“Erranze libridinose. Ricerche erudite su testi rari e dimenticati” di Paolo Cherchi

Erranze libridinose. Ricerche erudite su testi rari e dimenticati, Paolo CherchiErranze libridinose. Ricerche erudite su testi rari e dimenticati
di Paolo Cherchi
UnicaPress

Prof. Cherchi, congratulazioni vivissime per questo nuovo libro che il titolo annuncia come pieno di sorprese. Come mai questa copertina e questo titolo?
La ringrazio di cuore per la rinnovata ospitalità, e vedo che, acutamente, entra subito in tema notando la copertina e il titolo. È vero: la copertina che riproduce il quadro, “Il bibliotecario”, di Arcimboldo annuncia il tema della “libridine” che – mi pare trasparente – è la libido per o dei libri, quindi di una passione quasi morbosa per i libri. E non di tutti i libri, ma in particolare di quelli “rari” e “dimenticati” come dice il sottotitolo.

Ma nel sottotitolo si annunciano delle “ricerche”, quindi non si tratta di un libro di “stravaganze”, come sembrano suggerire le “Erranze”.
“Erranze” è un termine un po’ desueto e ormai usato quasi esclusivamente da chi studia la letteratura dei cavalieri erranti, che vagabondavano alla ricerca di “avventure”. Erranze in questo senso mi sembra che descriva bene il piano di questo libro che, appunto, non ha alcun piano stabilito ed è, come si dice nella “lettera ai lettori” un “libro eterno”, cioè senza principio e senza fine, come quelle minestre di pura brodaglia che si mangiavano nella pensione di Domine Cabra, ricordato nel romanzo picaresco El Buscón di Quevedo.

Quindi è un libro che è quasi impossibile riassumere, un libro senza un centro o un’idea unificatrice.
Sì e no: non ha un centro, ma credo che abbia un’idea unificatrice. Il libro non è nato con un piano, ma è cresciuto da un’esperienza di lavoro. È una raccolta di saggi apparsi quasi tutti nell’ultimo lustro, e vertono tutti su argomenti di letteratura italiana, eccetto il primo che riguarda un tema provenzale, e che, in qualche modo descrive per analogia le gioie della “libridine”. È un saggio sull’allodoletta del trovatore Bernart de Ventadorn che vola verso il sole e ne beve la luce fino ad inebriarsi al punto da dimenticare sé stessa e lasciarsi cadere a terra. Questa immagine sintetizza l’idea della libridine che gode di se stessa fino al punto da vedere in quel piacere il traguardo della propria impresa. Detto in altre parole, l’idea del libro è una sorta di manifesto che celebra la ricerca senza altri propositi che non siano quelli del piacere stesso della ricerca.

Quindi una ricerca senza impegni sociali o politici o civili simili.
Esattamente. So che un’idea del genere sembrerà “reazionaria”. E lo sia pure! Sono certo che molti in cuor loro mi daranno ragione. Siamo tutti un po’ stanchi delle strumentalizzazioni che sono state fatte della letteratura e che oggi sono più intense che mai. Si legge e si scrive per difendere delle cause che una volta sono il “gender”, un’altra “l’uguaglianza”, un’altra la “inclusiveness”, e fra poco si aggiungerà la climatologia e chissà quanto altro. In tutto questo adempiere ai doveri di buoni cittadini, si è dimenticato che esiste anche un certo dovere verso il rigore scientifico, verso l’autonomia della ricerca, e che la letteratura, specialmente quella di alto livello, produce un piacere estetico che non ha né colore né sapore, e che in ogni caso ha un valore formativo che non è meno importante degli altri ricordati. Spesso non si ha il coraggio di esprimere queste opinioni, e mi pare che la decadenza degli studi letterari sia dovuta anche alla stanchezza e al fastidio che la strumentalizzazione della letteratura sta causando.

Può farci un esempio di come realizza questa ricerca evitando gli scogli di questo uso “impegnato” della letteratura?
Direi che ogni saggio ne offre una prova. Ne prendo uno che sembrerebbe il più disponibile alle interpretazioni attualizzanti. È il saggio su Brignole Sale e lo “stupro di Lucrezia”, tema che in mano dei gender studies darebbe occasione di inveire contro il maschilismo di quei tempi e a vedervi un manifesto del femminicidio. A me pare che Brignole Sale riprenda l’episodio antico e che non celebri o condanni Lucrezia (ricordo che non mancavano quelli che — come Sant’Agostino, Lorenzo Valla e perfino Marino — pensavano che Lucrezia avesse goduto alla violenza di Sesto Tarquinio), ma gli interessa invece capire come funzioni la mente di uno stupratore che in questo caso è anche un re. E mi pare che il carattere ricostruito da Anton Giulio Brignole Sale metta in luce un’idea che comincia ad imporsi nel mondo Barocco ed è quella della “volontà assoluta”, che vediamo apparire anche nel teatro dei Corneille e che si manifesterà ancora nei tiranni del teatro alfieriano. Io non condanno né approvo quella mente, ma sono contento di aver identificato la presenza e forse la genesi di un’idea di grande vitalità; e questo semplicemente perché ho letto il testo juxta sua propria principia, e nella versione dell’autore ligure trovo la conferma del fatto che dal mondo delle virtù (la castità di Lucrezia) si sta passando a quello delle passioni (la passione del “dominio” di Tarquinio), un passaggio epocale che farà dimenticare il mondo dell’epica e che apre la porta ai protagonisti del nuovo genere che è il romanzo. Capire questo per me è fonte di piacere in quanto combina una lettura rara con la scoperta o conferma di un’idea robusta; e non ho bisogno di leggerlo come un documento delle mie battaglie politiche o sociali. Potrei fare un altro esempio: il saggio su un autore dimenticato, Bernardino Rocca, che compose una raccolta novelle, Imprese, stratagemi et errori militari (1566), incentrandole tutte su degli “stratagemmi” che riprendeva tutti (quasi trecento) dall’opera di Frontino. Già la scoperta di una fonte ha di per sé un valore scientifico “puro” e che conferma il principio che la letteratura nasca in gran parte dalla letteratura. Inoltre, pone la sfida di capire come una fonte possa creare un testo, e magari capire perché il genere “novella” già dalla seconda metà del Cinquecento entri in crisi e ricorra ad altri generi per continuare la sua esistenza. Anche qui nessuna strumentalizzazione, ma la grande e gioiosa sorpresa di rinvenire una fonte e di capire come venga utilizzata: il raro qui si combina con la scoperta che non cambia il mondo ma procura un’emozione all’esploratore. Ancora un altro esempio: quando cerco di capire perché Leopardi (Errori popolari degli antichi) tenga molto a distanziarsi da altri autori che prima di lui hanno scritto di errori popolari, fa capire cosa egli intenda per errore popolare, e ci guida così a capire che gli “errori degli antichi” non sono personali, ma sono frutto della loro mentalità “magica”, che è poi la forma mentis più vicina all’immaginazione da cui nasce la poesia. Insomma, in tutti i saggi spunta la storia, ma mai, spero, la strumentalizzazione della letteratura.

E da quanto capisco, spunta anche molta erudizione perché le opere che cita non sono di lettura frequente, e a scorrere l’indice vedo nomi come quelli di Roberto Valturio, di Alfonso Varano, di Pietrobono da Mantova … cioè letture “rare” che di solito associamo con l’erudizione.
Verissimo, e prendo la sua osservazione come in complimento. Effettivamente tutti gli undici saggi del libro vertono su argomenti un po’ fuori dell’orizzonte normale; e questo è in tono con la “libridine”. L’erudizione sembra una cosa del passato e ha sempre una connotazione di muffa e di poca intelligenza. È la reputazione che viene da secoli addietro quando gli illuministi tacciarono di “eruditi” i grandi studiosi del Seicento che, secondo le lumières, “sapevano” ma non “capivano”. Per l’Italia Otto-Novecentesca gli eruditi erano gli studiosi positivisti come i Rajna, i Comparetti, i Farinelli, i collaboratori del Giornale Storico della letteratura italiana e in genere gli studiosi che passavano la vita negli archivi ma che non sapevano spiegare perché un sonetto è bello. Furono soppiantati dall’estetica idealistica li considerava “sordi ai palpiti della poesia”; venne poi la critica marxista che li ha ignorati giudicandoli sordi alla storia, quindi il susseguente formalismo ha programmaticamente ignorato i valori e si è soffermato sulle “funzioni”, che risaltano sempre con maggiore spicco nei grandi autori, e infine sono venuti i “cultural studies” per i quali la letteratura è un contenitore di ciò che accade nel mondo per cui un fumetto sta accanto all’Orlando furioso, e gli obituari di un giornale di provincia stanno a fianco ai Sepolcri di Foscolo. A me pare che in Italia si sia sviluppato un filone di studi che chiamerei “neopositivista”, se quest’etichetta non creasse confusione con la scuola filosofica che ha assunto quel nome. Il neopositivismo del quale parlo eredita in parte l’attenzione alla ricerca erudita, ma la arricchisce piegandola alla storia delle idee. È un filone silenzioso sviluppatosi senza manifesti né guide ma praticato da chi pensa che la ricerca letteraria si affianchi alla storia senza volerla cambiare o giudicare ma semplicemente conoscere. E nella storia entrano non solo le parti che hanno avuto il sopravvento ma anche quelle che vi sono morte, quel mondo che ha avuto una voce e che poi si è persa: chi la riscopre capisce meglio anche quella che è sopravvissuta. Parlo, insomma, di un filone critico che non dimentica gli autori che oggi giudichiamo minori ma che fecero anch’essi “storia”. Oggi pochissimi ricordano Roberto Valturio (al quale è dedicato il terzo saggio del libro), eppure a rileggerlo scopriamo come si poteva scrivere un trattato militare senza aver mai visto una battaglia, senza aver mai maneggiato una spada, e avendo semplicemente letto trattati dell’arte militare dell’antichità: se non se ne ricavavano istruzioni pratiche, si capisce almeno quanto il mito dell’antico servisse a nobilitare e a legittimare il fenomeno di “condottieri” che spuntarono un po’ ovunque nel nostro Quattrocento, il secolo delle “signorie” e dei “principati” come quello dei Sigismondo Malatesta di Rimini al quale Valturio dedicò la sua sterminata De arte militari. Capire è sempre gratificante. Se leggiamo le Visioni sacre di Alfonso Varano vi scopriamo un messaggio polemico contro il Giansenismo che pensavamo non potesse esistere nella sonnolenta Ferrara del tardo Settecento. Vede, dunque, come la ricerca erudita modifica panorami culturali, e questa scoperta rende gioiosa e fruttuosa la libridine. La quale spesso porta a scoprire dei testi che ci illuminano su aspetti della nostra cultura che ci erano ignoti. Bisogna avere il piacere dell’investigazione la quale spesso ci compensa con scoperte e illuminazioni. Certo è difficile convincere i lettori che si trovi piacere a studiare come un testo medievale (una raccolta di detti “quaternari” di Petrobono da Mantova) arrivi ad un volgarizzamento del tardo Cinquecento poi tradotto in varie lingue; o vedere come tutti i tentativi di fondare un’apoftemmatica moderna finisca per riproporre quella antica: sembra un po’ un piacere perverso rincorrere problemi del genere. Eppure anche uno scettico potrebbe ricredersi se gli si spiega che tali ricerche dischiudono panorami culturali, rivelano sistemi di circolazione e di irrigazione che alimentano idee e movimenti, e almeno a persone come me questa conoscenza risulta gratificante.

Quindi bisogna procedere affidandosi al caso?
Sì e no. Le avventure e i vagabondaggi non si pianificano, ma bisogna avere la disposizione giusta per trarre profitto e piacere di ciò che il caso presenta. Chi penserebbe di studiare il modo di tagliarsi la barbe? Penso pochi, ma è probabile che un signore come il sottoscritto si imbatta (per caso) in un anatomista del Seicento il quale sosteneva che gli uomini avessero la barba perché avevano l’alito caldo che favoriva la crescita della barba, mentre le donne, nate dalla costola di Adamo, hanno l’alito freddo non possono avere barba, ed ecco che una curiosità del genere sveglia la nostra attenzione, e ogni volta che troviamo un accenno alla barba ne prendiamo nota fino a quando comincia a configurarsi un disciplina che non conoscevamo, cioè la poganologia (si ricordi che l’imperatore Giuliano l’Apostata, fu anche l’autore di un Misopoganos, perché era un odiatore delle barbe) che non è del tutto priva di interesse come mostra uno dei nostri saggi del libro: dopo tutto la barba è un aspetto della semiotica del nostro corpo che segue anch’essa le mode. Insomma nella libridine ha un grande ruolo la curiosità e direi anche la fortuna come mi è capitato di dire in un’altra pubblicazione, intitolata Le nozze di filologia e fortuna. La scoperta delle fonti è spesso un fatto di fortuna, ma la fortuna rimane inerte se cade nelle mani di chi non sa trarne vantaggio. Anche questo argomento potrebbe essere strumentalizzato e portare in ballo, ad esempio, il fenomeno sociale dei “barboni”, ma sarebbe un discorso “barboso” che lasciamo agli studiosi impegnati a leggere per diffondere idee e principi: noi abbiamo letto per librarci nell’alto spazio della “libridine”.

Grazie, prof. Cherchi: quanto ci dice dovrebbe incuriosire i lettori a leggere questo suo ultimo libro, che tra l’altro è accessibile in rete e scaricabile gratuitamente. È il frutto di una nuova iniziativa dell’Università di Cagliari, la sua alma mater, che apre anch’essa una Press free access. Lo si può scaricare a questo link. Vediamo che il suo libro è il primo di una nuova collana diretta dal romanista Paolo Maninchedda. Le facciamo tanti auguri!

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