“Excalibur. La spada nella roccia tra mito e storia” di Francesco Marzella

Prof. Francesco Marzella, Lei è autore del libro Excalibur. La spada nella roccia tra mito e storia edito da Salerno: quali testi hanno tramandato l’episodio?
Excalibur. La spada nella roccia tra mito e storia, Francesco MarzellaLe imprese di Artù e dei suoi cavalieri hanno ispirato, soprattutto a partire dal XII secolo, la composizione di numerose opere letterarie in diverse lingue, al punto che non è esagerato considerare la letteratura arturiana un fenomeno paneuropeo. La storia di Artù, a ogni modo, è raccontata per la prima volta in maniera più dettagliata in una cronaca in latino decisamente sui generis, il De gestis Britonum (un tempo conosciuto come Historia regum Britanniae) di Goffredo di Monmouth. In questo testo si fa menzione della gloriosa spada di Artù, Caliburn – che diventerà poi Excalibur –, di cui si dice che fu forgiata nella misteriosa isola di Avalon; manca però qualsiasi riferimento all’episodio della spada nella roccia. L’opera di Goffredo ebbe una fortuna immediata e duratura, come testimonia il gran numero di manoscritti in cui ci è giunta (più di 200, un vero e proprio best seller medievale!), e stimolò la produzione di nuovi testi ispirati a quella che fu definita la “materia di Bretagna”, fra i quali si annoverano capolavori indiscussi, come i romanzi cortesi di Chrétien de Troyes. Eppure bisognerà attendere la fine del secolo per leggere la storia di come il giovane Artù estrasse la spada dalla roccia. A raccontarla per la prima volta è il francese Robert de Boron – scrittore di cui in realtà non sappiamo poi molto – nel suo Merlin, un poema che ci è giunto frammentario, ma di cui possiamo conoscere i contenuti grazie a una successiva riscrittura in prosa. Il Merlin è parte di una trilogia in cui si dipana la storia del Graal, identificato per la prima volta con il calice usato da Gesù nell’Ultima Cena e in cui Giuseppe di Arimatea ha raccolto il sangue di Gesù crocifisso. Il Sacro Calice verrà ritrovato da uno dei cavalieri di Artù e l’episodio della spada nella roccia sembra introdotto nella narrazione per provare l’elezione divina di Artù, durante il cui regno la ricerca del Graal troverà compimento. La storia è nota: nella notte di Natale, mentre i nobili del regno sono riuniti in chiesa in attesa di un segno divino dopo che re Uther è morto – apparentemente senza lasciare eredi –, proprio fuori dall’edificio sacro appare una spada prodigiosamente infissa in un’incudine e in una roccia. Chi sarà capace di estrarre la spada – spiega un’iscrizione sulla spada stessa – sarà re per grazia di Dio. Tutti i nobili si cimentano nella prova, ma invano. Solo Artù, un ragazzo dalle oscure origini, riuscirà dove tutti hanno fallito, rivelando di essere l’eletto di Dio, destinato a regnare sulla Britannia e ad avviare la ricerca del Graal. Dopo l’incoronazione, Merlino interviene per rivelare che Artù è in realtà il figlio di re Uther e di conseguenza legittimo erede al trono. Il prodigio della spada è pertanto funzionale a rivelare la vera identità di Artù, ma soprattutto a rendere manifesto come egli sia stato scelto da Dio per guidare i Britanni e favorire la ricerca del Graal.

L’episodio verrà ripreso nei successivi testi arturiani del tardo Medioevo, che talvolta confonderanno la spada nella roccia con Excalibur, e conoscerà una nuova fortuna soprattutto nel Novecento, con il romanzo di T. H. White La spada nella roccia – e il celeberrimo cartone della Disney ad esso ispirato – e numerosi altri romanzi e trasposizioni cinematografiche della leggenda arturiana.

Dove affonda le proprie radici il racconto della spada nella roccia?
Molto spesso si cercano i precedenti degli episodi arturiani nel mito celtico. Nel caso della spada nella roccia, la ricerca in questa direzione non ha portato a risultati convincenti. L’indagine proposta in questo libro suggerisce un’altra pista da seguire e prende le mosse dal confronto fra l’episodio arturiano e una leggenda meno nota ai lettori italiani. Si tratta di un racconto che compare nel dossier agiografico di sant’Edoardo il Confessore, che fu re di Inghilterra dal 1042 al 1066. L’episodio è ambientato negli anni successivi alla morte di sant’Edoardo, e cioè nei primi anni di regno di Guglielmo il Conquistatore, che segnano l’inizio del dominio normanno. Il protagonista di questa storia è il vescovo di Worcester, Wulfstan, accusato alla presenza dell’arcivescovo di Canterbury, Lanfranco di Pavia, di non essere sufficientemente colto per ricoprire adeguatamente la sua carica. Wulfstan lascia che a decidere sia proprio Edoardo, che lo aveva voluto alla guida della diocesi di Worcester: si avvicina alla tomba del re e infigge prodigiosamente il pastorale – il bastone simbolo della dignità episcopale – nella pietra che copre il sepolcro. Ci saranno alcuni tentativi di rimuovere il bastone, ma nessuno andrà a buon fine. Solo Wulfstan è in grado di riprendere il bastone dalla tomba, dimostrando così che è volontà divina che egli sia confermato come vescovo.

Le analogie fra la prova di Wulfstan e quella di Artù sono sorprendenti e tali da porre il problema del rapporto fra le due storie. La vicenda agiografica compare in un testo più antico: dobbiamo dedurne che Robert de Boron trasse ispirazione proprio da questo racconto? È evidente come avere un’idea più chiara del rapporto tra le due leggende possa gettare una nuova luce sulla genesi dell’episodio arturiano. Ben presto, però, l’indagine si allarga fino a coinvolgere altri testi e altre tradizioni, anche lontane nel tempo e nello spazio…

Come si dipana la fitta trama di rimandi intertestuali relativi al celebre episodio arturiano?
Alcune osservazioni preliminari. La storia di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda ha ispirato già nel medioevo una vasta produzione di opere letterarie, che di volta in volta hanno aggiunto nuovi elementi – basti pensare che nei testi più antichi mancano riferimenti alla Tavola Rotonda, al Graal o, appunto, alla spada nella roccia, che sono poi diventati i simboli per eccellenza della leggenda arturiana – e la materia di Bretagna nel tempo è così cresciuta su se stessa, arricchendosi di nuovi episodi e personaggi. È bene evitare di dare per scontato che qualsiasi novità introdotta dai testi medievali sia riconducibile a una leggenda originaria dalla quale avrebbero attinto diversi autori in diversi momenti, né ha senso supporre che esse provengano necessariamente dal medesimo sostrato mitico o folklorico, nella fattispecie, da un sostrato celtico. Lo straordinario successo della letteratura arturiana lascia ipotizzare che essa fu capace di accogliere anche elementi provenienti da altre tradizioni.

Quanto al metodo, si parte, come spesso accade, dalla comparazione ragionata dei testi e dai validi strumenti messi a disposizione dalla filologia. Stando bene attenti, però, a dare il giusto peso non solo alle analogie, ma anche alle differenze: è infatti opportuno tenere ben presente le specificità delle singole testimonianze ed evitare un comparativismo troppo generoso, che incoraggi confronti meno opportuni o suggerisca connessioni improbabili. Nel caso dei due testi presi inizialmente in considerazione in questo studio, per esempio, il paragone non è giustificato dalla presenza del singolo motivo dell’arma che solo un eroe è capace di estrarre, ma da una serie di elementi che costituiscono una struttura narrativa, tali da far escludere l’ipotesi di una genesi indipendente dei due racconti.

Infine, muovendosi nell’ambito delle congetture, è sempre opportuno ancorarsi a quel “senso del limite e della sua esplorabilità” richiamato da Franco Cardini nella sua bella prefazione. Sarebbe forse più rassicurante (e anche gratificante, per chi scrive) poter sempre raccontare al lettore: “è andata esattamente così!”. Nella maggior parte dei casi si tratta di una tentazione cui è bene non cedere; è tempo, piuttosto, di tornare a far apprezzare la complessità delle ricostruzioni storiche, evitando indebite semplificazioni. In questo caso ai lettori viene proposta una nuova ipotesi sulla genesi di uno degli episodi più celebri di tutta la letteratura medievale senza che sia loro risparmiato il ragionamento critico. Forse si sentiranno sfidati e messi alla prova, un po’ come gli eroi delle storie prese in esame. Saranno loro a decidere se alla fine ne sarà valsa la pena.

Francesco Marzella è Research Associate presso il Department of Anglo-Saxon, Norse and Celtic dell’Università di Cambridge. Ha curato l’edizione critica della Vita sancti Aedwardi Regis et Confessoris di Aelredo di Rievaulx (Corpus Christianorum Continuatio Mediaevalis 3A, Turnhout 2017).

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