“Etica della comunicazione sanitaria” di Elisabetta Lalumera

Prof.ssa Elisabetta Lalumera, Lei è autrice del libro Etica della comunicazione sanitaria edito dal Mulino: quali scottanti questioni etiche e filosofiche solleva il tema della comunicazione sanitaria?
Etica della comunicazione sanitaria, Elisabetta LalumeraUna questione etica è una questione che le evidenze, i fatti, i dati non ci consentono di risolvere: occorre mettere in gioco i valori, cioè cosa si reputa importante, giusto, migliore, e cosa si preferisce. Nella comunicazione tra professionista sanitario e paziente, e tra istituzioni e cittadini, le questioni etiche sono innumerevoli, non solo nei contesti in cui ce le aspettiamo, ovvero l’inizio e il fine vita, o le tecnologie riproduttive, ma in ogni fase, dalla diagnosi alla scelta del trattamento alle modalità quotidiane di gestione. Per questo una formazione in etica – e in etica della comunicazione – va pensata come parte integrante della formazione di chi si occupa di medicina. Da un punto di vista molto generale, un primo tipo di questione etica è quella dell’equilibrio tra l’autonomia delle persone assistite e l’obiettivo di fare il bene, che è proprio del medico o dell’istituzione sanitaria.

L’autonomia è la capacità di decidere e agire essendo guidati dai propri valori e preferenze. Con un lungo viaggio concettuale dalla filosofia di Kant alla bioetica contemporanea, l’autonomia è diventata un principio fondamentale che informa le azioni della medicina, dalla ricerca alla comunicazione. Cosa succede quando i valori della persona assistita sono in conflitto con quelli della professionista sanitaria? Dove si ferma il dovere del medico di “fare il bene” del paziente? Il medico può cercare di orientare la scelta della persona in cura, con una comunicazione mirata, oppure deve restare neutrale rispetto a ciò che crede sia giusto fare? Come dicevo, il problema non si pone solo con le grandi questioni dell’inizio e del fine vita, ma in situazioni comuni in cui si tratta di decidere, per esempio, tra un trattamento invasivo e lungo, più aggressivo verso la malattia, e un approccio meno efficace ma che permette una migliore qualità di vita. Da un lato la professionista sanitaria deve rendersi conto che consigliare per l’una o l’altra alternativa è una questione etica, e non solo clinica. Dall’altro deve ricordare che il rispetto dell’autonomia non può essere una scusa per lasciare sola la persona assistita davanti a una scelta difficile. La riflessione bioetica permette appunto di comprendere che l’autonomia va messa in equilibrio con altri principi, come la giustizia, la benevolenza e la non-maleficenza, per usare il framework dell’etica dei principi di Beauchamp e Childress, che è il più usato nella letteratura medica. Ma l’autonomia, o meglio un certo modo di intenderla, può anche essere criticamente superata, come suggeriscono gli approcci femministi alla bioetica: non sempre agire come persona singola e slegata dal proprio contesto socio-familiare è ciò che la persona assistita reputa importante.

A livello di salute pubblica, la pandemia ci ha posto di fronte in modo drammatico alla rilevanza dell’autonomia: proprio questo è il principio che viene invocato, ad esempio, da chi è contrario alla vaccinazione. La questione si può porre ricorrendo al concetto di paternalismo. Nel famoso esempio del filosofo britannico John Stuart Mill, se vedo che un viaggiatore sta per attraversare un ponte pericolante per attraversare il fiume, posso impedirgli di procedere: questo sarà un intervento di paternalismo forte, in cui interferisco con i mezzi e anche con i fini del viaggiatore. Posso alternativamente spiegargli che il ponte è pericolante, suggerendogli un’altra strada, lasciando intatta la sua possibilità di raggiungere il suo fine, e questo sarà paternalismo libertario. Più sottile è il caso in cui rendo la strada che passa sul ponte difficile da trovare sulla mappa, o cancellando l’indicazione: qui la scelta del viaggiatore di passare sul ponte non è preclusa, ma diventa difficile. Così agiscono i nudge, le “spinte gentili” basate sulle ricerche di scienze cognitive, che sono molto presenti nella comunicazione sanitaria sia a livello del rapporto tra medico e paziente, che nell’interazione tra cittadini e istituzioni. I nudge funzionano perché sfruttano il modo, irrazionalmente imperfetto, in cui noi prendiamo decisioni, ad esempio scegliendo la soluzione più semplice, cercando vantaggi e ricompense, evitando punizioni. Tassare le bibite gassate e zuccherate, spostare in bella vista la verdura nella mensa scolastica sono nudge orientati a mangiare meglio e prevenire le malattie croniche dovute all’eccesso di alimentazione. Sono eticamente leciti? In che misura? Da un lato “fanno il bene” delle persone, dall’altro limitano in alcuni aspetti la completa autonomia. Occorre riflettere, naturalmente, sulla differenza tra situazioni in cui il nudge agisce solo sui mezzi e quelle in cui anche i fini della persona sono in qualche modo orientati dal medico o dall’istituzione. Nonché sull’ importanza dei fini: stato sostenuto ad esempio che i nudge per spingere le persone a vaccinarsi – il green pass è il più estremo – sono eticamente giustificabili proprio in ragione dell’importanza del fine, cioè la salvaguardia della vita di molte altre persone.

Una terza questione aperta dalla comunicazione sanitaria riguarda il ruolo degli esperti medici sui media. Se la pubblicazione di articoli e l’espressione di opinioni è fortemente regolamentata negli ambiti scientifici, non lo è altrettanto in televisione, su Twitter e gli altri social media. Chi può dirsi esperto e cosa può comunicare? Tutti ricordiamo il caso Stamina, in cui un tribunale della Repubblica ricusò una commissione di esperti nominata dal Ministero della Sanità perché non era “imparziale” (questo episodio è analizzato nel capitolo 4 del mio libro). L’epistemologia contemporanea ha riflettuto negli ultimi decenni sulla nozione di expertise e può dare alcune coordinate utili. I framework di bioetica ed etica medica di cui parlo nel primo capitolo possono fornire strumenti per orientare le azioni comunicative degli esperti negli ambienti non regolati, come appunto i social media.

Quali caratteristiche deve avere la comunicazione tra medico e paziente?
La comunicazione tra medico e paziente, è centrale per l’aderenza ai trattamenti e alle misure di prevenzione; lo sappiamo dalla letteratura scientifica, e appropriatamente la legge n. 219/2017 la qualifica come “tempo di cura”. La letteratura sul tema è molto vasta; qui vorrei ricordare che occuparsi di efficacia della comunicazione, o di empatia – il mitico ingrediente perduto che farebbe di ogni professionista un buon medico – è solo una parte dell’approccio al problema.

Pensare alla dimensione etica significa passare dal chiedersi come comunicare, al chiedersi perché delle scelte dei modi e dei contenuti comunicativi, ed essere in grado di renderne ragione. La bioetica fornisce alcuni quadri concettuali o framework – introdotti nel capitolo 1- che sono da intendersi come una cassetta per gli attrezzi per fare questo lavoro nella pratica clinica. Tra questi c’è l’etica dei principi di Beauchamp e Childress, che, come ho ricordato, è forse il framework più noto oggi, ma anche le etiche delle virtù e quelle femministe. Fatta questa premessa, vediamo brevemente alcuni di questi concetti-strumenti.

Innanzitutto, la comunicazione tra professionista sanitaria e paziente rivela una situazione di “asimmetria epistemica”, in cui il medico è in possesso di più informazioni e competenze riguardo alla malattia, è un “esperto”, mentre la paziente detiene le informazioni rilevanti alla propria condizione: come si sente, come sta. Si commette ingiustizia epistemica quando si nega a un soggetto la titolarità a rappresentare la propria condizione e a parlare per sé stesso, tipicamente a causa di stereotipi negativi verso la categoria a cui esso appartiene (donne, persone straniere, giovani, anziani, malati). La comunicazione etica tra medico e paziente dovrebbe mantenersi nell’equilibrio tra asimmetria epistemica e giustizia epistemica.

Ci sono dimensioni eticamente rilevanti della comunicazione tra medico e paziente anche riguardo al tempo e al luogo in cui questa avviene: qui entrano in gioco il dovere di non fare male, la prescrizione di fare il bene, e anche la giustizia, intesa come equa distribuzione di risorse.

Il libro infine prende in esame i concetti di veridicità, confidenzialità e consenso informato, che sono centrali nel Codice deontologico e nelle etiche mediche tradizionali. Lo scopo è mostrare che queste nozioni vanno problematizzate nel contesto di una decisione etica razionale condivisa in cui evidenze e valori concorrono, e non applicate ciecamente. Una meta-norma in cui insisto nella mia trattazione é quella del meritare la fiducia (trustworthiness): la fiducia è una relazione complessa, che riguarda nuovamente sia competenze fattuali che valori, e che nel rapporto tra medico e paziente diventa funzionale al raggiungimento degli obiettivi comuni. In una prospettiva in cui l’autonomia delle persone è centrale, essa va costruita e mantenuta da parte del professionista sanitario.

A quali principi deve ispirarsi la comunicazione delle istituzioni sanitarie?
Questo è un tema poco trattato, a confronto con la letteratura vastissima sulla relazione medico-paziente. Riassumendo, le norme della comunicazione rimandano ai concetti di accuratezza, veridicità, chiarezza. A queste va aggiunta la cornice etica propria della medicina, cioè il rispetto per l’autonomia, la non-maleficenza, la beneficenza e la giustizia (o vanno aggiunte, in alternativa, le virtù etiche della professione sanitaria, di cui parlo nel capitolo 1 e che sono un’alternativa all’approccio dei principi). Nuovamente, c’è poi la meta-norma del meritare la fiducia: solo con la fiducia delle persone a cui è rivolta la comunicazione delle istituzioni può raggiungere i suoi obiettivi. Nel libro approfondisco il caso dell’esitazione vaccinale: oggi molte studiose e studiosi, oltre a me, la spiegano facendo riferimento a un problema di fiducia che ha minato alla base la comunicazione. Ci sono poi “rischi etici” da evitare nella comunicazione delle istituzioni, ma anche nelle policy di salute pubblica, che vengono spesso dalla volontà di “fare il bene” senza scegliere i mezzi appropriati: ricordiamo la stigmatizzazione di categorie di persone (gli obesi, le persone con disturbi mentali), la moralizzazione di comportamenti legati alla salute, e il victim-blaming. Familiarizzarsi con i framework etici e sviluppare una sensibilità verso questi rischi permette a chi lavora nelle istituzioni sanitarie di evitarli e, in ultima analisi, a fare del bene senza fare male.

Quali accorgimenti devono adottare gli esperti nella comunicazione della salute?
Ci sono vari modi in cui un professionista medico può nuocere, anche quando si limita a pubblicare ciò che in buona fede ritiene vero: può alimentare speranze non adeguatamente fondate sull’efficacia di cure e farmaci; può creare ansia e panico nella comunicazione di rischi per la salute; innescare un effetto di recrudescenza delle opinioni contrarie (effetto backfire) con il criticare sarcasticamente o irrispettosamente posizioni che ritiene antiscientifiche (ad esempio le teorie cospirazioniste sui vaccini); può generare infine confusione e dubbio nel pubblico opponendosi al consenso della propria comunità scientifica di riferimento. Come evitare questi rischi etici? In sintesi, la specificità dei social media va compresa dagli esperti: i post hanno un pubblico potenzialmente illimitato (specie su Twitter), possono essere letti a distanza di tempo e fuori contesto, da persone il cui background non permette di lasciare un implicito. Inoltre, per gli esperti medici l’invito è quello di tenere conto dell’etica e delle virtù ideali della propria professione anche quando si posta sui social media. Il cosiddetto “professionalismo” non deve essere inteso come una limitazione della libertà professionale, ma come consapevolezza della dimensione etica della comunicazione come azione.

Elisabetta Lalumera (Bologna 1974) insegna Filosofia della Salute, Philosophy of Wellness e Questioni etiche nella Comunicazione sanitaria all’Università di Bologna. Ha lavorato all’università di Milano-Bicocca (2006-2020) e ha studiato a Bologna, Vercelli, Londra e Aberdeen. Filosofa del linguaggio per formazione, si occupa di analisi concettuale applicata alla medicina e, in passato, alla psicologia. In italiano ha pubblicato i libri Medicina e metodo sperimentale: un’introduzione filosofica (Bologna, Esculapio, 2021); Cos’è il relativismo cognitivo (Roma, Carocci, 2013); Cosa sono i concetti (Roma, Laterza, 2009); Pensare. Leggi ed errori del ragionamento (con A. Coliva, Roma, Carocci, 2006).

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