
Il Suo libro offre una lettura dell’opera del cantautore genovese meno consueta, cercando di metterne in evidenza anche i limiti umani, per raccontare soprattutto la grandezza anarchica della sua visione del mondo: chi era davvero Fabrizio De André?
Fabrizio De André era, credo, una persona allo stesso tempo meravigliosa e insopportabile. Ho avuto un amico, uno dei miei più grandi e cari amici, che come lui ha dato alla creazione e all’arte tutto se stesso, compreso il proprio corpo, fino a consumarlo molto prima del tempo. Proprio come De André. Sono persone toccate dalla grazia, che non sono di questo mondo e che pure in questo mondo sono immersi come nessun altro, e riescono a toccarne l’essenza vera e intima. Incontrarli è un privilegio, amarli può essere una condanna, e insieme la più grande esperienza umana possibile. Sono poeti, che come disse Alberto Moravia per ricordare Pasolini in quel prato di Ostia, sono rarissimi, ne nascono al massimo due o tre in un secolo.
Come si potrebbe descrivere la multiforme personalità di Fabrizio De André?
Immagino si debbano considerare un po’ di cose, cercando con grande difficoltà di tenerle tutte insieme. Era figlio di una delle famiglie più colte e in vista della sua città, aveva un fratello maggiore geniale, un padre impegnato politicamente, una madre di origini quasi nobili e coltissima, leggeva e ascoltava letteratura e musica francese, era ricco, bello, affascinante, con una voce come abbiamo detto sovrumana. E voleva spaccare il mondo e rivoltarlo. Aveva tutte le ragazze di Genova ai suoi piedi, ragazze belle, ribelli, pronte a dargli tutto. Ma lui amava anche le puttane dei vicoli, perché gli chiedevano soltanto soldi e non l’amore che magari non aveva voglia di dare. Era un maledetto che voleva essere amato. Una contraddizione vivente, un privilegiato che dorme per strada, un intellettuale che finge di essere un buffone. Amava bere, fare a botte, fare casino. Ma cercava anche il consenso, o perlomeno l’affetto della gente. Quindi un giovane e poi anche un adulto ingestibile, indigeribile, impossibile. E allo stesso tempo assolutamente irresistibile. Le mie sono ipotesi, cerco di immaginare cosa potesse stare dietro quella voce e quelle parole, ma ne sono abbastanza convinto.
In che modo l’esperienza di vita di De André si riflette nelle sue canzoni?
Nel modo che ho detto. Quello che De André racconta, da Bocca di Rosa e Via del Campo fino a Dolcenera e a Nina sull’altalena, è quello che ha vissuto o conosciuto. È stato un artista, e come ogni artista ha manipolato trasformandolo in arte ciò che aveva dentro, ma sono assolutamente certo che De André non abbia mai mentito.
In quali brani si rispecchiava maggiormente Fabrizio?
Questo davvero non posso saperlo. Una volta ha dichiarato che la sua canzone preferita, l’unica davvero sua, era “Amico fragile”. Un capolavoro, ma anche un pezzo mediato, complesso, intellettuale, freddo. Mi piace pensare che si rispecchiasse di più in “La cattiva strada”, che è una di quelle che amo di più. E soprattutto in “Il suonatore Jones”, che è in assoluto la mia preferita e che ho sempre pensato parlasse di lui o perlomeno di quello che avrebbe voluto essere e rimanere nel pensiero e nel ricordo delle persone.
Qual è stata l’importanza di Dori Ghezzi per l’ispirazione artistica di Fabrizio De André?
Non credo che ci sia stata una diretta ispirazione in senso classico artista-musa. Le persone come De André hanno davanti agli occhi se stesse, non gli altri. E allo stesso tempo non riescono a fare a meno di avere sempre qualcuno accanto. So che soffriva di depressioni terribili, come ogni genio dell’arte. Penso che Dori lo abbia “sopportato” in tutte le sue immani complessità e difficoltà e intemperanze, e quindi credo che le dobbiamo molto di quello che lui è riuscito a creare e che ci ha regalato. Ma non soltanto lei. Il prezzo della magia che De André ci ha regalato lo hanno pagato le persone che gli stavano vicine, quindi la prima moglie, Puny, e poi Dori e i due figli Cristiano e Luvi, soprattutto Cristiano.
Come influì su di lui la vicenda del sequestro?
Permettendogli di rendere ancora più reale e personale la pietà che aveva dentro, e che è una virtù rarissima e difficile. Dopo il sequestro, che durò quattro mesi e che fu durissimo, De André firmo la richiesta di grazia per uno dei suoi sequestratori. Quella pietà, che è la pietà di Cristo e quella di François Villon, è una delle poche cose che potrebbe salvare questo mondo. De André la possedeva.
Cosa ha apportato alla canzone italiana De Andrè?
Come ho scritto in questo libretto, non credo che De André sia stato il miglior cantautore italiano. Probabilmente Francesco De Gregori ha scritto testi più belli dei suoi, e senza alcun dubbio la musica scritta da Lucio Battisti è di livello superiore alla sua. Ma come questi due, e come Guccini e in parte anche Dalla e Vecchioni, De André ha cambiato la nostra mente, ci ha aperto delle strade, ha allargato gli orizzonti. Individuo soprattutto in una cosa la sua diversità: secondo me De André, più di tutti gli altri, e parlo davvero in modo del tutto personale, De André ha permesso a molte persone di diventare adulte e di prendere la strada sbagliata, che è l’unica strada che è giusto prendere.
Fabrizio De André si sentiva più poeta o cantante?
È stato lui stesso a rispondere a questa domanda, quando ha detto: «Benedetto Croce diceva che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi, rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore».
Tommaso Gurrieri è nato nel novembre 1966. Ha fatto il giornalista, il conduttore radiofonico, il ghost writer, lo spin doctor, l’esperto di comunicazione politica, l’organizzatore di concerti, il dj. Ha fondato e diretto quattro diverse riviste letterarie, scritto libri di storia e di politica e tradotto dal francese una cinquantina di libri. Nel 2007 ha creato e diretto fino alla sua chiusura la casa editrice Barbès. Nel 2012 ha inventato le Edizioni Clichy, che ancora dirige.