
Come procede, nel pensiero di Kierkegaard, lo scontro tra queste due possibilità?
Per rispondere alla Sua domanda, è necessario aprire una breve parentesi sul significato che, a tale scontro, abbiamo attribuito nel presente volume. Si è tentato di ricondurre il polemos tra positivo e negativo nel pensiero kierkegaardiano ad una, chiamiamola così, impropriamente, definizione, capace, per la sua ampiezza semantica, di connotare e di significare anche storicamente, sia da un punto di vista diacronico che sincronico, la riflessione del pensatore danese; tale termine, ambiguo, come ambiguo è il suo oggetto, è: nichilismo. Ora, il nichilismo (che, nonostante sia un -ismo, rimane categoria intelligente e imprescindibile per chiunque si occupi, oggi, di filosofia, di letteratura, di arte e via dicendo) presuppone e vive una storia, che è la storia del nostro tempo. In esso, infinitamente interpretato come storia del nulla (memori, in questa accezione, del percorso ermeneutico tracciato da Sergio Givone), viene a confluire, carsicamente, la storia del nichilismo in quanto corrente di pensiero storicamente (Historisch) determinata, originata dalla riflessione di Nietzsche e potentemente preceduta dalla filosofia kierkegaardiana, il cui apporto a tal proposito, come potrà facilmente constatare il lettore, è sempre stato sminuito, e collegato, al massimo, alla figura, certamente nichilistica, dell’esteta, colui che vive come se tutto fosse fumo, vanità di vanità. Ora, a ben vedere, anche alla luce di quando si stava dicendo, Kierkegaard certamente si inserisce nella storia del nichilismo come colui che è riuscito a rappresentare, icasticamente e figurativamente (in una parola: letterariamente), il nichilismo, ma bisognerebbe far risalire e mettere in rapporto il suo pensiero con la storia del nulla, con quell’interrogazione radicale che ha trovato nella Grundfrage la sua formulazione più adatta, certamente la più seminale: “Perché l’essere e non piuttosto il nulla?”. È alla me-ontologia (da Leibniz a Schelling, da Heidegger a Sartre, solo per restare nei pressi del pensiero moderno) che guarda il pensatore danese, a quell’inesausta e inesauribile linea di ricerca, di ascolto e di cura per un Essere impossibilitato ad essere semplicemente, perché più semplice ancora, più avvolgente e inarrestabile è la potenza del Nulla. Dialetticamente, quindi (di una dialettica, lo si noterà, ben diversa, addirittura tout autre, da quella, panlogista, di Hegel), lo scontro tra negativo e positivo procede e si costituisce come le sistole e le diastole del pensiero pensante, momento distruttivo e momento costruttivo, edificante, dove però il verum di tale rapporto è appunto il processo, sempre diveniente, comunque interminabile, la perenne decostruzione di ogni Verum infine assurto, scolasticamente, a fine in sé e per sé. Il negativo, esistentivamente inteso, è la spinta esodale che sfonda la fissità di un positivo-positum, e che apre la strada a una ricerca continua, vera perché è ricerca, inappagabile sete di conoscenza, differita risposta alla tentazione post-edenica dell’“Eritis”. In questo senso, allora, il circolo dialettico tra positivo e negativo delineato teoreticamente da Kierkegaard assume una connotazione mistica, religiosa, che permea e valida anche le opere pseudonime: per uscire dallo strapotere del negativo (dal dominio della morte, del peccato, del mondo mondializzato e infine chiuso in se stesso) è necessario – è, cioè, possibile in quanto possibilità assoluta – passare ad un positivo posto dall’intersezione con un negativo di fatta diversa, sul quale comunque ritorneremo a breve. Per concludere: l’esito dello scontro tra positivo e negativo è, in Kierkegaard, perennemente rimandato, inquieto perché strutturalmente impossibilitato ad acquietarsi, avvicinamento asintotico ad una Trascendenza trascendentalmente intesa, che vive e respira nel silenzio carico di domande del Singolo.
Quale ferita apre, nella storia della filosofia, il pensatore danese?
A tal proposito, il riferimento va chiaramente al fondamentale saggio di Karl Löwith del 1941, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, nel quale il grande filosofo tedesco si confronta con tutti quegli autori che hanno inflitto una ferita (anche narcisistica, verrebbe da osservare) al Sistema hegeliano, e che hanno perciò stesso finito per frantumarlo. Löwith, che meditò e sostò, lungo tutto il suo itinerario filosofico, sul problema del nichilismo, rinviene in Kierkegaard, letto e interpretato qui all’ombra di Marx, un nichilismo fortemente politico, nel senso profondo e non spesso frequentato del termine, per il quale il pensatore danese, ripiegando nell’interiorità del Singolo il momento esiziale della scelta, avrebbe fratturato l’onnipervasività gnoseologica, prasseologica e ontologica dello Spirito Assoluto hegeliano, aprendo così la strada e il cammino al fantasma del nichilismo irrazionalista. Non vale certamente questo veloce riassunto a tratteggiare compiutamente il profilo, sfuggente e complicato, di un filosofo come Löwith, ma esso ci è utile per comprendere la portata del vulnus kierkegaardiano, vulnus insanabile che davvero proietta e traghetta la modernità filosofica nel novero della contemporaneità del pensiero pensante. Kierkegaard come maestro del sospetto, quindi, interamente votato all’edificazione, destrutturante e kenologica, di un anti-Sistema, di un Cristianesimo dopo il Cristianesimo, di un religioso dopo la religione, eterno viatore, pellegrino cherubico Unterwegs dell’ardente nucleo mistico che inabita trascendentalmente l’uomo allorché si riconosca come Singolo, come “quel” Singolo sul quale la parola divina, farmaco soterico, soffia in spirito di Liberalität. E non dovrà quindi stupire che il pensiero di Kierkegaard sia qui sottratto, sulla scorta di avveduti interpreti, ad ogni morsa confessionalistica, ideologizzante e soffocante, e restituito alla sua primaria significazione filosofica ed esistentiva. Filosofica perché mistica, e mistica perché filosofica: Kierkegaard, e la “magnifica storia” di Abramo, pur con tutte le sue inestricabili difficoltà, ne è luminoso paradigma, ricerca quella lingua comune, quel trascendentale della Trascendenza che precede tutte le lingue, e lo indica, ne accenna, in quell’Anti-Babele che è la mistica, sorta da una mancanza, da un vuoto, da un negativo sempre di là dall’essere colmato. Kierkegaard ferisce il pensiero filosofico, squarcia il velo di Maya della metafisica e addita, in timore e tremore, allo Spazio vuoto, al di là di tutti gli spazi, che resta aperto, dopo la morte di Dio, nel Nietzsche della Gaia Scienza. Quel proscenio vuotato da ogni presenza personale rimane colmo, tanto in Kierkegaard quanto in Nietzsche, della propria vuotezza, rimane deserto di Dio, spazio trascendentalmente svuotato di ogni attributo positivo. Che lo si debba riempire con nuove immagini, idola, revenants? Ma quest’ultimo pensiero non pensa il nichilismo, non pensa nel nichilismo e ritorna a presuppore proprio ciò che, destinalmente, la storia del nichilismo e la storia del nulla continuano a decostruire.
Come è possibile uscire dal labirinto del nichilismo e in che modo vi soccorre la riflessione di Alberto Caracciolo?
Si esce dal labirinto del nichilismo solamente dimorandovi. Tra tutti i pensatori che hanno avuto la forza di restare, di ristare e di non accomiatarsi da quello che, ieri come oggi, è “il più inquietante degli ospiti”, Alberto Caracciolo merita certamente un’attenzione particolare. Il grande teoreta genovese, il primo, in Italia, con una cattedra in Filosofia della religione (1962), ha lungamente sostato sul problema del nichilismo; e che questo, anzi, afferisca e si faccia un tutt’uno col nucleo principale del suo pensiero, sempre radicale e sempre innovante, che Giovanni Moretto vedrà compendiato nel noto sintagma caraccioliano di “trascendentale religioso”, appare, a chi legga in spirito di pietas le opere del filosofo genovese, evidente. La riflessione caraccioliana, nell’ininterrotto dialogo con i classici del pensiero pensante, sempre idealmente contemporanei (da Platone a Heidegger, da Aristotele a Sartre, passando per Kant, Troeltsch, Jaspers), ha rinvenuto nel nichilismo, e quindi nel mondo che vive dopo la morte di Dio, la postrema possibilità di inverare la propria struttura, e con essa i suoi modi; di cogliere, cioè, l’occasione della caduta della presenzialità ipertrofica e deresponsabilizzante del Deus metaphysicus per metterci in cammino, asintoticamente, interminabilmente, verso quel Deus absconditus che è deserto, destrutturazione, esodo, vuoto, e che, proprio in virtù del suo strutturarsi come assente, permette all’uomo di costruirsi, di edificarsi in quanto uomo. Ma nichilismo è, evangelicamente, signum contradictionis, possibilità salvifica e possibilità annientatrice: il Nulla (il Nulla di Dio, paradossale condizione di un tempo paradossale) vive dialetticamente in rapporto col niente, con la possibilità che davvero niente sia, e che il mondo, in luogo di trasformarsi, redento, in κόσμος, sprofondi in un abisso di non-senso, di non-significazione, come se all’inizio non fosse davvero il Sinn, ma piuttosto, come temeva Nietzsche, Un-Sinn, mancanza assoluta di significazione, e non suo differimento, disseminazione continua, teofania impossibile dello Scomparso. Kierkegaard letto e interpretato nel segno di Caracciolo, dunque, come sfida ermeneutica, teoretica e al contempo esistentiva, perché, come ci insegna proprio il filosofo danese: “Solo la verità che edifica” – e che, aggiungeremmo noi, è tanto capace da accogliere in sé la sua stessa trasfigurazione – “è verità per te”.
Nicolò Germano (Savigliano, 1999) è attualmente dottorando del DREST (Doctoral Italian School of Religious Studies), con un progetto di ricerca incentrato sulla scuola filosofica genovese di Alberto Caracciolo. Ha recentemente pubblicato, per i tipi delle Edizioni dell’Orso di Alessandria, il volume Etica, religione e letteratura nel tempo del nichilismo. Un percorso kierkegaardiano, con una Presentazione di Isabella Adinolfi e di Roberto Celada Ballanti.