Eurialo e Niso (Eneide, Libro IX, 402-818)
«Una pruderie molto ostinata e diffusa induce (o meglio, induceva fino a qualche anno fa) diversi studiosi a precisare, in forza di chissà quali indizi, che tra Eurìalo e Niso non intercorresse altro che una fervida amicizia. A dire il vero, Virgilio dice molto di più: dice che è la straordinaria bellezza di Eurìalo ad accendere la passione di Niso; insomma, che la loro amicizia è intrisa di desiderio: un desiderio che il pudore, insieme, vela e ratifica. Quando poi, oberato di borchie e di bandoliere placcate, con un elmo piumato in testa (tutte prede sottratte ai nemici uccisi nel sonno), Eurìalo resta indietro nella fuga, Niso si abbandona alla stessa angoscia e allo stesso rimorso che avevano sopraffatto Enea l’ultimo giorno di Troia, quando si era accorto d’essersi perso l’amatissima moglie Creùsa; tanto che, tornando anche lui precipitosamente sui suoi passi, Niso consente a Virgilio di riadoperare nell’identica giacitura l’identico segmento verbale che aveva adottato nel II libro (et vestigia retro / observata)… Forse però il documento più lancinante d’amore, Niso lo esibisce con le ultime parole che gli escono di bocca: quando, tentando di interporsi fra Eurìalo e la spada del rùtulo Volcente, proclamerà che unico colpevole del proditorio eccidio notturno è lui, e che il ragazzo non ha altra colpa che quella di averlo amato troppo (tantum infelicem nimium dilexit amicum); e si lascerà ammazzare rivendicando la dolcissima gloria di essere amato.
Basterà notare come l’alternativa che Niso si poneva alla vista del giovanissimo amico catturato da una muta di Rùtuli a cavallo (tentar di salvarlo o affrettare una «bellissima morte», gettandosi sulle spade nemiche), sia una falsa alternativa: essendo le due ipotesi due facce della stessa medaglia, non potrà che rassegnarsi ad entrambe.
Chiusa l’avventura con un triplice ammazzamento (languidamente floreale, quello di Eurìalo; freneticamente teatrale, quello di Volcente; sobriamente sacrificale, quello di Niso), i Rùtuli procedono alle esequie del loro capitano e di tutti i morti che l’alba svela sdraiati in un pantano di sangue. Grande il cordoglio, enorme la collera di vendetta che il cordoglio innesca. Piantate le teste dei due ragazzi troiani in cima a due picche, disposte le picche in prima fila come stendardi d’odio, l’esercito latino si muove ringhiando verso il campo fortificato.
All’interno del campo, il pianto della mamma di Eurìalo fende il coro delle lamentazioni con l’alterigia della solitudine: sottratti alle esequie i corpi dei morti, la comunità non può condividere il suo dolore condividendone i rituali. E il lutto è inconsumabile.
La tromba di guerra che strepita di lontano un suono terribile, segna il cambio di tonalità. Basta lagne, ha inizio la carneficina.
Primi a gettarsi all’assalto del vallo troiano figurano i Volsci (che, però, ridiventano Rùtuli dopo dodici versi). Li vediamo addossarsi alla cinta di mura disposti a testuggine, cioè serrati spalla contro spalla, gli scudi sollevati sopra la testa a formare il displuvio d’una tettoia; mentre i Troiani, adsueti a quel tipo di difesa, li accolgono con una spaventosa grandinata di proiettili; finché un masso enorme non piomba sulla testuggine, e la sfonda, schiacciando e scompaginando gli assalitori. Ma perché mai i Troiani dovrebbero essere «abituati» a difendersi in quel modo lì, non è evidente come potrebbe sembrare a occhio: di fatto, durante l’assedio di Troia, i combattimenti – se Omero fa testo – si svolgevano in campo aperto fra gli assedianti e gli assediati in sortita, mentre sulle mura sedevano gli anziani con la bella Elena a contemplare la battaglia (semmai furono i Greci, nella fase più buia della campagna, a difendere disordinatamente il vallo eretto a protezione della flotta). È d’altronde proprio uno scontro omerico in campo aperto, quello che si aspettava Turno; talché, deluso dalla prudenza dei Teucri, li accusa di comportarsi da donnette. Quanto alla natura delle fortificazioni, è evidente si tratti d’una robusta palizzata intercalata da torrette o ridotte di legno. Mentre i cosiddetti Volsci battono in ritirata, Mezenzio e Messapo infuriano nel tentativo di incendiarle, sfondarle, scalarle, quelle fortificazioni improvvisate.
Una breve e perentoria invocazione a Callìope, musa dell’epica, apre la serie degli eccidi perpetrati a ridosso del vallo, tra tavolati in fiamme e poveri difensori che, nel crollo di torri divelte, precipitano su poveri assalitori per essere ammazzati ammazzando.»
tratto da L’Eneide di Virgilio di Vittorio Sermonti, BUR