioni, o quanto meno connessioni, con l’etica normativa, e d’altro canto sarà difficile specificare quali sono i comportamenti da seguire per agire in modo buono senza che ciò abbia ricadute su quello che si dovrebbe considerare come buono. Un caso che da questo punto di vista si presenta come particolarmente ‘intrigante’ (mi si passi l’espressione) riguarda la nozione di ‘verità’; ma qui non posso soffermarmici. E la medesima cosa vale per la nozione di filosofia: è difficile che si possa definirla prescindendo da quelle forme di indagine che nella storia si sono presentate come filosofiche e come tali sono state riconosciute, o prescindendo da come sotto i nostri occhi si viene praticando la filosofia. Io vedo quindi una forte interconnessione tra come caratterizziamo esplicitamente o implicitamente ciò che va considerato filosofia (piano metafilosofico) e quello che facciamo filosofando.
Come può la filosofia odierna affrontare le sfide della professionalizzazione e dello specialismo?
Questa naturalmente è la domanda più spinosa. Ma siccome ho scritto un libro di metafilosofia proprio per rispondere ad essa, spero mi si perdoni se sarò particolarmente conciso rimandando alla lettura del volume. Il problema di fondo è che – come diceva Platone – solo “chi è capace di una visione generale”, ossia di visioni per certi versi analoghe a quelle religiose o mitologiche, “è dialettico [ossia filosofo], e chi non lo è no”. E allora, perché la questione è così spinosa? Per due ragioni che hanno entrambe a che fare con la crescente e inarrestabile (almeno così pare) specializzazione e professionalizzazione del mondo del sapere e della tecnologia. La prima è che i saperi extra-filosofici, che talvolta si sono sviluppati, come ho accennato, proprio dal grembo della filosofia per sua natura generalissima, si sono sempre più specializzati e parcellizzati moltiplicandosi, anche se non mancano discipline, quali per esempio la fisica, che cercano di dare risposte ‘globali’ e sembra ci riescano. Come pensano alcuni fisici (e qualcuno lo ha pure detto), ormai nel campo del sapere esiste la fisica, e tutto il resto è collezione di francobolli. La seconda ragione è che la stessa indagine filosofica non si è sottratta al comune destino ed è andata essa pure sempre più specializzandosi al proprio interno. Oggi accanto alle branche tradizionali, come la gnoseologia (o filosofia della conoscenza), l’ontologia, la metafisica, l’etica, l’estetica, esistono anche la filosofia della scienza, la filosofia del linguaggio, la filosofia dell’informazione ecc., come pure la storia della filosofia nelle sue molteplici sottodeterminazioni. Tra queste specializzazioni una delle ultime nate è proprio la metafilosofia. In verità, se guardiamo al passato è facile costatare che un po’ di metafilosofia i filosofi l’hanno fatta sempre; la faceva Aristotele, per esempio, quando diceva che in questioni controverse occorreva dare un peso alle opinioni dei maggiori filosofi della tradizione. E soprattutto ogni grande sistema filosofico ha finito per avere implicazioni metafilosofiche. Pensiamo a Kant allorché sostiene che, a differenza della matematica, la quale è una conoscenza basata “sulla costruzione dei concetti”, la filosofia “è la conoscenza razionale basata su concetti”, oppure, in modo ancora più pregnante a Hegel, quando afferma che la filosofia è la nottola di Minerva che prende il volo sul far della notte, ovvero che essa è il proprio tempo appreso con il pensiero. Solo recentemente, però, soprattutto per il tipo di lavoro in cui si è cimentata la filosofia analitica, alla metafilosofia si è riconosciuto lo statuto di una disciplina autonoma e particolare. E così si è compiuto l’apparente paradosso di una disciplina, la filosofia, che per vocazione dovrebbe essere capace – come dice Platone – di uno sguardo totalizzante, e che però non può essere, a sua volta, che uno specialismo contenente al suo interno una miriade di specialismi. La situazione per i filosofi non è dunque delle più rassicuranti per quanto riguarda la sopravvivenza del proprio mestiere. I filosofi analitici sembrano sottovalutare questo pericolo e anzi vanno fieri del loro ruolo di specialisti che pure li espone a non pochi rischi dal punto di vista dell’effettiva incidenza di un lavoro troppo parcellizzato. Per esempio, pare difficile trattare temi come il valore conoscitivo delle teorie scientifiche muovendosi esclusivamente sul terreno della filosofia della scienza e ignorando quello che lo gnoseologo ha da dire sul problema della conoscenza nella sua generalità. Temo così che molte riviste di filosofia appaiano oggi come palestre istituzionalizzate per l’esercizio di un brain storming corale e spesso fine a se stesso. Non è facile indicare le vie per fronteggiare una situazione così sconfortante; e credo che non si possano dare ricette buone per tutti gli usi, sebbene forse qualcosa si possa fare. Penso, per esempio, che un aiuto potrebbe venire da un interscambio tra la filosofia e una storia della filosofia volta a una ricostruzione teorico-sistematica oltre che contestualizzante delle concezioni del passato. Tuttavia, come spiego nel libro, anche restando su un piano integralmente teorico, si sono già dati alcuni casi in cui, attraverso un lavoro collettivo che non ha rinunciato ai vantaggi dello specialismo perché svolto da specialisti di tutto rispetto, si è riusciti a mantenere un nesso, grazie ad articolate intermediazioni, fra la trattazione di questioni specifiche che esigevano notevoli competenze professionali e tesi generali e/o generalissime trattate da specialisti di pari professionalità. Il punto, insomma, è quello di una buona divisione del lavoro che arrivi a rendere la specializzazione e la professionalizzazione punti di forza per superare le limitazioni legate a queste stesse specializzazione e professionalizzazione.