
Certo, c’è un’ultima scappatoia, che funziona come il retropensiero inconfessabile del piccolo borghese con la pancia piena: alla fine ne moriranno talmente tanti che il problema svanirà da solo. Anche qui bisogna parlare chiaro: io sono convinto che sia inutile aspettare uno shock malthussiano che tolga di mezzo le bocche da sfamare che ora sono in eccesso. Se proprio l’amore per la giustizia e il rispetto per la dignità umana non convincono, sarà più convincente forse pensare che gli affamati, prima di morire, insorgeranno. È sempre successo nella storia e oggi il richiamo della violenza, quando ormai non hai più nulla da perdere, è fortissimo. C’è un appunto di Sartre su questo che per me è illuminante: “nella fame lo schiavo morde il mondo del padrone e lo rivendica”. Per non parlare dell’agghiacciante monito steinbeckiano contenuto in Furore: “la linea di demarcazione tra fame e rabbia [between hunger and anger] è sottile come un capello”. Quindi, sì, io direi proprio la fame ci chiama tutti in causa.
Come è possibile tutelare il diritto fondamentale di ogni individuo a una adeguata nutrizione?
Questa è una domanda tecnica, che esige una risposta tipicamente giuridica. L’etica del cibo, per sua natura interdisciplinare, si occupa anche di ragionare su una speciale tutela come questa. Prima di tutto non è scontato considerare il diritto al cibo come un diritto umano fondamentale. Qui, senz’altro, un pensiero all’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 andrebbe fatto. È infatti su questa base che è nata la risoluzione 7/14 del 27 marzo 2008, con cui il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha afferma con chiarezza la necessità di introdurre il diritto umano al cibo. Ma le cose non sono così semplici. Affinché non rimanga un appello vuoto, il titolo a vivere liberi dallo spettro della malnutrizione è stato giustamente declinato nella forma del diritto-pretesa (claim-right): per ragioni di consistenza giuridica, diventa dunque necessaria la correlazione al dovere di qualcun altro, che sia tenuto ad un comportamento attivo nei confronti del titolare della pretesa. Detto in termini più semplici: se nessuno deve morire di inedia, è logicamente richiesta l’allocazione dell’obbligo di garantire cibo sufficiente per tutti; senza dimenticare che il portatore dell’obbligo così allocato deve essere accountable, cioè in grado di rendere conto della sua responsabilità, di fronte al titolare del diritto al cibo. A sua volta, quest’ultimo sarà incoraggiato a partecipare attivamente al processo, facendo innanzitutto valere la sua pretesa, dal momento che il suo titolo è giuridicamente eseguibile. Ciò detto, si deve scendere ancora più nello specifico. In effetti sono tre gli “scudi” protettivi che il diritto al cibo può innalzare a difesa degli affamati: 1) innanzitutto, la disponibilità (availability): vuol dire esigere una quantità di cibo sufficiente a garantire una vita sana e attiva. Sia che provenga da risorse naturali, sia che venga coltivato, cacciato, pescato o prodotto, il cibo deve semplicemente esserci ed essere acquistabile, sui mercati o nei negozi di alimentari; 2) poi, la questione rilevante è l’accessibilità (accessibility): non basta che il cibo ci sia, bisogna anche garantire che le persone riescono ad averlo. Concretamente, stiamo parlando di accesso economico e fisico, che sono poi le due componenti della cosiddetta Food Security. L’idea è che le persone devono potersi permettere l’acquisto di cibo, senza compromettere altri bisogni primari. Questo significa – cosa mai ovvia – garantire salari minimi e sistemi di protezione sociale efficienti. C’è poi la questione dell’accessibilità fisica: qui lo strumento del diritto al cibo si premura di tenere in conto anche le persone vulnerabili, come ad esempio i bambini, gli anziani, o le persone con disabilità, per le quali potrebbe in effetti non essere semplice comprarsi di che vivere; senza dimenticare chi vive in aree remote o in zone di guerra. 3) Infine, ultimo, ma non meno cruciale, il tema dell’adeguatezza (adequacy): è il punto in cui il diritto al cibo diventa più sensibile, più capace – cioè – di intercettare la singolarità del rapporto delle persone con il consumo alimentare, laddove diventa anche culturale. Lo sforzo è tenere nel giusto conto alcuni item soggettivi, come l’età individuale, le condizioni di vita, la salute, l’occupazione, e il sesso. Dettagli che possono evidentemente fare la differenza: ad esempio, se il cibo disponibile e accessibile è molto calorico, ma poco nutriente, non sarà adeguato, soprattutto per un bambino. Figuriamoci se non è garantito un livello sufficiente di salubrità alimentare (Food Safety): se il cibo è, ad esempio, contaminato da pesticidi, ormoni o sostanze incompatibili con il consumo umano, siamo ben lontani dall’adeguatezza. Infine, non è nemmeno adeguato quel cibo, che pure c’è (grazie – ad esempio – agli aiuti umanitari), ma non è culturalmente consistente, ovvero confligge con le abitudini alimentari di chi dovrebbe consumarlo.
Insomma, un diritto oltremodo esigente. Ma almeno così ci verrà il sospetto che la posta in gioco non è banalmente quella di riempire pance vuote. Fosse così, l’adeguatezza sarebbe una tutela superflua. E invece non lo è affatto, proprio perché “il diritto al cibo – come spiega la FAO – non è il diritto ad essere nutriti, ma primariamente il diritto di nutrire se stessi con dignità. Ci si deve aspettare che le persone soddisfino i loro bisogni, attraverso i loro sforzi e usando risorse proprie. Per farlo, occorre che ciascuno viva in condizioni tali da permettergli di produrre cibo o acquistarlo”.
Quali interventi sarebbero necessari per garantire quantità e qualità nell’alimentazione?
Il cibo è una merce assai strana, che naturalmente deve e può funzionare come un bene producibile e scambiabile, purché non ci dimentichiamo del nesso profondo che lega alimentazione e dignità umana. Credo che un buon punto di partenza per rispondere alla domanda sia partire da un dato: 1.300 miliardi di tonnellate all’anno. È questo lo sconcertante ammontare di cibo che si perde prima ancora di arrivare in tavola o che viene buttato via dai consumatori. Praticamente ⅓ dell’intera produzione agricola mondiale. E l’80% sarebbe ancora qualitativamente consumabile. Se mettiamo questo dato accanto ai numeri spaventosi della fame, come minimo è il caso di indignarsi. Se non fosse abbastanza raggelante, si potrebbe considerare l’impatto devastante sull’ambiente: è stato calcolato che, se fosse uno Stato, lo spreco alimentare sarebbe il terzo Paese per emissioni di gas-serra (3,3 miliardi di tonnellate di CO2). Dulcis in fundo, le proiezioni al 2050 sembrano disegnare una specie di incubo distopico: sprecheremo più del doppio di quanto facciamo oggi. Che fare? È il momento di essere creativi e concreti. Abbiamo due problemi, perdita e spreco, che esigono due soluzioni diverse: una tecno-scientifica e una educativo-culturale. Partiamo dalla questione della perdita di cibo lungo la catena agro-alimentare Consideriamo, ad esempio, il cibo che si deteriora per l’esposizione a svariati microbi o finisce divorato dagli insetti che prosperano nei silos di stoccaggio. Non serve immaginare scenari fantascientifici. La tecnologia per evitare questa perdita lungo il ciclo produttivo l’abbiamo ormai da anni: si chiamano biosensori, sintetizzati in laboratorio usando nanoparticelle, in grado di monitorare la qualità del cibo, raccogliere e inviare masse enormi di dati a sistemi informativi che, a loro volta, li processano a velocità umanamente impensabili, grazie all’implementazione dell’intelligenza artificiale. È un business in forte ascesa e assai promettente. Ma naturalmente questa è solo una faccia della risposta che possiamo dare. L’altra faccia, eticamente cruciale va di pari passo col chiedersi in che misura sia possibile garantire che i biosensori siano sicuri per la nostra salute e per l’ambiente. Il fatto è che non sono semplicemente organismi geneticamente modificati. Sono geneticamente progettati “da zero” in laboratorio, perciò si tratta di entità biologiche che non esistono in natura. Predire come si comporteranno le nanoparticelle, e in che maniera evolveranno una volta liberate nell’ambiente, non è affatto uno scherzo. C’è poi un dubbio di fondo, che mi pare il caso di non tralasciare: siamo sicuri che questa versione “beneficente” del capitalismo bio-tecnologico, capace di mettersi i guanti anti-spreco del rispetto ambientale e sociale, sia davvero meno sfruttatrice o ha semplicemente trovato un modo educato per continuare a divorare il pianeta, chiedendo educatamente il permesso?
Ora la questione degli sprechi. Sebbene le perdite di cibo si verifichino in ogni punto della catena produttiva, è ormai assodato che i consumatori finali fanno la loro considerevole parte. Vi è però chi ritiene poco efficace continuare a insistere sul peso, peraltro innegabile, dei comportamenti individuali, se lo paragoniamo, a livello macro, alle responsabilità decisamente maggiori delle istituzioni. Meglio, allora, agire per un cambiamento sistemico, piuttosto che fissarsi retoricamente sulle scelte micro, pur sbagliate, di chi si siede a tavola. La verità, però, è che queste scelte contano. A dirla tutta, sono proprio le famiglie dei Paesi industrializzati a sprecare di più. Il punto è capire bene perché così tanto cibo viene buttato via. E non è affatto semplice. L’elemento che colpisce di più è, forse, il gap frequente che si registra tra gli atteggiamenti, le intenzioni esplicite di sprecare meno, persino il senso di colpa nei confronti di chi muore di fame, e quelli che sono poi i comportamenti effettivi. Se, però, si scende nel dettaglio, si capisce subito che sarebbero tanti i margini di intervento educativo e di sensibilizzazione: dall’imparare come si fa la spesa, quanto si cucina, come si conservano e gestiscono gli avanzi. E magari capire bene che c’è una differenza tra l’etichetta “da consumare entro” (use by) e “preferibilmente entro” (best before): sembrerà strano, ma sono in molti a non sapere che la prima riguarda la salubrità del cibo, la seconda invece la sua qualità. Per finire all’aspetto eticamente più imbarazzante e cioè il fatto che la condivisione del surplus di cibo è ancora incredibilmente scarsa: mentre si sta agendo con grande sforzo su come agevolare la redistribuzione dei prodotti alimentari invenduti, le famiglie fanno ancora troppo poco. Così è chiaro che la lotta contro gli sprechi non è solo questione di comportamenti individualmente corretti; coincide con la partita dell’essere-in-comune. Tutt’altro che una banalità romantica. Ci costringe a interrogare da vicino le nostre abitudini alimentari, contrariamente al noto adagio del senso comune, secondo cui, dei gusti, sarebbe doveroso tacere.
Il sistema attuale di produzione alimentare è davvero sostenibile?
Detta marxianamente, finora sembra aver prevalso l’approccio industrialista standard, per cui la terra vale finché traducibile in equivalente monetario e perciò scambiabile. Wendell Berry era stato molto chiaro sulle conseguenze, già vent’anni fa: è come se l’agricoltura fosse diventata una parte del settore minerario.
Si estrae tutto quel che si riesce e poi, una volta esaurite le risorse, si passa al giacimento/terreno successivo. Come se, poi, si potesse andare avanti a spremere il pianeta all’infinito, mentre ormai lo sanno tutti che la dipendenza del sistema cibo da fonti energetiche non rinnovabili, come i combustibili fossili, oltre a inquinare, non durerà in eterno. Affrontare la questione dell’impatto dell’agro-industria sull’ambiente e, al rovescio, le conseguenze del degrado ambientale sulla produzione di cibo, sembra configurare – almeno a prima vista – un tipico dilemma simmetrico tra profitto e pianeta. Se intensifichiamo la produzione di cibo, perché vogliamo ad ogni costo guadagnare di più, e magari – perché no? – sfamare più persone, sfrutteremo così tanto l’ambiente che non avremo più terra disponibile per soddisfare il nostro duplice obiettivo di efficienza produttiva e di sostenibilità sociale. Per non parlare del fatto, ormai scientificamente documentato, che le emissioni antropiche di gas serra, causate per la maggior parte dall’attuale modello agro-industriale, sono responsabili del cambiamento climatico e che questo, a sua volta, rimbalza in modo devastante sulla produzione di cibo. Se, viceversa, decidiamo che è prioritario preservare l’ambiente, e ridurre così le emissioni di gas serra, dovremo optare per modelli industriali meno efficienti dal punto di vista produttivo; il problema è che questa decrescita non pare, a prima vista così felice: se ci ritroveremo con meno soldi in tasca, e – presumibilmente – con meno cibo, come potremo tutelare il diritto a vivere liberi dalla fame?
Varrebbe la pena riflettere sul fatto che l’attuale sistema produttivo, oltre ad essere ben lontano dall’obiettivo “fame zero”, sta più che contribuendo a spingerci oltre i cosiddetti confini planetari, cioè quello “spazio operativo sicuro”, in cui la vita sulla terra è possibile. Continuando così avremo un problema addirittura più serio che garantire il diritto umano al cibo: già adesso, se tutti consumassero al ritmo dell’impronta ecologica dell’Europa, avremmo bisogno di tre pianeti Terra. Figuriamoci se pensiamo le cose sul lungo periodo. Fortuna vuole che non abbiamo ancora superato il punto di non ritorno, al netto di chi si immagina già una nuova estinzione di massa. La verità è che non è impossibile ricalibrare l’economia, affinché la vita umana sulla terra sia, oltre che possibile, dignitosa, diritto al cibo compreso. L’idea è semplice: imitare il funzionamento degli eco-sistemi ambientali, in modo da creare un’economia rigenerativa e, perciò, più efficacemente distributiva. È proprio questa la scommessa rigenerativa dell’economia “circolare”, basata – per l’appunto – su sistemi ciclici, cosiddetti “a circuito chiuso”, in cui non si può più pensare di estrarre e produrre, senza – per così dire – ridare al pianeta qualcosa di quel che si è prelevato, reimmettendolo così nel circolo produttivo, a beneficio di tutti. Persino gli scarti dell’attività produttiva allora finiranno per contare, perché magari c’è margine di recuperarli, trasformandoli in risorse preziose, evitando che finiscano ammassati nelle discariche.
Come deve tradursi, dunque, nelle nostre scelte, un’autentica “etica del cibo”?
Molta della retorica politica di questi ultimi anni ha puntato tutto sulla figura del consum-attore, raccontandoci la favola che avrebbe fatto sentire la sua voce, attraverso il carrello della spesa. Ma la verità è che assomiglia di più a una simpatica marionetta, che continua a muoversi nel labirinto seduttivo del marketing, predisposto per fargli credere di essere il protagonista del cambiamento. Chi si misura con le questioni che l’etica del cibo solleva sa bene che è un po’ infantile – come ci ricorda Thomson, “sperare di salvare il mondo facendo meglio lo shopping”. Si dirà che è comunque meglio del consumo acefalo di massa o dello snobismo estetico del foodie, che poi non è altro che la versione post-moderna del raffinato buongustaio borghese; meglio sicuramente dell’ossessione voyeuristica di chi gode a postare foto di cibo sessualizzato su Instagram. Ma ancora non ci siamo, se non arriviamo a prendere la via di un’azione collettiva e coordinata, in grado di dare forma politica all’indignazione per quel genocidio silenzioso da cui siamo partiti. È probabile che quella voice comunitaria stonerà: vorrà dire che sarà stata una protesta autentica. Peraltro, basterebbe prestare orecchio: i contadini, almeno loro, lo stanno urlando da un pezzo. È almeno dal Summit Mondiale FAO del 1996 che ci provavano, con la loro idea fissa della sovranità alimentare. Non hanno mai smesso di dirlo: non può esistere sicurezza alimentare, se chi produce cibo non ha voce in capitolo nel modo in cui lo si deve produrre, nel rispetto della terra, degli animali, delle persone e delle culture. In fondo, era già tutto scritto in quella bella idea di cibo adeguato, che il diritto al cibo – come abbiamo detto – prevede nella sua complessa architettura giuridica di tutele. Ma ci voleva la voce indignata dei contadini perché capissimo che quell’idea è la chiave di tutto, semplicemente perché dietro quell’idea c’è la dignità delle persone.
Dunque è sempre la medesima questione di giustizia che l’etica del cibo tiene ferma: su questo non si fanno sconti. Sta di fatto che, da settembre 2018, la sovranità alimentare è diventata un diritto, incastonato dentro una dichiarazione nuova di zecca “I contadini e altre persone che lavorano in zone rurali hanno il diritto di determinare i propri sistemi alimentari e agricoli, essendo questo riconosciuto da numerosi Stati e regioni quale diritto alla sovranità alimentare. Questo include il diritto di partecipare ai processi decisionali sulle politiche alimentari e agricole e il diritto ad alimenti sani e adeguati, prodotti tramite metodi ecologicamente sicuri e sostenibili che rispettano le loro culture”. Io credo che occorra partire da qui. O possiamo dire addio al nostro spazio operativo sicuro. E, se succederà, sarà troppo tardi per tornare a quest’unico punto di partenza che ci resta. Per noi e per le generazioni che verranno.
Paolo Gomarasca è professore ordinario di Filosofia morale alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fa parte del comitato direttivo del Transdisciplinary Research on Food Issues Center (TROFIC) e del Centro di ricerca Relational Social Work (RSW) della medesima Università. È membro del Forum Lacaniano in Italia (FLAI) e dell’Internationale des Forums du Champ Lacanien. Tra le sue pubblicazioni: Enjeu cartésien et philosophie du corps (Peter Lang 2012), Con l’inchiostro e il pennello. Lacan e Shiato (Mimesis 2017).