
Tale prospettiva trova una sua delimitazione cronologica in un arco temporale che va dalla prima età moderna alle soglie del XIX secolo e la sua collocazione in una fase di dilatazione dello spazio conosciuto e in uno spiccato rinnovamento culturale che comporta una maggiore predisposizione allo spostamento e al superamento di limiti geografici. E, di conseguenza, un obiettivo aumento del volume geo-politico delle missioni e delle reti diplomatiche e della loro qualità. Il volume si propone di utilizzare, nelle intenzioni dei curatori, un angolo di visuale in grado di ricucire un tessuto di ricerche, spesso disperso, in una logica metodologica unitaria, che confermi l’utilità di studiare il fenomeno diplomatico come un universo che possiede una sua fisiologia empirica anche dal punto di vista culturale, in modo particolare prima della professionalizzazione del mestiere di ambasciatore che avrà il suo progressivo compimento a partire dal XVIII secolo. Una cultura empirica, che se non si può definire né omogenea e né tantomeno prerogativa soltanto di coloro impegnati a diverso titolo in missioni diplomatiche, fu però in grado di incidere profondamente sulle singole biografie, nella formazione intellettuale e negli scambi di saperi, in una dimensione ambientale spesso esposta a contaminazioni e a suggestioni che non mancarono talvolta di una certa reciprocità.
Come si espresse la curiosità dei rappresentanti diplomatici verso le realtà extra-europee?
Nella lunga storia dell’osservazione dell’alterità, soprattutto a partire dalla scoperta di nuovi mondi, si possono constatare casi differenziati nella loro modalità ma omogenei nel loro risultato di rappresentare il crescente ricorso ad un’analisi antropologica se non addirittura alla nascita di una sensibilità etnografica. Un’analisi che costituirà un canale ed un’intermediazione di straordinaria efficacia e spesso un paradigma fondante di curiosità e di scambio. Un’esplorazione di popolazioni, che si potrebbe definire di natura mentale, che non si poggia più soltanto sulle esigenze delle penetrazioni commerciali o di spostamenti di massa dalla natura religiosa (le crociate) bensì su iniziative più mirate per dare seguito ad intendimenti politici di occupazione territoriale oppure a piani di evangelizzazione meglio definiti e programmati. È allora che si origina, quasi con naturalezza, prima una generica curiosità e poi una riflessione più sistematica dei soggetti diplomatici sulle società straniere. I limiti verso lo sconosciuto o il poco conosciuto vengono superati attraverso un confronto antropologico favorito naturalmente da contatti più frequenti e praticabili con altre popolazioni e altri contesti sociali. Una riflessione che si sofferma, fortificando l’importanza di relazionare sui mondi attraversati, anche molto lontani come nel caso del Siam, indugiando nella descrizione di costumi, abitudini, condizioni climatiche. Memorie nelle quali ci si misura con la comparazione e la classificazione dei livelli di civiltà, in cui si squadernano potenzialità e impedimenti con lo scopo di offrire comunque una visione globale e di soddisfare una curiosità verso le realtà extra-europee. Una curiosità che, stimolata inizialmente dall’epopea delle esplorazioni e poi dalla Compagnia di Gesù nel corso dell’ultimo trentennio del XVI secolo, viene ripresa anche dalle penne dei rappresentanti diplomatici che rivelano un gusto talvolta «etnografico» che oltrepassa di molto il livello aneddotico del racconto. Oppure, dalla postazione particolare di un ambasciatore (bailo) veneto a Istanbul sufficientemente erudito, essa può generare un’attrazione rispetto alla letteratura turca tale da tradursi in un fondamentale libro per la conoscenza del mondo ottomano che rappresenta uno scatto rispetto ai pregiudizi o ai giudizi sommari di “barbarie”. La stessa curiosità è riscontrabile nei territori ottomani tra Sei e Settecento, nelle memorie prodotte da funzionari della rete consolare e diplomatica francese per una maggiore conoscenza della stratificazione sociologica dei paesi «altri». Un descrittivismo più completo e trasversale che fa tesoro degli oggetti stessi del lavoro e dei compiti consolari, che contiene competenze specifiche e distinte rispetto al mondo ambasciatoriale. Le ambasciate (e i consolati) diventano luoghi collettivi di aggregazione culturale, di scoperta e di meraviglia, spazi di trasmissione di saperi e di mediazione di interessi intellettuali, artistici, antiquari, librari, scientifici, naturalistici tesi alla conoscenza e all’interpretazione della vasta e composita realtà medio-orientale. Tra le novità e peculiarità di questi comportamenti intellettuali, si può osservare l’affascinante scoperta dell’illustrazione come elemento imprescindibile dell’informazione, come utensile privilegiato per reificare la narrazione attraverso le immagini, costruendo così la visione di un racconto che non si risolve dunque soltanto nella scrittura descrittiva e finisce col diventare più convincente, seducente e didascalico.
In che modo il caso degli esuli fiorentini nel XVI secolo e della Massoneria sono rappresentativi di come potessero originare canali paralleli del lavoro diplomatico?
Esistono poi esperienze particolari che introducono all’interno della diplomazia culture politiche e politico- filosofiche rilevanti che non possono essere ascritte al lavoro diplomatico riconosciuto e legittimato dal potere. Si tratta di veri e propri canali paralleli che riproducono i metodi diplomatici o che si mimetizzano in essi. Possiamo infatti imbatterci nella formazione di reti collettive e gruppi di potere originati perlopiù da eventi politici sfavorevoli. È il macroscopico contesto, di grande rilievo nella lotta politica di antico regime, del fuoriuscitismo e, in genere, dell’esilio organizzato. Una maniera di trattare che vede gli ambasciatori «esiliati» o banditi praticare le missioni come occasioni per consolidare una cultura dell’opposizione politica. Un modo di agire che fornì a sua volta, sin dalle guerre d’Italia della prima metà del Cinquecento, materia e comportamenti nello svolgimento delle relazioni internazionali ad un livello europeo. Così come si può constatare, soprattutto nella seconda metà del XVIII secolo, a due secoli di distanza, quanto l’innesto tra un retroterra intellettuale rilevante e l’attività propriamente diplomatica potesse, in effetti, ingenerare situazioni apparentemente paradossali. Paradossali ma in verità molto peculiari dal punto di vista delle declinazioni possibili degli atteggiamenti culturali: è il caso delle influenze ideologiche massoniche all’interno del personale diplomatico: un fenomeno diffuso che determina asimmetrie comportamentali significative. La funzione stessa ne risulta modificata (e forse minacciata) in un obiettivo affrancamento dal legame personale con il mandatario e nell’emergere di una rischiosa ambiguità e autonomia rispetto a due poteri: uno palese e pubblico nella sua legittimità e l’altro più sfuggente e segreto, collocato sovente nella penombra politica. Anche in questo caso, come quello dei fuoriusciti fiorentini, la Massoneria con tutta la sua seduzione intellettuale e la sua diffusione elitaria, si nutre e si traduce in un’ideologia di governo che va aggregando gruppi di potere, molto attivi in occasioni importanti, e addirittura costruendo veri e propri luoghi politici alternativi.
Quale interazione si sviluppa tra l’universo dei giuristi e quello dei negoziatori nel corso del XVII e XVIII secolo?
È evidentemente un intreccio molto stretto quello che si può verificare nelle inevitabili connessioni tra l’universo delle pratiche diplomatiche e la sfera del diritto. Innanzitutto per la natura stessa delle discipline giuridiche destinate a normare i comportamenti e le relazioni tra individui e per la particolarità della collocazione degli ambasciatori e del loro entourage in missione presso i paesi ospitanti. Inoltre, evidenti e numerosi sono i confronti e i conflitti tra il diritto privato, i diritti pre-esistenti all’interno delle nazioni e il nascente ius gentium. Ovvero il territorio dove le competenze giuridiche forniscono, in maniera costante, materiale destinato a governare una scala di interventi giuridici di dimensione internazionale. Una dimensione che richiede un grande sforzo, se non una necessità vera e propria, di pronta scrittura di regole il più possibile condivise nelle relazioni tra gli Stati. Tale operazione si presenta nell’età moderna come complessa, insidiosa nelle applicazioni e votata sempre e comunque ad una lenta e faticosa sperimentazione.
In generale, l’esperienza diplomatica diventa evocatrice di quesiti e ispiratrice di giurisdizione, produttrice di casistica, di competizione e di conflittualità a testimonianza dell’emergenza di un registro relazionale molto più ampio e impersonale. Affiorava prepotentemente l’imperativo di affidarsi alle competenze dei giuristi come condizione ineluttabile della creazione di un nuovo diritto secolarizzato per normare i commerci, la navigazione, i cerimoniali, la struttura degli accordi politici e soprattutto la loro applicazione. In modo particolare, a partire dalle paci di Westfalia del 1648 siglate a Münster e Osnabrück, nelle cui quinte si affollarono e lavorarono indefessamente giureconsulti e esperti del diritto, si assiste all’evoluzione di un apparato diplomatico in cui gli ambasciatori, affiancati da esperti uomini di legge, agiscono da recettori di fatti e contesti che richiedono un’alta competenza giuridica per giungere ad una composizione diplomatica.
Quale rilevanza assume la cultura scientifica, in particolare medica, nell’esperienza diplomatica della prima Età moderna?
La cultura scientifica entra prepotentemente negli ambienti diplomatici e nelle missioni all’estero. Massiccia e impressionante dalla prima età moderna la presenza a Roma di medici che conferma e aggiunge tasselli all’importanza della città papale come laboratorio di elaborazione di un modello diplomatico destinato a diventare un punto di riferimento nelle relazioni tra stati nel corso del XVI secolo. La cronologia poi risulta in questo caso particolarmente importante perché trasferisce in un ambito scientifico, non ancora sufficientemente evidenziato, le specificità e i modi di essere variegati di «attori politici» da un lato intimi agli ambienti curiali e di potere ma nello stesso tempo intrisi di una formazione teorica in gran parte aliena dai cortigiani o dai curiali di professione. In generale, i medici, figure peraltro itineranti come i diplomatici tradizionali, contribuiscono a contaminare efficacemente l’interpretazione degli eventi con il loro linguaggio specifico che si riverbera terminologicamente nella narrazione politica.
Ancora più emblematico della crescente commistione lessicale tra il mondo scientifico e il mondo diplomatico è il caso del «vulcanismo» come fenomeno culturale globale. Nel diplomatico inglese William Hamilton si può dire che, durante il suo lungo soggiorno napoletano (1764-1800), si sintetizzò l’adozione dei linguaggi scientifici e politici nelle inevitabili evocazioni e comparazioni tra vulcani e sussulti sociali, allorché le eruzioni del «grande aratro» vesuviano finiscono per richiamare la fenomenologia delle «rivoluzioni» politiche. Qui il diplomatico incarnò, in un contesto favorevole agli studi geologici e scientifici, uno straordinario crocevia tra società scientifiche, informazioni politiche e uso pratico delle mappe in una intensa condivisione di interessi scientifici e di servizio diplomatico per la corona inglese. Qui l’osservazione e la descrizione, a cui gli ambasciatori sono abitualmente allenati e chiamati, si trasferiscono metodologicamente nelle annotazioni teoriche e scientifiche della filosofia naturale.
In che modo la cartografia assunse rilevanza come strumento di trattativa ed elemento cruciale per il raggiungimento di accordi diplomatici?
L’affinamento e la complessità delle trattative fece della cartografia un altro strumento decisivo, così come era accaduto per le competenze giuridiche. Essa fu un elemento cruciale per il raggiungimento di accordi diplomatici e per l’elaborazione, ad esempio, del fondamentale concetto di «confine naturale». Un elemento negoziale che costituisce un parametro imprescindibile delle politiche internazionali europee, delle egemonie e o della ricerca di un equilibrio tra le potenze continentali. Non stupisce, dunque, di incontrare un personale diplomatico, anche se talvolta sui generis, che si cimenta nella rappresentazione cartografica: per non parlare poi della sempre più frequente apparizione negli allegati della corrispondenza diplomatica di disegni, mappe e carte che va di pari passo con la crescente necessità di definire con precisione le configurazioni territoriali come oggetti di trattativa.
Che relazione è possibile ravvisare tra musica e diplomazia in Età moderna?
Particolarissima poi la relazione che si instaura tra l’universo musicale e quello diplomatico. È assodato e ben noto l’uso della musica da parte degli ambasciatori come strumento sperimentato di accesso negli ambienti di potere. Uno strumento che consente con relativa facilità di approfittare degli spazi dell’esecuzione musicale come luoghi informali di contatto, di introduzione e di socialità politica – che ricorda il caso dei medici – ma che è in questo caso motivato da ragioni legate al piacere o al divertimento di cui i potenti, pubblicamente o privatamente, sono i principali gestori. I musicisti e le loro competenze artistiche sono necessari per l’addestramento agli strumenti musicali dei sovrani e dei nobili, e divengono addirittura indispensabili nei cerimoniali pubblici di grande impatto che accompagnano, con un commento fatto di note, le solennità degli accordi di pace e le celebrazioni dinastiche. Ed è la musica insieme alla retorica, all’oratoria che viene citata per le affinità nell’orchestrare, nel tenere insieme i diversi strumenti per giungere all’armonia dell’accordo con un’operazione simile all’abilità del buon ambasciatore, nel proporre un linguaggio universale in cui riconoscersi. Perciò una folla di compositori, di cantanti e di esecutori popola ed entra intimamente nelle corti e si inserisce con una relativa facilità nell’universo diplomatico.
In che modo le pratiche letterarie costituirono uno dei versanti più caratteristici del rapporto tra esperienza e diplomazia?
La retorica e l’oratoria sono, com’è noto, gli ingredienti fondamentali della comunicazione diplomatica e non deve pertanto stupire il grande ruolo svolto da personaggi dotati di un solido background letterario. Competenze letterarie e pratiche diplomatiche si alimentano ineluttabilmente a vicenda. Tra queste discipline, a partire dal XV secolo, ricoprono un ruolo ovviamente privilegiato quelle più pertinenti alle humanae litterae e quelle relative alla nascente e sempre più fiorente propensione per l’analisi politologica. Che il letterato fosse sovente incaricato e protagonista di missioni diplomatiche è un dato certamente europeo che ebbe però in Italia un riscontro particolarmente rilevante sia in termini qualitativi che quantitativi. La penisola e le sue forti tradizioni letterarie fornirono materiali, talvolta dispersi, che costituirono una solida piattaforma teorica ad una schiera di scrittori che unirono in maniera brillante il servizio ambasciatoriale e la formazione umanistica. Ne risultò una sorta di ibridazione e di commistione nelle loro opere che è ancora in gran parte da analizzare. Scrittori politici, storici, teologi, poeti, geografi, papi, cardinali, vescovi, patrizi e segretari, fuoriusciti, sono nel caso italiano una vetrina intellettuale affollatissima.
In questo quadro la storia come disciplina autonoma, soprattutto a partire dal XVI secolo, diviene importantissima nella formazione degli ambasciatori. Tutta la cultura contemporanea europea intrisa di studia humanitatis condividono l’idea che la consapevolezza storica sia un grimaldello essenziale per la comprensione della realtà. In questa ultima prospettiva il mondo elitario veneziano costituisce uno scenario nel quale sembrano intrecciarsi due fattori interessanti: il primo è l’indubbio prestigio della tradizione diplomatica veneziana e dell’abilità interpretativa e narrativa dei suoi ambasciatori, dall’altra l’esistenza di una richiesta istituzionale, remunerata per decreto, per la scrittura di una storia «pubblica» delle vicende della Repubblica di san Marco. In generale è ben accertabile il ricorso alla riflessione storica e una diffusa crescita della sensibilità nel raccogliere materiale presso il personale diplomatico: gli ambasciatori non di rado hanno l’abitudine di tenere un proprio archivio in vista di opere memorialistiche più ponderate. A proposito di memorizzazione è poi molto interessante osservare come le fonti principali del lavoro diplomatico, le corrispondenze diplomatiche in primo luogo, diventino fondamentali nell’affermazione «pubblica» e sistematica della notizia politica. Nel XVII secolo in Francia l’edizione delle istruzioni e delle corrispondenze, come memoria dell’esperienza degli ambasciatori in missione, trasmigra in modo impetuoso, attraverso la stampa e con la pubblicazione in extenso di documenti diplomatici, in nuovi contesti interpretativi più complessi, e segnatamente quelli riferiti e sottoposti alla Ragion di Stato. La narrazione epistolare stessa diviene allora strumento polemico, costruendo nel contempo modelli di edizione e sollecitando reazioni sui rischi di propalazione dei segreti di Stato, con il risultato di offrire elementi in più rispetto ad una riflessione generale rispetto alla comunicazione dell’attualità diplomatica, alla costruzione del consenso, alla soddisfazione di una nascente opinione pubblica, alla percezione e all’uso strumentale della notizia politica.
Quale ruolo rivestì la negoziazione diplomatica nella definizione del dogma dell’Immacolata?
Le questioni teologiche sono in antico regime una materia notoriamente delicata. In realtà quando irrompono negli ambienti diplomatici esplicitano la difficoltà a maneggiare questo tipo di tematiche spinose, a tal punto da estromettere il personale diplomatico e di allargare forzatamente il parco dei soggetti impiegati nelle trattative agli ambienti degli «esperti» teologi. L’insidioso universo degli ordini regolari e delle dispute dogmatiche viene avvicinato e incluso soltanto nella dimensione straordinaria diplomatica escludendo un affidamento a quella dell’ambasciata ordinaria. Il che permette la constatazione di un enorme impaccio, in grado di provocare conflitti interni tra servizio diplomatico ordinario e straordinario, e una declinazione culturale assai problematica nello stabilire una connessione tra mondo secolare e mondo ecclesiastico. In un certo senso si può dire che le vicende inerenti la discussione sul dogma dell’Immacolata confermano in pieno la difficoltà da parte del personale diplomatico di gestire le materie teologiche nel concreto delle negoziazioni.
Quale condizione di solitudine si trova a vivere, con la diffusione della pratica della residenzialità stabile, il personale diplomatico?
L’esperienza si può poi naturalmente consumare ad un livello estremamente personale e soggettivo. Il servire realtà politiche minori in ambasciate all’estero può, ad esempio, avvantaggiare l’intensità dell’esperienza diplomatica come momento fondamentale di crescita e di predisposizione dell’ambasciatore ad una lettura più articolata del mondo. L’esperienza in questo caso, sebbene apparentemente confinata alle corrispondenze private e limitata nella sua rilevanza internazionale, si risolve però in un arricchimento esistenziale. Quando poi la figura dell’ambasciatore con la pratica della residenzialità stabile si libera della dimensione di delegato tenuto ad assolvere una missione estemporanea, e come tale più vincolante, si aprono altresì le insidie di un’esperienza che può rivelarsi difficile e dai contorni e dagli esiti molto incerti. Spesso e a lungo le corti o i luoghi di missioni possono rivelarsi realtà complicate da sopportare e talvolta claustrofobe, nelle quali è difficile esercitare la propria curiosità senza destare sospetto e dar sfogo alle proprie inclinazioni derivanti dalla propria formazione. Nella progressiva accettazione della figura dell’ambasciatore, dell’«onorevole spia», e ancor più nella «liberazione» di essa da un ruolo, spesso fragilissimo, di mandatario di una missione estemporanea e quindi per lui più vincolante, si realizzano contesti insidiosi tali da rendere la sua esperienza angusta e pericolosa per i contorni molto incerti e volubili degli universi cortigiani. È una precaria traiettoria allora quella nella quale inserire una maggiore libertà di coniugare cultura e passioni personali e servizio diplomatico e di vivere un livello dinamico di socialità piuttosto che una talvolta deprimente e amara condizione di solitudine.
Stefano Andretta è attualmente professore ordinario di Storia moderna e di Storia dell’istituzione diplomatica in età moderna presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre. Autore di numerosi saggi e monografie tra i quali si ricordano: La Repubblica inquieta. Venezia nel Seicento tra Italia e Europa, Roma 2000; L’arte della prudenza. Teorie e prassi della diplomazia nell’Italia del XVI e XVII secolo, Roma 2006; Paroles de négociateurs. L’entretien dans la pratique diplomatique de la fin du Moyen Âge à la fin du XIXe siècle, a cura di S. Andretta, S. Péquignot, M.-K. Schaub, J.-C. Waquet et C. Windler, Rome 2010; De l’ambassadeur. Les écrits relatifs à l’ambassadeur et à l’art de négocier du Moyen Âge au début du XIXe siècle, a cura di S. Andretta, S. Péquignot et J.-C. Waquet, Rome 2015; L’Identité du diplomate (Moyen Age- XIXème siècle). Métier ou noble loisir? Conclusions, a cura di I. Félicité, Classiques Garnier, Paris, 2020.