“Esuli e migranti nel Regno sardo. Per una storia sociale e politica del Risorgimento” di Ester De Fort

Prof.ssa Ester De Fort, Lei è autrice del libro Esuli e migranti nel Regno sardo. Per una storia sociale e politica del Risorgimento, edito da Carocci: quali dimensioni assunse, nel decennio successivo alle rivoluzioni del 1848-49, il fenomeno dell’arrivo di esuli nel Regno di Sardegna?
Esuli e migranti nel Regno sardo. Per una storia sociale e politica del Risorgimento, Ester De FortA partire dalle sconfitte della Prima guerra di indipendenza e in particolare dalla caduta di Milano in mano agli austriaci, la notte del 6 agosto 1848, si riversò sul territorio sardo un’imponente ondata di emigrati politici, per lo più provenienti del Lombardo-Veneto e dei Ducati. Erano civili in fuga dalla temuta repressione, spesso con le loro famiglie, e militi delle truppe lombarde, che trovarono momentaneamente riparo presso edifici religiosi, istituti scolastici, e persino sotto i portici della Capitale. La sconfitta di Novara rese definitivo l’esilio per molti di loro, soprattutto disertori dell’esercito, anche se altri approfittarono delle amnistie austriache per rimpatriare. A questi flussi si aggiunsero quelli provenienti dagli altri Stati italiani, e dai paesi del bacino del Mediterraneo dove avevano trovato in un primo momento riparo molti di coloro che erano fuggiti dalle Due Sicilie, da Roma e da Venezia dopo la caduta delle due repubbliche. Giunsero pure esuli ungheresi e polacchi, in genere disertori dalle truppe asburgiche, e francesi, a seguito della fallita manifestazione contro la spedizione per soffocare la repubblica romana o dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone.

Gli arrivi continuarono così per tutto il decennio successivo al 1848, ma furono numerosi anche gli allontanamenti, dovuti alle difficoltà di trovare una sistemazione e, talora, alle espulsioni da parte delle autorità sabaude. Per questo è difficile quantificare con precisione il numero degli “emigrati” (come furono chiamati). Il governo non riuscì a contarli, dal momento che molti si sottraevano ai controlli, altri andavano e venivano dal territorio. Abbiamo in proposito solo alcune testimonianze di osservatori dell’epoca, che parlano, agli inizi, di centomila, o addirittura di 300.000 rifugiati. Nei primi mesi del 1851, secondo il ministro degli Interni, erano presenti 48.000 esuli, e nel giugno lo stesso Massimo d’Azeglio informava confidenzialmente un amico che essi erano circa 40.000, dopo “lo smaltimento naturale di questi disgraziati”. Si trattava di cifre ipotetiche la cui entità trova tuttavia indirettamente conferma nello schedario approntato dall’abate Carlo Cameroni, vicepresidente di un comitato per i soccorsi all’Emigrazione istituito dal governo, che nella sola prima serie (delle tre di cui è composto) contiene quasi 10.000 fascicoli nominativi, alcuni dei quali riferiti a più di un individuo. Il fenomeno fu quindi imponente, soprattutto se si tiene conto del fatto che la popolazione del regno sardo contava, all’epoca, meno di cinque milioni di abitanti.

Quali azioni intraprese il governo sardo nei confronti di tale presenza?
La presenza numerosa degli emigrati costituì un grosso problema per il governo sardo, che cercò di soccorrerli, dando veste formale al comitato sorto a questo proposito per iniziativa spontanea degli esuli stessi, tra cui si distinse per energia e capacità organizzativa l’abate Cameroni. Furono previsti dei sussidi in denaro, concessi in un secondo momento solo a quanti potevano dimostrare di aver perduto una “posizione di fortuna o di impiego”, e molti furono indotti ad arruolarsi o furono assunti in impieghi pubblici. Dopo Novara tuttavia, per il ridimensionamento degli organici a causa delle precarie condizioni del bilancio, molti si trovarono senza occupazione e furono costretti a cimentarsi con le difficili condizioni del mercato del lavoro dell’epoca. Quanto ai problemi di ordine pubblico creati dagli emigrati, enfatizzati dalla stampa conservatrice e clericale, pur se non si può negare che in una massa così ampia vi fossero individui dalla dubbia moralità, dediti per sopravvivere a truffe, latrocini, “questue moleste”, non sono riscontrabili nel regno significativi incrementi della criminalità comune, stando alle statistiche dell’epoca. Agli occhi delle autorità, l’ordine pubblico appariva minacciato soprattutto da un nucleo combattivo di esuli repubblicani, che non si rassegnarono alla sconfitta, e cercarono di provocare o partecipare a sollevazioni e rivoluzioni: sin dalla fine del 1848 essi ebbero parte attiva nei tumultuosi circoli di Genova, gridarono contro il “tradimento” dei piemontesi attribuendo loro la responsabilità della sconfitta, e persino dopo Novara cercarono di indurre le truppe lombarde a ribellarsi alla resa. Nel febbraio del 1853 un gruppo di loro cercò di sconfinare in Lombardia con un carico di armi (e con la complicità di politici subalpini di un certo peso, come Depretis), per venire in soccorso al moto scoppiato a Milano, e ancora negli anni seguenti tramarono per favorire rivolte nel regno delle Due Sicilie. Ciò mise spesso in imbarazzo il governo sardo, guardato a vista dall’Austria e poi dalla stessa Francia. La risposta a questi tentativi fu in genere durissima, con espulsioni e deportazioni che coinvolsero non solo attivisti ma anche individui ritenuti dei poco di buono, e disoccupati, qualificati come “oziosi”. Tuttavia, di fronte al sequestro dei beni degli emigrati, alcuni dei quali avevano ottenuto la cittadinanza sarda, posto in atto dall’Austria come risposta al moto milanese, l’esecutivo decise di intervenire stanziando una somma per risarcire questi ultimi: mossa che guadagnò a Cavour molti consensi, salvo quelli dei repubblicani, i quali sottolinearono che ad avvantaggiarsi della misura erano solo i favorevoli alla politica piemontese. Verso la fine del decennio, lo statista guardò inoltre con interesse ai progetti per suscitare iniziative rivoluzionarie nel resto d’Italia.

In che modo tale fenomeno contribuì a orientare la politica del governo sardo in senso nazionale?
La propaganda incessante degli esuli, sin dai primi momenti della loro venuta, attraverso organi di stampa amici o da loro fondati, fu un elemento importante, accanto alla volontà di rivincita di Carlo Alberto, nel favorire la ripresa della guerra con l’Austria, nonostante le forti opposizioni in seno all’esercito e alla stessa popolazione piemontese. Dopo la disastrosa sconfitta, Azeglio, presidente del Consiglio dal maggio 1849, ritenne che la sopravvivenza delle istituzioni liberali passasse attraverso un’azione politica energica, che tenesse a freno gli emigrati ostili alla politica piemontese, anche con provvedimenti lesivi del loro diritto di espressione, sino all’incarceramento e all’espulsione, ed evitasse il prevalere delle forze favorevoli all’appeasement con l’Austria, rafforzate da episodi come la rivolta di Genova del 1849 e il moto rivoluzionario scoppiato in conseguenza a Lerici e Sarzana. Fu pertanto respinta la proposta avanzata dai deputati democratici di concedere la cittadinanza agli esuli italiani dimoranti nello Stato, giungendo sino a legare a questo il voto per ratificare il trattato di pace. La sconfitta della Sinistra alle elezioni del novembre 1849 fece abbandonare infondate speranze di ripresa della guerra ma favorì, nel contempo, la collaborazione tra governo ed esuli moderati, consapevoli che il mantenimento del regime costituzionale faceva del regno sabaudo un punto di riferimento ineludibile per quanti aspiravano a un mutamento della situazione politica italiana. Anche tra i repubblicani, nel contempo, che vennero raccogliendo l’appello di Manin (dalla Francia) e del suo sodale Giorgio Pallavicino dal Piemonte, si fece strada la convinzione che solo quest’ultimo aveva la forza necessaria per liberare il Paese dal dominio asburgico e dai sovrani reazionari, in collegamento con l’azione popolare. Premessa dell’allineamento alla politica sabauda furono l’impresa di Crimea, cui accorsero, arruolandosi, molti esuli (alcuni dei quali però con l’intento di avvalersene per suscitare iniziative rivoluzionarie), e il famoso discorso di Cavour al ritorno dal congresso di Parigi, nel quale ribadì di aver portato la questione italiana all’attenzione dell’Europa, assumendo con queste parole un chiaro impegno di fronte all’opinione pubblica e agli emigrati. Lo statista aveva del resto compreso che le riforme avviate nel regno sardo abbisognavano di un ampio consenso e che solo una politica nazionale poteva garantirgli l’appoggio delle forze democratiche, subalpine e italiane. Il fallito moto di Genova, nel 1857, cui parteciparono alcuni esuli, rappresentò l’ultimo tentativo mazziniano di frenare l’orientarsi in senso filosabaudo della maggioranza degli emigrati, che furono pronti, al profilarsi della Seconda guerra di Indipendenza, ad accorrere in massa tra le fila dell’esercito sardo e dei volontari, nonostante dubbi e sospetti non sopiti sulle intenzioni piemontesi, che si temeva fossero principalmente espansionistiche.

Quali erano il profilo socioculturale dei fuoriusciti e le motivazioni del loro arrivo?
Attraverso l’elaborazione di un campione di dati particolarmente significativo, concernente 7.850 emigrati italiani, individuati nello schedario approntato dall’abate Cameroni, e inoltre da epistolari, memorie e altre fonti, mi è stato possibile ricostruire con buona approssimazione il profilo degli emigrati approdati nel regno, la provenienza, la partecipazione alle vicende del 1848-1849, la professione esercitata in precedenza e le loro vicende una volta giunti, a partire dalla ricerca del lavoro. Nonostante le informazioni sulla maggior parte di essi siano piuttosto scarne, e talvolta anche tendenziose, provenendo da fonti poliziesche o da informatori dello stesso Cameroni, è stato possibile ricostruire il quadro complessivo della loro esperienza. La maggior parte degli emigrati proveniva dal Lombardo Veneto, e in particolare dalla Lombardia, ma erano numerosi anche quelli provenienti dai diversi Stati, accanto a un piccolo nucleo di nati nel Tirolo asburgico e nel litorale dalmatico.

Quasi la metà degli individui del campione apparteneva al mondo dei mestieri, dei servizi manuali e del commercio al minuto. La cosa è spiegabile con l’alto numero di disertori dalle truppe austriache, ma anche con la penetrazione del patriottismo tra i ceti popolari, che è attestata pure da numerose testimonianze scritte, rintracciabili tra le carte d’archivio e in altre fonti. L’altra metà del campione è costituita da quelli che si definiscono “ceti colti”, coinvolti in grande misura dalle rivoluzioni del 1848-49, cioè professionisti, funzionari, insegnanti, magistrati, possidenti, artisti, impiegati (o aspiranti tali), studenti, commercianti, imprenditori, artisti, ed ecclesiastici. Si può notare inoltre un certo numero di acattolici, che poterono godere nel regno di diritti riconosciuti dalle leggi del 1848.

Per la grande maggioranza degli emigrati è stato possibile trovare indicatori della loro partecipazione alle vicende del 1848-49 o comunque di una militanza patriottica, anche se il loro arrivo non fu sempre dovuto alla necessità di sfuggire a condanne o persecuzioni. Alcuni si trasferirono semplicemente per godere di un clima di maggiore libertà che in patria; talora furono spinti da esigenze più prosaiche, come, per gli studenti, la volontà di fruire dei provvedimenti di favore concessi agli universitari esuli come l’esenzione dal pagamento delle tasse, o, per altri, la ricerca di un lavoro, la necessità di sfuggire alla leva, ai creditori o alla tutela della famiglia. Con questo non sarebbe corretto negare qualsiasi valenza politica alla loro decisione, dato l’intreccio di ragioni che è in genere alla base di ogni scelta migratoria. Inoltre, gli obiettivi che gli emigrati si posero al momento della partenza non rimasero sempre inalterati nel tempo: alcuni finirono con l’abbandonare, anche se talora solo provvisoriamente, l’attività politica, per concentrarsi sulla ricerca dei mezzi per sopravvivere, mentre altri intrapresero un percorso inverso, a contatto con compatrioti più politicizzati.

Come si svolgeva la vita quotidiana dei fuoriusciti e quali erano i rapporti con la popolazione?
Per la maggioranza degli emigrati, la vita quotidiana era dominata dalle preoccupazioni economiche. Anche i più abbienti finirono con il risentire delle conseguenze dell’esilio, dal momento che furono privati degli introiti delle professioni e degli impieghi esercitati in patria, i loro beni furono spesso sequestrati, e i creditori approfittarono della loro situazione per venir meno ai propri impegni.

La ricerca di occupazione e di introiti fu quindi una delle attività principali cui si dedicarono. Il governo e anche le autorità locali vennero loro incontro offrendo impieghi, tanto da suscitare le critiche di conservatori e reazionari che li accusarono di privilegiare gli emigrati a scapito dei nativi. In effetti molti degli esuli erano forniti di un notevole capitale culturale, e un certo numero riuscì a inserirsi nell’insegnamento e nelle professioni, senza contare l’ascesa di alcuni in posizioni di vertice, in Parlamento, nel governo, nella burocrazia o all’università. Nel mio libro ho dato conto della capillare penetrazione degli esuli nel tessuto lavorativo ed economico del regno: anche il mondo dei mestieri assorbì gli emigrati, e i meno fortunati trovarono lavoro nei lavori pubblici, fortemente stimolati da Cavour. La costruzione di ferrovie e opere pubbliche in genere impiegò numerosi emigrati quali manovali, ma anche quali ingegneri e tecnici. D’altro canto, data la situazione del mercato del lavoro dell’epoca, le occupazioni erano spesso precarie e ciò costringeva a spostarsi in cerca di lavoro: una condizione comune ai lavoratori autoctoni, ma che nel caso degli emigrati li esponeva all’espulsione come “oziosi” e “vagabondi”. Incidenti e malattie erano inoltre frequenti, con conseguenze gravi soprattutto per quanti erano privi di reti di protezione.

La ricerca del lavoro e di fonti di reddito indusse alcuni esuli a elaborare progetti di colonizzazione e ad avviare iniziative imprenditoriali, in genere in collegamento con altri esuli accomunati dalla provenienza geografica e/o dalle convinzioni politiche. Alcune di queste ebbero successo, come nei casi del romagnolo Pietro Beltrami, dei siciliani fratelli Orlando, del veneto Guglielmo Stefani, che fondò un’agenzia di stampa destinata a duratura esistenza e fu particolarmente attivo in campo editoriale. Altre iniziative ebbero minore fortuna e furono troncate dagli eventi del 1859-1860, con l’arruolamento e il ritorno in patria.

Quanto ai rapporti con la società subalpina, oscillarono dalla piena accettazione, in nome della condivisione degli ideali patriottici, principalmente da parte dei ceti borghesi, che ad essi erano più sensibili, all’ostilità. Se ne temeva infatti la concorrenza sul lavoro e si addossava agli emigrati, come asseriva a gran voce la propaganda reazionaria, la responsabilità del crescente carico fiscale e delle conseguenze della crisi economica del 1853-1854. Vi era diffidenza anche da parte degli emigrati, accentuata dalla tendenza, soprattutto dove erano presenti in un certo numero, a frequentarsi soprattutto tra di loro. Pranzi in comune con il cibo della madrepatria (come i maccheroni gustati in casa di Guglielmo Tofano e di Pasquale Stanislao Mancini) ricordavano il mondo di affetti da cui avevano dovuto bruscamente allontanarsi e ripagavano della triste dieta dei locali a prezzo concordato dalle associazioni di esuli. Si trattava, in questo caso, di esperienze elitarie. Salotti, caffè e osterie erano i luoghi di ritrovo privilegiati dove gli emigrati sostavano e avevano occasione di scambiarsi idee e leggere i giornali, facendosi riconoscere grazie all’abbigliamento, come il cappello alla calabrese, a larga tesa e con alta cupola, e l’abito di velluto nero.

Non mancarono d’altra parte matrimoni con donne del regno, occasioni di frequentazioni reciproche, relazioni che si intensificarono con il prolungarsi della permanenza e talora prelusero al maturare di sentimenti di appartenenza e all’insediamento definitivo. In alcuni casi, i tentativi rivoluzionari degli emigrati videro coinvolti anche esponenti delle popolazioni locali, come quello di Orsini in Lunigiana, nel 1856.

In conclusione, il rapporto tra sudditi sardi ed emigrati fu all’insegna dello scambio reciproco, nonostante i persistenti pregiudizi, e la presenza degli esuli ebbe conseguenze profonde sulla società subalpina, contribuendo alla sua “spiemontesizzazione”.

Che forme assunse il loro impegno politico?
L’impegno politico degli esuli fu costante. Oltre a cospirare per creare le condizioni per il ritorno in patria, essi si dedicarono con energia alla costruzione di un’opinione pubblica favorevole alla soluzione unitaria. Misero al servizio di questo obiettivo i più diversi strumenti. Furono in prima fila in iniziative e ricorrenze che ne mettevano in luce il ruolo politico, dall’inaugurazione dei monumenti alle leggi Siccardi (tappa importante nella laicizzazione dello Stato) e all’Alfiere sardo alle commemorazioni di eventi di particolare rilievo, come la concessione dello Statuto, sino ai funerali, da quelli di Carlo Alberto e Gioberti alle esequie di Guglielmo Pepe, cui convennero esuli democratici da varie parti d’Europa, e delle madri di Mazzini e Garibaldi. Anche le donne presero parte a tali iniziative, oltre che ad altre a sfondo benefico e patriottico, quando non addirittura si fecero latrici di corrispondenza segreta tra esuli e patrioti nel Lombardo Veneto.

Il campo in cui furono più attivi, coniugando la necessità di guadagnarsi la vita con quella di diffondere le loro opinioni politiche, fu quello culturale, con la fondazione di giornali e la pubblicazione di pamphlet e libri sui più svariati argomenti: un vero e proprio diluvio che rivitalizzò l’editoria piemontese. Accanto ai romanzi a sfondo patriottico e alle ricostruzioni storiche, incontrarono grande favore opere liriche e commedie anch’esse all’insegna del patriottismo, in cui recitavano personaggi di spicco come l’attore mazziniano Gustavo Modena. Al servizio dell’idea unitaria furono poste grandi opere come il Dizionario della lingua italiana di Tommaseo, uscito presso l’editore Pomba, il quale lo definì un “vero nazionale monumento” e sottolineò che la lingua era elemento fondante dell’identità del Paese. Più in generale, era considerato patriottico tutto quanto cooperava al rinnovamento civile e culturale, che implicava l’apertura all’Europa e il rigetto di sterili isolazionismi, come si osservò nella prefazione alla Biblioteca dell’Economista curata da Francesco Ferrara: “opera eminentemente italiana” era infatti quella di contribuire alla formazione di uomini di Stato, forniti di solida cultura economica. Altre opere collettanee curate da esuli furono rivolte al popolo, contribuendo alla comprensione e alla diffusione dei concetti chiave della politica, e delle tematiche risorgimentali, come alcuni Dizionari politici, mentre le pubblicazioni statistiche cooperarono alla costruzione dell’immagine di un’Italia non ancora realizzata politicamente ma dai “naturali” confini, mirando a convincere dell’esistenza di un popolo italiano, solo momentaneamente diviso, ma pronto a “pigliar posto con gli altri” in Europa.

Ester De Fort ha insegnato Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino. Attualmente è presidente del Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano e socia effettiva della Deputazione subalpina di Storia Patria. È autrice di numerose pubblicazioni su temi di storia dell’istruzione (tra le quali, per Il Mulino, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del Fascismo, 1995, e Scuola e analfabetismo nell’Italia del Novecento, 1996) e dell’emigrazione politica nel Risorgimento.

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