“Exit Only. Cosa sbaglia l’Italia sui cervelli in fuga” di Giulia Pastorella

Dott.ssa Giulia Pastorella, Lei è autrice del libro Exit Only. Cosa sbaglia l’Italia sui cervelli in fuga edito da Laterza. Lei stessa è un cosiddetto “cervello in fuga”: cosa spinge un giovane dal promettente futuro a lasciare il nostro Paese?
Exit Only. Cosa sbaglia l'Italia sui cervelli in fuga, Giulia PastorellaI giovani che lasciano il nostro paese fuggono da una situazione di carenza cronica di opportunità. I sondaggi effettuati in questo senso rilevano che la fuga avviene soprattutto a causa di un mercato del lavoro che non offre quello che i giovani cercano. Le motivazioni citate più spesso sono i salari che non valorizzano i titoli di studio, gli stage non pagati, la cultura gerontocratica e speso machista delle aziende italiane, e anche il poco sviluppo di alcuni settori innovativi dell’economia in cui le nuove generazioni vorrebbero lanciarsi.

Particolarmente penalizzate sembrano essere le giovani donne, per i noti motivi che affliggono il nostro Paese su uguaglianza di genere, servizi per le lavoratrici madri, e il noto soffitto di vetro a livello salariale. Infine, una fuga significativa se non per numeri totali certamente per proporzione è quella nel mondo accademico e della ricerca. Lí i problemi sono il precariato, la mancanza di fondi, la falsa meritocrazia e – spiace dirlo – i baronati.

Un aspetto che trovo particolarmente deprimente è che a partire sono i migliori, ovvero chi ha i voti più alti e spesso chi ha già fatto un’esperienza all’estero – o alle superiori o durante l’università. La fuga avviene spesso in due tempi: dal sud al nord del nostro paese, e poi via verso l’estero.

Per quanto riguarda la mia storia personale, in realtà non mi sono mai considerata un cervello in fuga per vari motivi. Un po’ perché sono partita prima di essere “cervello”, ovvero prima di laurearmi, a 17 anni. La definizione di cervello in fuga non è in effetti univoca ma c’è abbastanza consenso sul fatto che siano laureati o addirittura con diplomi superiori (dottorati e post-doc).

Soprattutto, quando sono partita non stavo fuggendo da una mancanza di opportunità, ma al contrario volevo andare in cerca di avventure per uscire da un’adolescenza che, come a tutti, sta un po’ stretta. Quindi anche in questo senso non posso considerarmi ‘in fuga’. Non per niente quando sono stata candidata per le elezioni europee ho scelto come slogan “Europa per scelta”, proprio a significare che la mia scelta di vivere a Oxford, Londra, Parigi, Bruxelles, Vienna nell’arco di 18 anni è stata una scelta consapevole e positiva. E che tornare in Italia rimane sempre un’opzione valida – opzione che per tanti cervelli in fuga invece è fuori questione.

La storia della generazione perduta di talenti è davvero come viene raccontata? Quali falsi miti aleggiano sul tema?
Sicuramente c’é del vero nel luogo comune della generazione perduta di talenti. In particolare negli ultimi 10 anni circa, ovvero dalla crisi dell’euro ad oggi, il fenomeno dell’abbandono dell’Italia da parte di ragazzi laureati non ha smesso di crescere in proporzione alla popolazione totale. Tuttavia ci sono due aspetti che spesso vengono dimenticati.

In primis, che l’Italia non è certo il solo paese ad esportare cervelli, se così si può dire. Germania e Francia, in percentuale alla popolazione, ha più cervelli in fuga. Il motivo per cui dai nostri vicini non si parla di generazione perduta è che da loro ritornano. Il motivo del titolo Exit Only è proprio questo: il flusso di talenti dall’Italia vero l’estero è unidirezionale o quasi.

Secondo, non solo certo solo i cervelli a partire, anzi. Sul totale dell’emigrazione dall’Italia, i cosiddetti “cervelli” quindi i giovani laureati o dottorandi sono solo una piccola percentuale (inferiore al 30%). Per il resto, vanno via anche moltissime altre persone che, erroneamente, non vengono etichettati come ‘talenti’ ma che sono altrettanto necessari allo sviluppo del paese.

Quali evidenze rendono la situazione più drammatica per il nostro Paese rispetto agli altri grandi paesi europei?
Come già accennato, il nostro problema rispetto agli altri grandi paesi europei è la velocità alla quale, di anno in anno, i numeri di cervelli in fuga aumenta. Se il trend dovesse mantenersi stabile, presto supereremmo gli altri stati per “esportazione” di cervelli.

Oltre alla quasi unidirezionalitá di questo flusso in uscita già menzionata sopra, per l’Italia la fuga è particolarmente problematica perché notoriamente siamo uno tra i paesi con il più basso numero di laureati rispetto al totale della popolazione. Ci portiamo dietro questo triste primato da anni, e benché il numero dei laureati sia in crescita, non è abbastanza per farci restare al passo dei nostri vicini.

Infine, un problema tutto italiano è che partono i migliori. Benché ‘migliori’ sia forse un concetto controverso, le statistiche dimostrano che chi parte per andare all’estero spesso è chi ha i voti migliori, chi magari ha già fatto esperienze fuori, spesso chi ha già dimostrato imprenditorialità. Spesso questo è un viaggio in due tappe, come: da sud a nord, e poi da nord verso l’estero. Quindi il contraccolpo sul paese – in termini di innovazione, produttività, slancio di imprenditorialità giovanile etc. – è particolarmente sentito al sud ma si estende poi in tutto il bel Paese.

Perché l’Italia non è una meta attrattiva per i talenti di altre nazionalità?
I motivi per cui i nostri talenti partono sono spesso gli stessi per cui talenti di altre nazionalità non trovano il nostro paese attrattivo. Oltre a quelli già citati en passant, la lista resta lunga.

Il nostro mercato del lavoro che non valorizza la giovinezza e le qualifiche accademiche ma predilige l’esperienza creando di fatto una gerontocrazia difficile da smontare. Siamo tra i paesi in cui l’investimento in una laurea paga meno in termini di ritorni salariali – quasi non val la pena laurearsi tanto la differenza di stipendio è minima!

Il mercato del lavoro italiano non è neanche molto adatto a chi dovesse avere spirito imprenditoriale. Sappiamo bene quanto complesso sia aprire un’azienda, tra notai e marche da bollo, per non parlare di imprenditoria femminile, dove uno scarso tessuto di servizi alle famiglie a livello locale rende la missione delle mamme lavoratrici davvero ardua.

Per quanto riguarda la ricerca e quindi il mondo accademico, si deve aprire una parentesi a parte. Il mancato completamento del processo di internazionalizzazione della maggior parte delle nostre università – e addirittura l’avversione che certi nostri organi sembrano avere per le lezioni in inglese! – è un ostacolo che chiaramente scoraggia gli stranieri dal venire. Per quanto riguarda il percorso post laurea poi, il problema non è solo la mancata internazionalizzazione, ma il cronico sottofinanziamento dei nostri dipartimenti di ricerca oltre che, fa male dirlo, la finta meritocrazia dei concorsi di dottorato. Su questi ultimi i dati scarseggiano ma le testimonianze individuali abbondano.

Quali politiche si rivelano efficaci per affrontare il brain drain?
Ci sono due scuole di pensiero riguardo al brain drain. Una, quella nazionalista, che parte dal presupposto che i talenti, essendo formati da una nazione, abbiamo una sorta di debito verso quella nazione che ha investito in loro. E che la partenza di queste persone sia una perdita netta per il paese di origine. E quindi le politiche proposte dai sostenitori di questa tesi è che bisogni fare il possibile per farli tornare per creare valore aggiunto nel paese di origine. Questa scuola propone da misure più soft, come incentivi e bonus, a misure più severe, come una doppia tassazione per chi se ne è andato per compensare la perdita subita dallo stato di origine.

La scuola internazionalista, invece, che è quella che io sposo senza nasconderlo nel libro, è dell’idea che i talenti debbano essere liberi di muoversi liberamente e portare laddove sono più necessari il loro valore aggiunto. Partendo dal presupposto che il mercato del lavoro è sempre più internazionale, la circolazione dei cervelli è un fenomeno naturale e anzi, potenzialmente da incoraggiare in quanto permette un’allocazione più efficiente delle risorse in termini di capitale umano, Quindi le politiche che affrontano il brain drain provenienti da questa scuola di pensiero sono quelle che valorizzano le diaspore di espatriati per esempio come un network con ricadute positive sia sui paesi di origine che su quelli di arrivo. Sono anche quelle che cercano di massimizzare la circolazione di talenti attraverso per esempio l’equivalente della Green Card americana a livello europeo – la Blue Card, o ancora favoriscono gli scambi universitari o gli scambi tra colleghi di sedi diverse di aziende, e cosi via. In breve, accompagnano la circolazione dei talenti invece di cercare di limitarla.

In cosa consiste la Sua proposta per arginare l’emigrazione di talenti?
La mia proposta non serve ad arginare l’emigrazione dei talenti. Questa emigrazione non è un fenomeno necessariamente negativo, come ho spiegato, e al contrario andrebbe incoraggiata nella misura in cui aiuta gli individui a sviluppare nuove competenze e nuovi talenti, a confrontarsi con realtà diverse ed arricchire il proprio CV.

Quindi le mie proposte sono volte non a evitare l’emigrazione, ma evitare che questa emigrazione sia una fuga dalla mancanza di opportunità, e soprattutto volte a rendere l’Italia molto più attrattiva per i talenti internazionali. Sono convinta che il paese non si rende più attrattivo a colpi di bonus e incentivi fiscali, ma riparando quello che di rotto c’è nel sistema.

E quindi partendo dal mercato del lavoro, passando per quello della ricerca accademica, con un occhio particolare a categorie come le donne che fanno una fatica doppia, o gli imprenditori innovatori di cui l’Italia ha estremamente bisogno. Su tutti questi aspetti in Exit Only propongo misure concrete affinché i politici non si sentano giustificati nel dire che non si può rivoluzionare il paese. In realtà si può, e si deve, a partire da tutti quei fattori penalizzanti che fanno partire i nostri ragazzi.

Giulia Pastorella è direttrice delle relazioni istituzionali con l’Unione Europea per Zoom. In passato é stata responsabile della strategia di cybersecurity e data policy a livello globale per HP, dopo averne gestito gli affari istituzionali a Londra e Bruxelles, con responsabilità anche per l’Italia. Ha conseguito un PhD in Affari Europei presso la London School of Economics, dove ha insegnato, e un Master a Sciences Po. Si è laureata a Oxford in filosofia e letteratura francese. Ha co-fondato con Carlo Calenda il partito Azione nel 2019, di cui é responsabile nazionale per l’Innovazione e il Digitale.

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