
Il Suo libro ha due precise sponde: dal punto di vista tematico, la letteratura fantastica, e dal punto di vista cronologico, il Novecento.
Questo studio parte da una domanda: perché un libro dedicato all’onomastica della letteratura fantastica? Le risposte sono molteplici: innanzitutto pochi, se non sporadici, sono gli studi attorno al rapporto tra onomastica e tematiche fantastiche: le indagini sono generalmente rivolte a singoli autori e non al sistema nel suo complesso; il fatto che le ricerche onomastiche in campo letterario in questi ultimi tempi abbiano attratto l’attenzione della critica ha incoraggiato l’avvio di questo studio. Secondariamente, nel Novecento si assiste alla fioritura in Italia e non solo di una narrativa che definiamo fantastica in mancanza di un termine migliore e la particolare prospettiva che le scienze onomastiche veicolano consente una lettura originale di questo modo letterario. Ed è anche grazie alla nominatio che siamo in grado di capire lo stacco tra fantastico tradizionale e fantastico contemporaneo: non più nomi evocativi di mondi lontani e inaccessibili, ma nomi della quotidianità, apparentemente rassicuranti, che stabiliscono un rapporto diretto tra reale e mondo autre. Da qui la necessità di una riflessione attorno ai nomi per cercare un contatto con questo mondo. Obiettivo di questo studio è infatti proprio quello di offrire una classificazione dell’onomastica nella letteratura fantastica novecentesca.
Sia ben chiaro, però, che nomi fortemente allusivi continuano a proporsi nel Novecento: ci sono nomi che denotano potere e autorità, come Sisto Tarra (Dino Buzzati, Quando l’ombra scende) la cui tracotanza è accentuata dall’occlusiva dentale iniziale e dalla r geminata presenti nel cognome; nomi trasparenti che garantiscono la comprensione del meccanismo di relazione tra il nome e il referente a cui fa riferimento la sua origine, come il middle name e il cognome della sirena del racconto di Wells The Sea Lady (il nome completo della creatura è Doris Thalassia Waters); ci sono poi i deonomastici, nomi propri che vengono cooptati nel lessico comune e che si fanno simbolo di un certo comportamento: affibbiare oggi a una persona il titolo di Dr. Jekyll o di Frankenstein significa nel primo caso attribuirgli una doppia personalità e nel secondo caratteristiche mostruose; ci sono poi i nomi-destino, come quello di Sirena, la fanciulla raccontata da Alfredo Cesareo, che si crede davvero una sirena e la sera va in riva al mare a cantare, sperando che qualche nave si fermi. Qui il nome diventa addirittura omonimico del destino… E poi c’è la polinomia che si esplicita quando ci si accosta al tema del doppio.
Quale funzione riveste il nome nel topos del doppio?
Il nome nel topos del doppio chiede una prassi particolare e non condivisibile con altri temi. Gli autori di racconti che hanno come protagonisti personaggi sdoppiati mettono in atto strategie onomastiche del tutto originali: con alta frequenza i doppi si presentano identici nel fisico e nel nome, ma spesso assistiamo a mutamenti onomastici tra originale e avatar che avvengono secondo modificazioni classificabili come addizione (la copia si distingue dall’originale per l’aggiunta di un elemento numerico), sostituzione (al nome vengono aggiunte parti del discorso che connotano la differenza tra le parti), trasformazione (la copia si distacca dall’originale tramite nome diverso). Sdoppiamenti, scissioni, trasformazioni della persona mettono in crisi l’idea unitaria dell’io; tale lacerazione causata da una parte del corpo che prende autonomia si ripercuote anche nella diversa nominazione che dà vita a una isotopia allucinatoria e angosciante. Gli incontri con visconti dimezzati (pensiamo a Calvino), macchine che duplicano gli esseri umani e i loro nomi (Primo Levi dedica diversi racconti delle sue Storie naturali a duplicazioni) propongono una congerie di nominazioni simili ma non uguali all’originale e la plurinominazione risultante dà vita a situazioni grottesche e angoscianti di fronte alle quali si resta smarriti e disorientati. I casi che ho preso in considerazione non trattano semplicemente di sdoppiamento, ma di vere e proprie lacerazioni, di dissociazioni dell’io causate da una parte del corpo che prende autonomia. L’immaginario letterario della modernità offre un vastissimo campionario di sdoppiamenti, sosia, figure intente a problematizzare l’unità psichica dell’individuo (con la scoperta della possibilità di clonazione il tema è di dirompente attualità). Esistono infine doppi nel tempo (l’io incontra se stesso bambino e l’incontro ha lo scopo di far riflettere sulle scelte compiute da adulti) e doppi nello spazio (l’io incontra se stesso contemporaneamente in luoghi diversi).
Quali caratteristiche presentano i fantasmi letterari novecenteschi?
La letteratura del Novecento è affollata di fantasmi, ma, diversamente dall’Ottocento, nel secolo da poco concluso queste presenze appaiono sotto una prospettiva fortemente disorientante, in un’atmosfera a metà strada tra nostalgia e angoscia in cui le descrizioni realistiche contrastano con la situazione irreale e l’abilità nel ritrarre con precisione ambienti e persone si scontra spesso con l’assurdità della situazione, lasciando volutamente smarrito il lettore. Per essere preso in considerazione dal mondo contemporaneo, il topos, come il fantastico tout court, non aspira a un uso emozionale dei suoi elementi, ma a una meditazione attorno agli incubi e alle tensioni dell’uomo moderno. Insomma, i fantasmi non sono più entità che scuotono pesanti catene, che emettono sibili e soffi, che ululano e si muovono indossando lenzuola bianche! I fantasmi nel XX secolo sono incarnazioni di trapassati che ritornano sulla terra per nostalgia o per informare, non sono evanescenti, sono solo meno sostanziosi e hanno perso l’aspetto orrifico e angosciante del secolo precedente. La nominatio ectoplasmatica nel Novecento si articola essenzialmente secondo due modalità: da un lato il fantasma è privo di nome (la difficoltà di dare una spiegazione a ciò che non può essere razionalmente spiegato si traduce spesso nell’impossibilità di dare un nome a un’entità con la quale si è incapaci di relazionarsi o con la quale non ci si vuole relazionare); dall’altro l’ectoplasma mantiene il nome posseduto in vita. In questo secondo caso, le cui occorrenze sono decisamente più numerose, si registrano a sua volta due tendenze: per indicare maggiore intimità, l’entità viene presentata col solo nome (si pensi ad esempio a Tadeus e Isabel, i fantasmi del racconto Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa e del romanzo Requiem di Tabucchi, a Gea, protagonista fantasmatica del libro di Carlo Fruttero Ti trovo un po’ pallida, a Melinda, Zelda, Necton ecc. del romanzo Spiriti di Benni) o con le generalità al completo (il nome è accompagnato dal cognome, si pensi a Anna Wheil raccontata da Pirandello in Visita o a Morten De Coninck di Karen Blixen, The supper at Elsinore) e, in diversi casi, anche dalla professione svolta in vita (il violinista Toni Appacher (Gli amici) o il pittore Ardente Prestinari (Battaglia notturna alla Biennale di Venezia) di Buzzati, lo scrittore Ashton Doyne di The Real Right Thing di Henry James).
Sempre nel Suo libro, Lei tratta di un altro topos letterario, quello dello “scienziato pazzo”: come si sviluppa e quali considerazioni di ordine onomastico è possibile ricavarne?
La figura dello scienziato pazzo e amorale alla ricerca spasmodica di scoprire i segreti che regolano l’esistenza umana e a sovvertirne le leggi interviene in opere celeberrime dell’Ottocento, basti ricordare Frankenstein di Mary Shelley considerato l’archetipo di tutti gli scienziati pazzi. Preparati chimici e creature mostruose nate in laboratorio sono gli apparati ottocenteschi che predispongono il terreno ai “mali oscuri” del Novecento: il mostro di fine secolo costituisce infatti una via d’accesso all’esplorazione di nuovi percorsi. Nel Novecento le scoperte scientifiche e tecnologiche hanno fornito nuova linfa vitale alla letteratura e con frequenza nella produzione di diversi scrittori scienza e tecnologia sono usate come punto di partenza per riflettere sulla responsabilità degli uomini di scienza. Occupandosi di scienziati pazzi dal punto di vista onomastico si nota ancora una volta che ci si trova di fronte a nomi ampiamente diffusi nella vita di tutti i giorni e quindi non parlanti (ad esempio Giacomo Rappaccini del racconto di Nathaniel Hawthorne Rappaccini’s daughter); spesso, poi, il nome proprio manca e dello scienziato si conosce solo il suo patronimico (si veda Lo specifico del dottor Menghi di Italo Svevo o i tanti racconti di Primo Levi dedicati al topos). Questa apparente genericità si spiega col fatto che gli scrittori che si occupano di questo argomento vogliono avvertire che qualsiasi uomo di scienza può oltrepassare la soglia tra ricerca scientifica e curiosità amorale se dimentica di stabilire limiti e norme in seno alla ricerca stessa. Dalla penna degli scrittori escono anche scienziati che portano il nome di uomini di scienza realmente esistiti che con i loro studi e le loro invenzioni hanno cambiato il corso dell’umanità (ad esempio, lo scienziato del racconto di Villiers de l’Isle Adam, Eve future, si chiama Thomas Edison). In altri racconti il nome ha dirette connessioni con l’attività dello scienziato (Doctor Jekyll, nome omen, ucciderà se stesso; il fisico Griffin (H.G. Wells, The invisible man) sarà rapace come l’uccello di cui porta il nome…). E cosa dire delle creazioni di questi scienziati pazzi? In alcuni casi si tratta di soggetti interni al proprio creatore (come nel caso di Mr Hyde) in altri di soggetti esterni al loro creatore (come nel caso dell’uomo-cane Pallinov di Bulgakov, Cuore di cane). L’epilogo è uguale per tutti gli scritti: le invenzioni, che tanto tempo e tanto sforzo hanno chiesto ai loro scopritori, scompariranno insieme ai loro geniali e mefistofelici creatori.