
Naturalmente il vincolo in common law esiste solo se i fatti del nuovo episodio corrispondono in modo molto preciso a quelli precedenti, se quindi il nuovo caso è “on all fours” rispetto a quello deciso in precedenza. Questo consente all’inventività degli avvocati di trovare sottili distinzioni (“distinguishing”) che sottraggono uno specifico caso dal controllo della precedente sentenza.
La regola non si applica strettamente al giudice di vertice, alla Supreme Court of the UK (già House of Lords): i giudici supremi possono distaccarsi – dal 1966 – da un precedente “when it appears right to do so” (una formula alquanto flessibile che lascia perplesso l’osservatore di diritto romano-germanico). Negli Stati Uniti i giudici possono sempre invocare nuove letture della Costituzione del 1787 la quale prevale su tutte le fonti, ivi compresa la giurisprudenza pur autorevole delle corti. Una nuova interpretazione di un precetto costituzionale giustifica il superamento di antiquati precedenti.
Gli studiosi segnalano che i precedenti sono più longevi e resistono meglio al mutamento sociale nel Regno Unito piuttosto che negli USA: la compresenza di un sistema di corti federali e statali addestra il giudice degli Stati Uniti a vedere dissonanze nella giurisprudenza e a non scandalizzarsi se una decisione molto autorevole viene successivamente scavalcata (overruled). Inoltre 50 Stati con altrettante giurisdizioni sono meno accentrati di un sistema in cui tutte le corti importanti sono concentrate in un’unica città (Londra). Il peso dell’opinione degli accademici è maggiore negli USA, fin dall’origine del sistema educativo, quindi suggerimenti energici della dottrina possono indurre a cambiamenti interpretativi più frequenti che nel Regno Unito (dove tradizionalmente il diritto si imparava in modo empirico, frequentando avvocati già affermati, piuttosto che frequentando corsi universitari).
Quali sono le principali difficoltà che il lettore di formazione romano-germanica incontra nel decifrare le decisioni dei giudici di common law?
Le difficoltà sono di diversa natura: in particolare è difficile apprezzare in modo chiaro quale sia lo spazio che compete alla giuria (giudice del fatto) rispetto al ruolo del giudice togato (arbitro della correttezza delle mosse degli avversari). Le pallide parvenze di giuria nel processo penale sul continente europeo non sono in grado di addestrare il giurista di civil law a valutare le conseguenze della scansione netta tra fatto e diritto che deriva dal passato.
Anche il carattere accusatorio del processo è difficile da comprendere pienamente: la tradizione di diritto romano-canonico ha lasciato la propensione a immaginare il processo come volto alla giustizia, all’affermare la verità. I common lawyers, sapendo che sono i litiganti stessi (tramite gli avvocati) a gestire la lite, a procurare le prove, a scegliere gli aspetti sui quali incentrare la sfida legale, hanno un atteggiamento più pragmatico: il processo pone fine alla lite secondo quanto è stato possibile stabilire, entro il tempo concesso, con le risorse disponibili. Non è detto quindi che il responso sia il migliore in assoluto, ma quello che è stato realisticamente possibile emettere entro le costrizioni esistenti.
Un giurista inglese ha sintetizzato l’atteggiamento verso il processo in questi espliciti termini: “1) evidence is … presented largely by interested persons … not impartial … interested not so much with establishing the whole truth as with winning his case”; “2) a conclusion has to be reached one way or another even though the evidence may be inadequate”; “3) It has to be reached quickly”. Il risultato finale per un osservatore profano, di fronte all’accertamento giudiziale, è di assistere ad una ricerca storica condotta “by untrained investigators required to act upon non-expert sources of information presented by biased protagonists, these untrained investigators being required to reach a decision which will be final and binding, to do so regardless of the adequacy of the evidence and to do so quickly”: CARTER, Cases and Statutes in Evidence, Londra, 1981, p. 4.
Ovviamente questa diagnosi deve essere letta nel contesto del gusto inglese per il paradosso.
Sul versante stilistico la struttura del processo si riflette nel fatto che il discorso assume un carattere dialogico, di conversazione tra il giudice e gli avvocati o addirittura con le parti stesse, con riferimenti all’attualità, battute di spirito, immagini metaforiche per rendere comprensibile una situazione complicata, uso dell’ironia per ridurre l’arroganza di un difensore o rendere meno tagliente un’osservazione su una carenza o un’omissione. Anche il ricorso piuttosto frequente alla letteratura, non necessariamente a quella elevata e classica, ma anche ai romanzi più “popolari” come Alice nel Paese delle meraviglie o I viaggi di Gulliver (l’equivalente forse di un De Amicis italiano) è conseguenza della necessità di coinvolgere il lettore, con riferimenti familiari, facendo apprezzare il ragionamento seguito dal giudice. Il rinvio a luoghi comuni rende la motivazione meno ostica.
Da dove deriva la terminologia in uso nelle sentenze di common law?
I cancellieri che assistevano già in epoca medievale la corte del Re d’Inghilterra erano di formazione ecclesiastica: solo i religiosi sapevano leggere, e persino scrivere. Il latino in cui redigevano le relazioni dei casi svolti inquadrava nella lingua colta usata anche sul continente europeo i rimedi e le formule impiegate nelle liti. Talvolta alternando espressioni germaniche o scandinave (magari legate a consuetudini) che venivano latinizzate. Talvolta creando neologismi, o attingendo alla lingua franco-normanna dell’élite. Il lettore che esplora decisioni di common law si trova quindi nella scomoda posizione di notare parole che sembrano familiari perché evocano il latino o il francese, parole tuttavia che hanno assunto significati autonomi perché inserite nel sistema del processo delle corti regie, un sistema di azioni tipizzate, di rimedi inventati in modo indipendente da quanto avveniva nelle corti di tradizione canonistica.
Come già era avvenuto con il latino del Corpus iuris civilis di Giustiniano, mal digerito o mal ricopiato dagli amanuensi anche in Italia, così il franco-normanno subì storpiature, alterazioni, slittamenti di consonanti che hanno reso talvolta irriconoscibili parole francesi.
Un caso plateale è il celebre “voir dire”: a prima vista sembra indicare “vedere dire”, ma sembra derivato da “vrai dire”, cioè dall’impegno del giurato di rispondere in modo onesto, sincero. Il significato tecnico è il procedimento di selezione dei giurati che vengono sottoposti ad una selezione, una scrematura per identificare pregiudizi, preconcetti, parzialità.
La formazione empirica degli avvocati, tramite la frequenza delle aule e la copiatura degli atti processuali, formò una casta di professionisti piuttosto chiusa e fortemente legata alla terminologia entrata in uso nelle corti: progressivamente sempre più lontana dalla comprensione delle persone comuni che non parlavano più francese, né mai avevano davvero parlato latino. Non esisteva da parte del ceto giuridico volontà di aggiornare un lessico iniziatico e comunque il rischio di confusione se si fosse modificato il linguaggio non sembrava appetibile. In un sistema precedenziale, ogni cambiamento è visto con diffidenza.
Solo in anni recenti il legislatore nel Regno Unito ha aggiornato in parte la terminologia, riducendo i latinismi, scegliendo parole che sembrano più trasparenti. Restano comunque molti termini tecnici che sarebbe difficile soppiantare, proprio per la confusione che si creerebbe e la difficoltà, ad esempio, di ritrovare precedenti legati ad un rimedio da secoli indicato con un determinato termine.
Nelle sentenze di common law viene fatto largo uso di battute di spirito, frasi idiomatiche, citazioni letterarie e metafore: in che modo lo stile delle sentenze contribuisce alla loro difficoltà interpretativa?
Nella mia esperienza nell’insegnamento del common law a studenti italiani (o non anglofoni) una delle difficoltà maggiori consiste nell’identificare frasi ironiche o frasi scherzosamente autodenigratorie, con cui il giudice si schermisce evitando di assumere un tono eccessivamente sentenzioso. Si tratta di una sottigliezza linguistica che sovente lascia interdetto il lettore: perché un giudice dovrebbe sminuirsi, riferirsi a se stesso con un tono di finta modestia, concludere con un paradosso o con una frase di “dry humour”?
In qualche caso gli studenti sono anche sorpresi che il giudice faccia trapelare il proprio disprezzo o la propria disapprovazione verso una delle parti. Addirittura qualche studente immagina che ciò sia illegittimo, che comprometta il giudizio, che sia argomento di appello ad una corte superiore.
In molti casi lo stile colloquiale, lo scambio di battute comporta l’uso di espressioni idiomatiche: queste sono sempre una sfida per lo straniero. Il medesimo concetto è espresso in modo diverso nelle diverse culture che possono rendere in modo figurato una constatazione comune della vita ricorrendo a immagini diverse. Ad esempio, quando un progetto è effimero, perde facilmente il proprio abbrivio iniziale, in Italia si parla di “un fuoco di paglia”. Non è detto che gli altri usino la stessa immagine (in effetti in francese si parla di “faire long feu”). Un esempio di frase ambigua è: “to deal at arm’s length”. Letteralmente indica il tenere le distanze, agire con una distanza di sicurezza, ma nel linguaggio del diritto contrattuale significa condurre le trattative in condizioni ordinarie, senza preferenze per un contraente, su presupposti comuni e non speciali.
Talvolta il lettore non è in grado di capire se si trovi davanti ad una frase fatta, o ad una metafora specifica inventata dallo scrittore per quella particolare situazione.
Il rituale e l’etichetta delle relazioni professionali sfociano in espressioni come “I have had the privilege of reading my Learned Brother Lord …’s opinion”. Il significato effettivo è semplicemente che l’estensore della motivazione ha avuto modo di leggere il testo scritto di un altro membro del collegio giudicante. Altre espressioni formali oliano i meccanismi di comunicazione con gli avvocati delle parti, con i giudici di primo livello, con i supremi giudici della corte di vertice.
Le citazioni letterarie costituiscono a loro volta una difficoltà perché il cenno ammiccante ad un dato noto a tutti è sprecato con lo straniero: quello che è ovvio per un anglofono, non lo è per un francofono ecc. Le implicazioni del rinvio non sono evidenti. Le commedie di Sheridan non sono sempre così familiari per noi come quelle di Goldoni: quindi si tratta occasionalmente di cercare di capire chi è quel particolare personaggio (Mrs. Malaprop) evocato ad es. da Lord Hoffmann per spiegare che anche un linguaggio pretenzioso e assurdamente sfocato può essere comprensibile in base al contesto in cui le parole vengono inserite.
Una difficoltà che ho spesso osservato riguarda la lingua inglese in generale, più che la lingua giuridica in particolare. Le lingue germaniche usano talvolta i sostantivi come aggettivi: capita quindi di trovare una serie di sostantivi, senza preposizioni intermedie, in cui alcuni sostantivi servono a qualificare quelli successivi. Svolgere queste “frasi nominali” (nominal chains) è difficile come nel caso di “class action equal protection suit”. Il diritto usa sovente queste espressioni in cui il lettore non sa bene quale preposizione sia sottintesa (a suit in class action form for equal protection).
Nel libro Lei utilizza estratti da sentenze inglesi o statunitensi per illustrare alcune delle difficoltà: può farcene degli esempi?
Ecco qualche esempio.
1. Un giudice chiude la propria complessa argomentazione tecnica dicendo “I hope I have not said anything original”. Il lettore è spiazzato: perché il giudice dovrebbe preoccuparsi se le sue parole suonano non comuni, fuori dal coro? Che cosa si nasconde sotto questo ammiccamento rivolto al pubblico?
2. Un testo normativo è di difficile decifrazione. Il giudice dichiara che alla prima lettura la norma è sembrata oscura. La lunga discussione sapiente che si è svolta davanti a lui non ha cancellato questa impressione. Anzi, alla fine del dibattito, nonostante tutta l’arguzia degli avvocati e la loro inventiva, la norma si rivela -proprio perciò – ancora più indecifrabile. Perché non limitarsi a dire che la legislazione è soggetta a interpretazioni diverse, senza coinvolgere gli avvocati che vengono blandamente presi in giro? A che cosa serve l’ironia, il tono leggermente canzonatorio?
3. Un corte USA discute se l’espressione “to use a firearm” includa o meno il barattare un revolver contro una certa quantità di droga. La corte, a maggioranza, conclude che le parole esatte usate dal legislatore includono anche un impiego così anomalo della pistola: condannano l’imputato ad una detenzione molto più lunga per l’aggravante che uno strumento a fuoco sia stato presente sulla scena dell’acquisto di droga. Gli studenti sono sovente sconcertati, sorpresi che una lettura così letterale di una norma penale non sia controbilanciata dal principio del favor rei, dal fatto che non si consideri la sproporzione delle conseguenze in funzione dello scopo che la norma si pone. La corte ritiene che la frase non sia ambigua e non giustifichi il ricorso a un criterio residuale come la “rule of liniency”.
4. Un avvocato per molto tempo si è occupato di diritto tributario, poi si è dato – anche come attore protagonista – al cinema pornografico e alla frequentazione di attrici, momentaneamente promosse a “fidanzate”, cui ha regalato oggetti e addirittura il godimento di un appartamento. Un ripensamento della propria generosità lo induce a contraddire la volontà di fare “dono” dei benefici e a cercare di revocarli. Il giudice descrive l’attore in giudizio con sarcasmo: ad esempio dicendo che la professione di tributarista per alcuni sarebbe stata abbastanza eccitante, ma non per l’interessato che ha cercato occupazioni più stimolanti.
5. Un fantino tradisce la propria scuderia e all’ultimo momento accetta di cambiare cavallo: viene richiesto un provvedimento d’urgenza che gli impedisca di partecipare alla competizione, il celebre Derby. Il giudice dichiara apertamente di non provare alcuna comprensione (“simpathy”) per il traditore, che il convenuto si è messo da solo nella scomoda situazione che è stata provocata dal suo mero egoismo. Il disprezzo del giudice è palpabile.
Il volume contiene anche un dizionario dei “primi sospetti” che mette in evidenza i “falsi amici”, i termini ricorrenti nel linguaggio di common law che possono trarre in inganno il lettore per l’assonanza con espressioni di civil law di tutt’altro significato: quali sono i più diffusi e comuni?
Statute: tradotto come statuto, mentre indica un atto legislativo (non quindi una costituzione o l’atto fondativo di una persona giuridica)
Counsel: tradotto come “consiglio” (pensando forse ad un gruppo di persone una sorta di comitato), mentre indica l’avvocato di una delle parti al processo
Company: tradotto come “compagnia” (come nel medioevo o nel mondo teatrale) anziché società commerciale
Director: tradotto direttore (anziché amministratore/responsabile, ad es. del settore delle risorse umane di una società)
Construction: non è l’edificazione di un edificio o la redazione di un testo, ma l’attribuzione di un significato giuridico ad uno scritto, la deduzione delle conseguenze per il diritto tratte da un documento messo per iscritto.
Material: non è semplicemente materiale, nel senso di avente consistenza fisica, ma rilevante, significativo, degno di considerazione.
Quali elementi possono agevolare la comprensione delle sentenze di common law?
La scelta di usare un linguaggio colloquiale (seppure colto) rende la lettura meno monotona.
Anche l’accorgimento di creare dialoghi immaginari, in cui la posizione delle parti è rappresentata sotto forma di “botta e risposta”, aiuta il lettore a capire meglio le rispettive pretese delle parti in lite.
Nel caso vertente sul diritto di uno studente sikh di portare il turbante in classe, nonostante l’uniforme prevista per gli studenti, Lord Denning presso la Court of Appeal ([1983] QB 1) descrive il caso così:
“The headmaster felt that it might give rise to difficulties if the boy wore his turban in school. He asked the father “will you consent to his removing his turban and cutting his hair”? The father said “No. that is completely out of the question”.
Il dialogo è creato dal relatore del caso, non è una versione letterale di ciò che era effettivamente capitato.
In qualche misura le domande retoriche svolgono la stessa funzione: sollecitano il lettore a immaginare una risposta che egli può confrontare con quella che il giudice darà poco dopo.
Le metafore riducono la complessità di uno spinoso quesito giuridico nei termini di un’esperienza quotidiana, accessibile a tutti. Il lettore riesce a immedesimarsi nella situazione conflittuale. Anche il ragionamento per assurdo serve a evidenziare le conseguenze ultime di una deduzione, conducendo il lettore a concordare con la scelta interpretativa adottata dalla corte, dopo avere constatato a quali assurde situazioni porterebbe una diversa opzione interpretativa.
Silvia Ferreri è professore ordinario di diritto comparato nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino. In precedenza è stata ricercatrice presso l’Università Bocconi di Milano e professore straordinario a Venezia (Cà Foscari) e Alessandria (Piemonte orientale).
Fa parte del collegio dei docenti del dottorato di diritto comparato dell’Università di Torino.
Ha pubblicato in francese (in Revue internationale de droit comparé, ne Les éditions Thémis, in Synergie Italie) e in inglese (per Oceana, Mohr Siebeck, Kluwer international, Sellier, Staempfli, De Gruyter). In Italia ha pubblicato in materia di interpretazione del contratto, di vendita, sulle fonti non nazionali del diritto (i titoli figurano nel catalogo di Ateneo di Torino).
È socia dell’International Academy of Comparative Law e dell’Association H. Capitant des amis de la culture française. In Italia è socia della SIRD, Società per la ricerca nel diritto comparato.
Ha partecipato al progetto Acquis (acquis.org) sul diritto europeo del contratto (nel Terminology group); ha insegnato nel 2008 presso la Law School dell’università della Louisiana a Baton Rouge (visiting professor); ha insegnato a Lione (Université Catholique) e a Montreal (McGill University); ha diretto per la Commissione Europea, DGT, la ricerca su Document quality control in public administrations and international organisations (2013). Fa parte del gruppo di esperti della REI (Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale). È responsabile, per la lingua italiana, del World Law Dictionary (Translegal.com): progetto inteso a individuare, in molteplici lingue, equivalenti funzionali di 10.000 termini giuridici anglofoni.