“Eros antico. Un percorso filosofico e letterario” di Franco Trabattoni

Prof. Franco Trabattoni, Lei è autore del libro Eros antico. Un percorso filosofico e letterario edito da Carocci: quale concezione aveva dell’amore il mondo antico?
Eros antico. Un percorso filosofico e letterario, Franco TrabattoniNon è facile dare una riposta a questa domanda, perché da un lato c’è il rischio di generalizzare in modo eccessivo, dall’altro quello di rinunciare a cogliere le specificità – che pur ci sono – che caratterizzano il modo antico di vivere e pensare l’eros (e che a noi sono note dalla letteratura, dall’arte, dalla ricerca storica, ecc.). Mi sembra che un equilibrato punto medio consista nel dire che l’eros antico non dà molto spazio all’aspetto sentimentale, che invece è decisamente accentuato nella sensibilità moderna; e tanto meno appare disposto a separare il sentimento, inteso come cosa alta e sublime, dal senso, inteso invece come soddisfazione bassa di desideri e piaceri. Difficilmente un antico, nel dichiarare il suo amore, proverebbe l’irrefrenabile impulso di protestare che il suo sentimento è puro (“che bassa non m’entrò voglia nel petto”, come scrive Leopardi nel “Primo Amore”). Questo non significa che l’eros non possa essere sublimato verso obiettivi spirituali, diversi o superiori in rapporto a quelli corporei. Basterebbe citare in proposito il caso di Platone, che certamente (sia pure al netto di tutte le semplificazioni) può essere incluso in questa prospettiva. Tuttavia proprio il caso dell’ “amore platonico” segnala di nuovo la differenza: la sublimazione, la purificazione, muovono dall’amore umano e particolare verso un amore generale, filosofico o divino: non certo verso l’amore “sentimentale”. Non vedo molte tracce, nell’eros antico, di donne angelicate. E se è, vero, come ho cercato di mostrare, che in Platone il particolare non è negato ma conservato, non mi pare che questo salvataggio riguardi anche il sentimento: il sentimento, mi sembra, è il grande assente nell’eros antico.

In che modo l’eros di Paride rappresenta un modello alternativo di virtù?
Nell’interpretazione tradizionale il Paride dell’Iliade è considerato il prototipo dell’eroe bello e vigliacco, traditore dei valori più sacri, imbelle in battaglia (combatte spesso coperto, scagliando frecce da lontano senza affrontare direttamente il nemico) e virtuoso in camera da letto. Tuttavia la sua immagine nel poema non è del tutto univoca, e Vincenzo Di Benedetto non ha tutti i torti nel rilevare che non sempre Paride fa brutte figure. Probabilmente qui ha qualche peso la natura composita del poema, per cui il carattere di Paride non risulta del tutto univoco e coerente. La mia lettura si basa più che altro su quello che accade nel libro terzo e nel sesto, da cui mi pare che emerga un’immagine sostanzialmente concorde. Nel terzo canto Paride è colto mentre passa senza fare una piega, dunque senza evidenti contraccolpi psicologici, dal pericoloso duello con Menelao all’incontro amoroso con Elena. L’intervento di Afrodite difficilmente nasconde il fatto che è fuggito dalla battaglia di sua volontà. Ed è appunto questo che gli rimprovera Ettore nel sesto canto. Tutti ritengono che Paride sia un vigliacco. Ma secondo Ettore non è così. A Paride non manca il coraggio: è che non vuole. E perché non vuole? Una possibile risposta la offre Elena nel canto terzo. Paride, dice a Ettore l’eroina, non “capisce”. Non capisce, spiega Elena, “il biasimo e la vergogna degli uomini”. Questo “non capire” a me pare che significhi “non condividere”. Paride, in altre parole, non condivide sino in fondo (o talvolta condivide in modo superficiale o addirittura simulato) le priorità dell’eroe omerico. Per Paride non c’è nessuno scandalo nel ritenere che uno possa indugiare nel talamo, non partecipando alla battaglia, per sfogare un dolore. Evidentemente Paride ritiene che questo suo trattenersi nel luogo più intimo e privato della vita delle persone, lontano dalla battaglia e dall’esercizio pubblico della virtù guerriera, sia una giustificazione plausibile per la sua assenza. E per quanto lo dica timidamente, a me pare che da qui emerga con chiarezza la sua fede in un quadro di valori diverso: il privato contro il pubblico, la casa contro il campo di battaglia, gli ornamenti che rendono gradevole il corpo (Paride è schernito per le sue pettinature) contro le armi che gli danno un aspetto aggressivo e feroce, il piacere contro il dovere, l’amore per le persone contro l’amore per la patria (mentre Andromaca non riesce a trattenere Ettore dalla battaglia, Paride se ne allontana di sua volontà per incontrare Elena), il bisogno di sfogare il dolore (e dunque riconoscere la propria debolezza) contro la necessità mostrarsi forte (che lo stesso Paride simula prima dello scontro con Menelao). Questa immagine è rinforzata dall’aura di “femminilità” da cui Paride è spesso circondato, e non solo in Omero. Paride è amato dalle donne ma odiato dagli uomini (compresi i suoi concittadini, che gli attribuiscono la colpa della guerra), e lo accompagna la “machlosyne”, ossia il piacere femminile che egli sa suscitare nelle donne, e che finisce per interessare anche la sua propria sessualità. Insomma, se l’eroe rappresentativo dell’epos omerico non fosse Achille ma Paride, il mondo da lui descritto ne uscirebbe completamente trasfigurato. Anche se sarebbe ingenuo pensare a due modelli monolitici, del tutto privi di intersezioni. Sappiamo dai racconti post iliadici che Achille fu ucciso proprio a una freccia dell’arco di Paride, e che senza l’arco dell’eroe emarginato Filottete Troia non sarebbe mai stata presa. Il modo di pensare dei greci era straordinariamente complesso, e presenta sempre, in qualche modo, anche la seconda faccia della medaglia.

Che differenza c’è tra amore umano e amore divino?
“Amore divino” può significare sia l’amore “di Dio (soggetto)” sia l’ “amore per Dio” (oggetto): più meno come nel celebre verso con cui si chiude la Commedia (“l’amor che move ‘l cielo e l’altre stelle”), dove “amor” indica entrambe le cose. Ma io credo che nel mondo antico ci sia davvero poco spazio per questo amore. Anche qualora sia provvidente nei confronti del mondo e degli uomini (come il demiurgo del Timeo di Platone), Dio lo è perché è buono (nel senso che vuole fare cose buone), non perché ama. Amare per un greco significa “desiderare”, e nessun desiderio può riguardare esseri perfetti come gli dei, tanto meno se questo desiderio ha per oggetto realtà ad essi inferiori (altra cosa sono dei omerici; ma qui l’eros è desiderio carnale esattamente come quello umano). Ma proprio perché l’eros è desiderio, non vale nemmeno l’inverso: non c’è amore degli uomini verso dio. Amore, dice ancora Platone, è desiderio di possedere le cose belle. Ma Dio, per i greci, non si può possedere. Tutto quello che si può dire dell’amore umano in rapporto a Dio è che il desiderio più elevato degli uomini è essere simili a lui, con lo scopo di possedere le stesse cose che egli possiede: bellezza, immortalità, eterna giovinezza, potere, conoscenza (Platone). Gli dei sono ammirati, rispettati, serviti, onorati, all’occorrenza anche pregati (ma sempre per ottenere da loro delle cose “buone”); amati, mai. Nemmeno per Platone. Sarà il cristianesimo a introdurre l’amore dell’uomo per Dio, magari anche rendendo possibile una particolare forma di possesso (simbolizzata dall’Eucaristia). Ma Kant non avrà torto nel dire che l’amore per Dio non può essere prescritto, perché l’amore, in generale, non si può comandare.

Che nesso esiste tra amore e guerra?
Il nesso amore-guerra, nei testi antichi che possediamo, contempla due versioni antitetiche, una negativa e una positiva. Secondo la versione negativa, l’amore, inteso come desiderio del piacere fisico da soddisfare privatamente, può facilmente costituire un intralcio al perseguimento della virtù guerriera. Nel libro cito alcuni casi di personaggi storici che compromettono l’esito della battaglia attardandosi a soddisfare i propri desideri sessuali. La versione positiva è esemplificata dal discorso di Fedro nel Simposio platonico, laddove si rileva che a volte l’amore può essere più efficace, per stimolare il coraggio, della norma morale, motivando il comportamento virtuoso con la vergogna che si prova nell’apparire vigliacchi, e con il desiderio di apparire valorosi agli occhi della alla persona che sia ama. Fedro giunge sino a concludere, iperbolicamente, che un esercito tutto composto da coppie di innamorati sarebbe praticamente invincibile.

In che modo l’amore può essere malattia e medicina?
Nel celebre episodio di Pier delle Vigne, che troviamo nel canto XIII dell’Inferno, Dante racconta che quando, su suggerimento di Virgilio, spezza un rametto dell’anima-pianta, questa rottura provoca al tempo stesso dolore e sollievo (“dolore e al dolor fenestra”). La stesso cosa può accadere con l’eros. In condizioni normali, e in base alla logica, il momento del dolore (o del bisogno) e il momento della sua soddisfazione dovrebbero essere distinti, separati nel tempo e prodotti da due oggetti diversi. Per esempio, il mal di denti e il sollievo prodotto dall’analgesico: quando c’è l’uno non c’è l’altro e viceversa. Ma l’evidenza psicologica dimostra che nella passione amorosa spesso non è così: è proprio la stessa cosa, ossia la stessa persona, che provoca dolore e sollievo al tempo stesso, sia con la sua presenza sia con la sua assenza. La persona presente può provocare, proprio con la sua presenza, piacere e turbamento al tempo stesso, per cui si desidera, sempre al tempo stesso, che sia assente e presente. Se la persona è assente, la mancanza di turbamento prodotta dall’assenza si converte in dolore non per una causa altra e diversa, ma ancora a causa dell’assenza. Questa possibile contraddittorietà della passione amorosa a mio avviso è stata colta nel modo fra tutti più profondo da Lucrezio. Ma è riscontrabile anche in altre situazioni che descrivo nel libro, come l’incontro fra Elena e i “vecchioni” nel canto III dell’Iliade: l’assenza/presenza di Elena a Troia sono percepite entrambe, e al tempo stesso, come un bene e come un male.

Quale visione dell’amore emerge nell’opera di Lucrezio?
A mio parere Lucrezio porta ai suoi estremi sviluppi, descrivendo il fenomeno con una straordinaria profondità di dettagli, la concezione dell’amore come evento fisico e sensibile, che domina ampiamente la scena nell’eros antico. Che cosa desidera, chi ama? Desidera, come sappiamo, il possesso della cosa amata. Ma Lucrezio intende questo possesso in maniera crudamente materiale, paragonando il desiderio erotico al bisogno di cibo e bevande. Anche qui il soggetto del desiderio è il corpo: corpo che desidera annettere e assimilare a sé un altro corpo. Ma mentre nel caso del nutrimento questa annessione è possibile, nel caso dell’eros non lo è. Ogni tentativo di convertire il possesso dal simbolo alla realtà è destinato a convertirsi nel suo opposto: nel dolore, o addirittura nella morte, del corpo che si vorrebbe possedere. Qui secondo me Lucrezio coglie con precisione un aspetto del rapporto erotico che era già stato intravisto da Platone nel discorso attribuito ad Aristofane nel Simposio. Sembra che nessuna soddisfazione sia davvero in grado di appagare completamente il desiderio; ed è per questo che la soddisfazione è spesso volutamente ritardata o rinviata, alla ricerca spasmodica di un impossibile modo perfetto, ma inesistente, in cui realizzarla. Lucrezio è interessante, io credo, perché mostra che anche ragionando in base a presupposti crudamente materiali e sensibili, il desiderio rappresentato dall’eros mostra la sua natura eccentrica e singolare rispetto a fenomeni che pure in teoria dovrebbero essere molto simili. Nell’eros la dinamica bisogno/soddisfazione si manifesta come un ciclo incompleto, evocando qualcosa di ulteriore, di non riducibile alla normale alternanza di questi due stati; qualcosa, però, che nessuno sa precisamente che cosa sia. Qui, come tento di mostrare nel libro, si riscontra una corrispondenza ideale tra Lucrezio e Leopardi.

Che forma assume l’amore nel Fedro?
Il Fedro è, insieme al Simposio, uno dei due dialoghi che Platone ha dedicato all’eros. Fra le molte cose che lo rendono interessante c’è anche il fatto che in questo dialogo Platone accoglie l’idea, assai diffusa, secondo cui l’eros è una forma di pazzia: rilevando che non sempre la pazzia è un male per gli uomini, ed anzi attribuendole un ruolo non indifferente all’interno della stessa filosofia. Quello che è interessante per la valutazione dell’eros è che in questo modo Platone getta le premesse per correggere e in parte superare la dottrina esposta nel Simposio. Mentre infatti in questo dialogo l’eros sembra potersi articolare in modo piano e conseguente lungo una scala che va dal pesante e volgare amore corporeo sino all’etereo e rarefatto amore filosofico per la conoscenza, l’intromissione della follia rompe la linearità di questo percorso. Se nel Simposio sembrava facile e naturale contrapporre la follia di chi è vittima dei suoi desideri irrazionali alla tranquilla saggezza che caratterizza l’amore filosofico, nel Fedro questo schema è inservibile, appunto perché la follia non è sempre un male. Qui si tratta piuttosto di incanalare questa follia nella direzione corretta (o il più corretta possibile). Ma pur avendo di mira come obiettivo ultimo questa correttezza, il riconoscimento dell’eventuale bontà della follia non consente all’eros di abitare stabilmente, chiudendosi dietro la porta, nelle regioni alte dell’idea, della conoscenza e della ragione; e dunque impedisce di dire che l’unico frutto buono dell’eros sia la filosofia. In effetti quell’eros che nel Simposio sembrava progredire solo attraverso le figure indeterminate di “corpi” e “anime” non meglio specificati, diviene nel Fedro soprattutto l’amore fra due persone, e tale rimane sino alla fine: due persone che saranno felici, scrive Platone, “trascorrendo una vita luminosa, e percorrendo il cammino l’uno vicino all’altro”.

Franco Trabattoni è professore ordinario di Storia della filosofia antica all’Università Statale di Milano. Ha dedicato numerosi studi a Platone, tra i quali Essays on Plato’s Epistemology (2016) e un’edizione commentata del Teeteto (2016).

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