
Ha nociuto ad Erodiano soprattutto il confronto con Cassio Dione, il grande storico di età severiana, autore di una monumentale opera in ottanta libri, la Storia Romana (di cui peraltro nel 2018 uscirà nella BUR l’ultimo volumetto con i libri finali dell’opera, 73-80 con la prima traduzione italiana integrale a cura di A. Stroppa e con le note storiche da me curate). Si è preferito infatti privilegiare il racconto di Cassio Dione rispetto a quello di Erodiano in quanto ritenuto maggiormente fededegno sugli eventi che vanno dal principato di Commodo (192) a quello di Alessandro Severo (fino al 229).
Eppure Erodiano aveva riscosso già in antico la non facile approvazione del patriarca Fozio (IX secolo) il quale ne esaltava il bello stile e la chiarezza, giudicando che «tra tutte le qualità che si esigono nella storia non è secondo a nessuno».
Il Rinascimento poi gli aveva decretato un grande consenso: la prima edizione a stampa è di Aldo Manuzio nel 1503; già il Poliziano ne aveva approntato una traduzione latina nel 1487 (stampata nel 1493), e Niccolò Machiavelli se ne servì ampiamente nel Principe. Ammiratori di Erodiano furono ancora Thomas More e, nel Settecento, Edward Gibbon.
Quali chiavi interpretative originali della storia del III secolo offre Erodiano?
Erodiano giudica gli imperatori innanzitutto in base alla loro paideia, vale a dire la loro formazione culturale da cui discende il valore di ciascuno, e ne verifica, per così dire, la corrispondenza rispetto alle attese e ai problemi da risolvere. Nel caso di Commodo ad esempio l’ottima formazione ricevuta – il padre del resto era l’imperatore Marco Aurelio – non fu, secondo Erodiano, messa a profitto, e pertanto il suo principato gli appare come un’occasione sprecata.
Erodiano, nonostante ritenga il modello di Marco Aurelio insuperabile e dunque un vero e proprio paradigma ideale, sembra anche proporre ai suoi lettori un modello fondato sull’aristocratía (termine che – si badi – non ricorre mai nell’opera del senatore Cassio Dione), vale a dire sulla partecipazione dei cittadini migliori alla direzione e all’amministrazione dell’impero. Per questo Erodiano appare entusiasta – del pur breve e fallimentare – regno di Pertinace (gennaio-marzo 193). Egli, come poi Macrino non era di origini nobili. Tuttavia per Erodiano, che pur promuove a gran voce l’ascesa di questi “uomini nuovi”, è in ultima analisi pericolosa e perniciosa l’ascesa di questi uomini a posizione di vertice inaspettate: è il caso del liberto Cleandro che sotto Commodo raggiunge la prefettura del pretorio oppure di Plauziano, anch’egli prefetto del pretorio sotto Settimio Severo.
Erodiano appare inoltre disincantato, se non addirittura spregiudicato, nella valutazione spassionata dei rapporti di forza che muovono la storia. Esemplare a questo proposito è l’analisi della conquista del potere da parte di Settimio Severo nel lungo travaglio delle guerre civili del 193 (che si chiuderà infine nel 197 con la sconfitta di Clodio Albino a Lione). Settimio appare un abile ed astuto calcolatore ma anche un soldato implacabile. È questa intelligenza politica delle cose e degli uomini che probabilmente aveva colpito Machiavelli.
Erodiano coglie molto bene i sintomi di una crisi già in atto: quale ne è la sua interpretazione?
Innanzitutto bisogna dire che Erodiano è un contemporaneo dei fatti di cui parla e si propone come storico della contemporaneità («Io ho raccolto fedelmente nella mia narrazione fatti storici che non ho appreso da altri, e non sono ignoti, né privi di testimoni, ma sono ancora presenti alla memoria dei lettori… io riferisco invece i fatti successivi alla morte di Marco, dei quali fui per tutta la vita testimone diretto, o di cui ebbi notizia; ad alcuni di essi presi parte attiva»).
Egli ritiene che la crisi non abbia un rimedio esatto poiché ogni soluzione da lui esaminata tra Commodo e i Gordiani gli appare insufficiente o inadeguata. Laddove prevale l’aspetto militare difetta l’intelligenza politica e viceversa (sono i casi di Caracalla, Massimino il Trace oppure di Alessandro Severo). Il senato, che pur è ancora sentito come fonte di legittimazione degli imperatori, appare troppo spesso spettatore di quel che accade, poiché sono più spesso gli eserciti a dettare la linea. Erodiano, che pur non è storico di una pars in senso stretto, anche se si rivela molto attento a quelli che Filippo Cassola definì «gli interessi dei ceti possidenti», ritiene che la crisi non possa avere uno sbocco positivo, in assenza di una personalità in grado di governare l’impero con polso fermo, per tenere a bada lo strapotere dei soldati, senza fare loro troppe concessioni e, del resto, in assenza di una controparte che bilanci l’azione degli imperatori, soprattutto quando essa si rivela inopportuna o inadeguata. È questo, ad esempio, il caso di Elagabalo: personalità senz’altro di rottura ma che con i suoi atteggiamenti e le sue scelte antitradizionali, soprattutto sul piano religioso, mostra tutta la sua inadeguatezza ma anche il rischio a cui si espone un’autocrazia senza contrappesi.
Quella messa a fuoco nella sua opera da Erodiano è in ultima analisi innanzitutto una crisi istituzionale, in quanto le istituzioni (e il senato soprattutto) non sono più in grado di reggere il peso del governo in assenza di un valido imperatore che lo guidi e viceversa; ma anche una crisi militare poiché la crescente pressione dei barbari non è sempre affrontata in modo adeguato. Erodiano è fermamente convinto che sia un errore trattare coi barbari – come aveva fatto Alessandro Severo – o blandirli con il denaro.
Del resto è lo stesso Erodiano ad avvertirci nel proemio della sua opera quando afferma di aver scelto di occuparsi di un periodo storico molto turbolento, la cui cifra è l’instabilità: «Se infatti si prendesse a confronto tutto il periodo trascorso fra la generazione di Augusto, quando il dominio romano divenne una monarchia, e la generazione di Marco (dunque, circa duecento anni), non si troverebbero né così frequenti crisi dinastiche, né così agitate vicende di guerre esterne e civili, né tante ribellioni di province, né tante capitolazioni di città (sia nel nostro territorio, sia in molti paesi barbari), né tanti terremoti e pestilenze» o, ancora: « Infatti l’impero romano, governato in sessant’anni da principi più numerosi di quanto il tempo richiedesse, subì molte e varie vicissitudini, degne di meraviglia».
Nell’interpretazione erodianea della crisi non manca poi una certa dose di moralismo: la riprovazione di cui sono fatti oggetto sia Didio Giuliano sia Elagabalo appare eccessiva.
Sebbene nella Storia non manchi una componente letteraria (del resto la storiografia è un genere letterario), alla quale talvolta il suo autore indulge, Erodiano è uno storico tutt’altro che sprovveduto: dalle sue pagine si coglie in ultima analisi una diagnosi pessimistica delle sorti dell’impero.