
Non esiste però un’unica declinazione del nesso tra letteratura ed esilio e nemmeno esiste una qualità specifica dello scrittore esule, dal momento che nel tempo l’esperienza dello sradicamento è stata affrontata in testi e generi diversi, che hanno adottato soluzioni linguistiche e letterarie eterogenee; esistono però dei paradigmi che si sono consolidati nel tempo, hanno nutrito la scrittura degli esuli, che siano essi scrittori o che lo diventino proprio per raccontare e archiviare l’esperienza della lontananza forzata, hanno legato le esperienze le une alle altre e dato un senso alla vicenda dei singoli attraverso l’esistenza di una storia collettiva che ha attraversato i secoli. Nel tempo si è costruito un linguaggio all’esilio, una memoria condivisa che, anche se ora risulta per certi versi inattuale e inadatta di fronte alla proliferazione mondiale di situazioni di memoria e di scrittura anche slegati del tutto dalla tradizione occidentale e di modalità di archiviazione profondamente diverse, ha fornito un modo, avvalorato dalla tradizione e da una storia millenaria, per raccontare, esprimere, comprendere l’esperienza dell’esilio. D’altronde molto presto, fin dalla tradizione biblica, il linguaggio alla base del racconto dell’esilio reale è stato utilizzato anche per descrivere esperienze di alienazione metaforiche, non necessariamente connesse con situazioni di effettivo sradicamento.
I capitoli del libro cercano di indagare questa gamma complessa di riferimenti, seguendo solo in parte un percorso cronologico tra i testi; l’obiettivo è quello di individuare le costanti, le riprese, ma anche le sfasature del racconto dell’esilio, di cogliere le specificità legate alla scrittura femminile o a situazioni particolari, di verificare le trasformazioni della scrittura, dei generi letterari, delle soluzioni retoriche.
Le molteplici letture e le diverse domande rivolte ai testi evidenziano il carattere necessario della scrittura in esilio, all’origine della sua universale fortuna.
Quali ricorrenti paradigmi ha originato dall’antichità a oggi?
Il paradigma biblico suggerisce l’idea dell’esilio come esperienza che punisce il peccatore, ma che nello stesso tempo lo mette nella condizione di purificarsi per riavvicinarsi a Dio. Fin dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, l’esilio è dunque una punizione inflitta all’uomo che ha peccato, che però può riscattarsi nella lontananza e tornare nella grazia di Dio; la fine della cattività babilonese nella Bibbia è salutata come il momento della riconciliazione tra Dio e il popolo eletto che nella lontananza dell’esilio ha scontato la sua pena e che può dunque essere riammesso alla grazia del signore. In Dante questo paradigma biblico diventa la chiave di volta per trasformare il suo esilio reale da esperienza punitiva inflitta dagli uomini in manifestazione del favore divino; nell’isolamento e nell’allontanamento dalla corruzione di Firenze, Dante può acquisire il profilo di un poeta sacro che non nonostante il suo esilio, ma proprio grazie ad esso può testimoniare quello che ha visto e può raccontare all’umanità la sua verità, opposta a quella delle gerarchie ecclesiastiche.
Il lascito più significativo che la cultura classica fornisce alla tradizione successiva è la lezione stoica dell’esilio come evento che non può turbare il saggio, la cui virtù e saggezza rimangono indifferenti ai colpi del destino. È il lascito del Seneca della Consolazione alla madre Elvia e del Cicerone oratore e uomo pubblico che se, nelle lettere familiari, lamenta la tristezza della lontananza da casa, nei discorsi pubblici tenuti dopo il ritorno a Roma esalta la forza d’animo e l’amore per la patria che hanno trasformato il suo esilio in un atto voluto di eroico sacrificio. Dal Rinascimento al Risorgimento questa lettura stoica dell’esilio radicata nella tradizione alimenta una letteratura che sovrappone le ragioni pubbliche dell’esilio alle conseguenze individuali dello stesso.
D’altronde è sempre la letteratura latina ad alimentare anche un paradigma intimo inaugurato soprattutto dall’Ovidio dei Tristia che propongono una visione antieroica dell’esilio, come una punizione tragica che colpisce l’individuo privato dei suoi riferimenti, degli affetti familiari, delle abitudini domestiche e del riconoscimento dei suoi concittadini e lo proietta in un’esistenza di solitudine e di disagio. Questo filone riaffiora in tanti autori della tradizione che esplorano tutta la gamma di sofferenza suscitata dalla perdita dei riferimenti.
Se in Dante si deposita dunque, assieme alla memoria della tradizione biblica, anche quella classica, l’autore diventa a sua volta un formidabile creatore di nessi e citazioni, un modello la cui forza risuonerà potente quando l’esilio, nell’Ottocento, diventerà un’istituzione fondativa dell’identità patriottica italiana; nell’Ottocento, tramite anche la mediazione di Foscolo e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, la scrittura diventa una risorsa fondamentale per raccontare, trasformare, rendere eroico l’esilio. La fioritura di generi come biografie, storie patrie, memorie, agiografie servono anche a costruire una genealogia di esuli illustri che con il loro esempio danno senso al sacrificio di tanti patrioti che trascorrono interi decenni lontani dalla patria. E l’esilio diventa anche un tema poetico di grandissimo successo, al centro di tanti componimenti scritti e pubblicati dai letterati italiani esuli in tutta Europa.
Come si struttura il vocabolario minimo dell’esilio letterario?
Nella scrittura dell’esilio esistono delle costanti e degli elementi ricorrenti.
Il tema della partenza, dell’attraversamento del confine e del viaggio sono quasi sempre presenti nelle narrazioni autobiografiche. Al momento del viaggio, soprattutto nel passato, quando all’aspetto psicologico si sommavano le difficoltà degli spostamenti, è dedicato un grande rilievo, perché esso rappresenta l’inizio dell’allontanamento e della perdita. Anche il confine è un momento emblematico del viaggio e quindi del racconto, soprattutto nelle epoche anteriori agli spostamenti aerei; il passaggio della frontiera significa uscire da un orizzonte noto per approdare verso l’ignoto; è un momento epocale perché comporta il fatto di entrare in uno spazio indeterminato, dove si diventa stranieri, se non lo si è già in patria, e dove l’individuo si confronta con un orizzonte sconosciuto. È qui che la scrittura diventa centrale, come momento di elaborazione dell’esperienza, espressione di un disagio e costruzione di nuovi riferimenti.
Per un esule il confine implica forzatamente una riflessione sull’identità, sulla perdita, sulla lingua; quasi mai, per gli esuli vittime di repressioni, il superamento della frontiera è vissuto come una possibilità, ma molto più come rituale tragico di passaggio e come un segno dell’esclusione; per questo la cronaca del superamento della frontiera ha sempre tonalità drammatiche; esso diventa un elemento narrativo che ha un ruolo centrale nello sviluppo del racconto, grazie al suo valore simbolico che nel momento in cui apre a un orizzonte esistenziale nuovo, all’esperienza dell’alterità e dell’allontanamento, costringe a un bilancio di tutta l’esperienza passata.
Nel vocabolario di base dell’esilio anche la riflessione sulla lingua diventa un momento centrale.
In epoca moderna e contemporanea, il problema linguistico è uno dei nodi cruciali dell’esilio, perché la rinuncia obbligata alla lingua materna o di appartenenza culturale è il primo segno di perdita di identità, come rilevano in modo esplicito gli esuli risorgimentali ma anche tanti scrittori novecenteschi, che riflettono consapevolmente sul rapporto tra lingua e identità.
Per gli scrittori, abbandonare una consuetudine comunicativa e i propri lettori ed essere costretti a scrivere in un’altra lingua comporta una ridefinizione del proprio profilo di scrittore o di scrittrice, con conseguenze decisive nella produzione letteraria; anche mantenere la propria lingua in assenza del pubblico di lettori di riferimento, del mercato editoriale e del tessuto umano e culturale consueti si configura come una scelta che finisce per condizionare l’intero processo comunicativo, la scrittura, la lingua, i generi.
Nel Novecento e fino ad anni recenti, la lingua diventa un elemento cardine attorno a cui si definisce il profilo degli esuli scrittori; se la necessità o l’opportunità di rinunciare alla lingua materna provoca in genere un trauma che può avere conseguenze diverse e approdare anche al silenzio, l’assunzione di una nuova lingua può essere vissuta anche come un momento di crescita, di sfida e assunzione di un’identità alternativa che compensa la perdita con molteplici risvolti. Moltissimi sono gli scrittori del Novecento che scrivono in un’altra lingua e inaugurano dopo l’esilio nuove modalità di scrittura, mentre per altri la fedeltà alla lingua materna diventa una forma di resistenza irrinunciabile.
Infine nella letteratura dell’esilio non può mancare il tema del ritorno. Se il ritorno in patria è al centro dei pensieri dell’esule fin dalla partenza, quasi mai però la fine dell’esilio significa ritrovare le condizioni di vita che si erano dovute abbandonare; anzi il ritorno comporta una ridefinizione del proprio rapporto con il distacco, l’assunzione di una diversa relazione con il mondo che ci si è lasciati dietro le spalle e che si scopre, una volta tornati nei luoghi d’origine, necessariamente cambiato.
La scrittura dell’esilio registra spesso la delusione che segue il ritorno a casa e il sentimento di estraneità che si impossessa di chi rivede, dopo anni di attesa e di nostalgia, i luoghi che sono stati abbandonati per forza e drammaticamente tempo prima.
Nel libro Lei dedica uno spazio specifico alle scrittrici: quali tensioni fa emergere in loro l’esilio?
Nella scrittura delle donne si sommano le conseguenze linguistiche e culturali dello sradicamento alla fragilità dello statuto autoriale femminile all’interno della tradizione letteraria. Se l’approdo alla scrittura per una donna fino al XX secolo è già una conquista, l’esilio può innestare una duplice reazione: può stimolare la scrittura per archiviare l’esperienza in una situazione diversa che favorisce la costruzione di una nuova identità e l’acquisizione di una autorialità autonoma, ma può anche accentuare la dimensione di esclusione connaturata alla storia delle donne e limitare ulteriormente l’accesso alla scrittura.
Nella scrittura femminile assumono un significato diverso categorie come patria, nazione, tradizione linguistico-letteraria; la patria può essere un tema condiviso che permette alle scrittrici di essere parte di un clima culturale, come avviene nel Risorgimento italiano, quando molte autrici dedicano versi alla nazione. In anni più recenti le scrittrici hanno però creato categorie alternative alla patria, declinandola al femminile o rifiutando l’idea stessa di una patria tradizionale, nella quale non si riconoscono. Un’idea problematica di patria e quindi di appartenenza è infatti connaturata forse più alla dimensione femminile che a quella maschile e innesta un rapporto ambivalente con la tradizione letteraria e con la lingua che può essere rimpianta e inseguita, ma anche rifiutata, mediata e superata.
Non è facile rintracciare delle costanti, all’interno di un arco cronologico tutto sommato ristretto, visto che le scrittrici esuli appartengono soprattutto, anche se non solo, alla modernità sette-otto e novecentesca; il difficile accesso alla scrittura per le donne nei secoli passati, unito alle circostanze eccezionali dell’esilio, limita nella tradizione la presenza di testimonianze scritte, soprattutto letterarie. Ci sono però degli elementi che caratterizzano in modo specifico l’ambito della scrittura dell’esilio femminile.
Innanzitutto un elemento comune è il rapporto ambivalente con la tradizione letteraria, percepita come familiare ed estranea allo stesso tempo, un elemento identitario debole per la scarsa presenza femminile e l’assenza di modelli, ma un riferimento comunque imprescindibile per raccontare l’esilio. Anche Madame de Staël, per quanto consapevole dell’eccezionalità della sua storia, non può non rievocare gli autori che l’hanno preceduta e con i quali finisce per confrontarsi. Lo stesso atteggiamento ritroviamo in Cristina di Belgiojoso che nel corso del suo esilio in Turchia assume una prospettiva femminile, autonoma dai retaggi della tradizione orientalistica dominante.
Un’altra costante della scrittura femminile dell’esilio riguarda l’insistenza sul significato metaforico dell’esilio inteso come esclusione anche indipendentemente da una situazione di dispatrio; è un fenomeno, come abbiamo già avuto modo di osservare, molto diffuso soprattutto nella modernità, ma che nel caso delle scrittrici è amplificato dalla marginalità culturale delle donne che può sommarsi o sovrapporsi alle circostanze dell’esilio vero e proprio.
Infine un altro filo conduttore, che riguarda anche questo maggiormente gli ultimi due secoli più ricchi in assoluto di testi di donne, è l’uso della scrittura come protesta, all’interno di un contesto in cui le costrizioni del dispatrio si sommano alle problematiche legate alla condizione femminile; in questo caso le rivendicazioni dell’esule si giustappongono a quelle tradizionali delle donne e creano una sinergia che dà più forza al discorso. Quasi sempre, infatti, con un incremento notevole nel corso degli ultimi decenni, la letteratura dell’esilio femminile affronta problematiche di genere, che si sommano a quelle politiche o etniche o religiose o economiche responsabili dell’allontanamento dalla patria.
Che modelli assume il tema dell’esilio tra il Novecento e l’inizio del terzo millennio?
Alle soglie del Novecento il rapporto tra esilio e scrittura è difficilmente riconducibile a percorsi omogenei. Esiste innanzitutto una moltiplicazione a livello globale delle esperienze di dispatri, diaspore, sconfinamenti, all’origine di risposte linguistico-letterarie solo parzialmente riconducibili alla tradizione occidentale e soggette a contaminazioni e sperimentazioni che investono il quadro artistico letterario della modernità e che sono tanto più significative per il linguaggio altamente metaforico dei significati dell’esilio. A complicare un quadro già complesso e ricco di intersezioni, va ricordato che gran parte della letteratura del XX secolo è extraterritoriale, non ha una netta matrice nazionale. Esistono inoltre molti testi in cui l’esilio non è esperienza biografica alla base di una scrittura testimoniale o che affronta il tema dell’espatrio, ma è declinato nei termini di una condizione esistenziale, che si avvale del linguaggio letterario per esprimere il disagio nei confronti di una società percepita come costrittiva e vincolante o per dare voce a esperienze di solitudine e sradicamento. Nel ventesimo secolo l’esilio è infatti una categoria culturale che racconta, a volte ancora attraverso l’immaginario letterario tradizionale dell’esilio stesso e il suo vocabolario di base o tramite l’esplorazione di linguaggi e generi diversi, una condizione di alterità rispetto alla società di appartenenza che può prescindere da un’effettiva condizione di dispatrio. D’altronde anche nei casi in cui esiste una relazione tra esilio biografico e scrittura, l’immaginario della tradizione che si è consolidato nel corso dell’Ottocento fino a coincidere, soprattutto in epoca di nazionalismi e conflitti politici, con la dimensione eroica e romantica dell’esule radicata nelle culture occidentali, non è più in grado di dare una risposta a tutte le diverse forme che l’esperienza dell’allontanamento dalla patria ha assunto nella modernità.
Non è possibile dunque definire lo stato attuale della letteratura legata all’esilio, in un momento in cui le esperienze e le situazioni si moltiplicano e il legame con la tradizione letteraria di fronte alla globalizzazione è diventato ancor più inessenziale. Alcune questioni si pongono però al centro del discorso come il rapporto tra memoria e oblio, un tema diventato centrale soprattutto per le testimonianze relative alle persecuzioni contro gli ebrei nel Novecento, in cui, di fronte all’enormità della tragedia, la volontà di testimonianza si associa sempre al silenzio come unica opzione possibile. Oppure il tema della insufficienza della retorica tradizionale e dei linguaggi per esprimere un’esperienza complessa come quella dell’esilio che si può avvalere anche di forme sperimentali di comunicazione, performance, installazioni, contaminazioni tra generi letterari, intrecci di linguaggi.
La pluralità di testimonianze e di forme retoriche mostra comunque la necessità, di cui ho parlato all’inizio, da parte di uomini e donne, di raccontare e archiviare l’esilio, in tutte le epoche e con tutti i mezzi espressivi a disposizione.
Silvia Tatti insegna Letteratura italiana alla Sapienza – Università di Roma. Tra le sue pubblicazioni: Le Tempeste della vita. La letteratura degli esuli italiani in Francia nel 1799 (1999), L’antico mascherato. Roma antica e moderna nel Settecento: letteratura, melodramma, teatro (2003), Il Risorgimento dei letterati (2011), Poeti per musica. I librettisti e la letteratura (2016).