
Prendiamo il caso delle politiche fiscali: dopo la legge n. 512 del 1982, all’epoca molto innovativa, praticamente nulla è successo fino agli anni Novanta. E proprio alla fine degli anni Novanta del XX secolo vi è stata una nuova “fiammata”, con riforme organizzative, creazione di autonomie (mi riferisco a Pompei), spinta verso le c.d. esternalizzazioni. In quegli anni la valorizzazione comincia a essere meglio definita, salvo poi essere catturata dai conflitti di competenze tra Stato e Regioni. E poi, negli anni duemila, la scure dei tagli lineari, delle riduzioni di spesa e un bilancio del Ministero che nel 2013 crolla fino a 1,4 miliardi di euro (era quasi il doppio nel 2001). Per fortuna, dal 2014 è iniziato un nuovi corso, che nel 2018 ha riportato il bilancio del MIBACT a 2,4 miliardi, ha fatto ripartire le assunzioni, ha investito in formazione e ricerca, con i musei e una Scuola del Ministero. Ma su questo mi permetto di rinviare al volume….
Quali conseguenze comporta la globalizzazione del patrimonio culturale per il nostro Paese?
Numerose. Direi che possiamo registrare due effetti principali. L’Italia è innanzitutto un “Paese fonte”, non solo nel senso di esser ricco di beni culturali, ma anche perché rappresenta un modello di riferimento per qualsiasi intervento pubblico in questo ambito (se non altro perché abbiamo iniziato prima degli altri….). Sia gli altri Paesi, sia le organizzazioni internazionali, dunque, vedono il nostro Paese come modello, per lo meno quanto alle soluzioni legislative trovate negli anni – e su cui i nostri atavici problemi applicativi offrono ulteriori spunti, per gli altri, per trapiantare meglio i nostri istituti. Tutto il sistema di identificazione dei siti UNESCO, ad esempio, è costruito, sul piano giuridico, in modo non dissimile da quanto previsto dalla nostra legislazione per la dichiarazione di interesse culturale, ovviamente con tutte le dovute distinzioni e i necessari caveat.
Ma l’Italia è anche un Paese condizionato e influenzato dalla globalizzazione e da quanto avviene negli altri Stati. Così, talvolta, siamo noi a imitare o a “prendere” da altri. È quanto ad esempio abbiamo fatto con l’artbonus, guardando quanto avveniva in Francia e introducendo un’agevolazione fiscale finalmente all’altezza del nostro patrimonio. O ancora è quanto successo per i musei statali, che di fatto e di diritto sino al 2014 non esistevano come istituzioni in Italia, mentre ora ci sono, nel rispetto degli standard internazionali dettati dall’International Council of Museums (ICOM).
Non dobbiamo poi dimenticare gli altri effetti prodotti dalla globalizzazione, quali la formazione di un patrimonio mondiale (penso ancora ai siti UNESCO), la sempre più fitta circolazione, anche illecita, delle opere, i rischi per la sicurezza legati anche al terrorismo, che vede ormai nel patrimonio culturale sia un obiettivo, sia una fonte di guadagni.
Dobbiamo però tutti impegnarci affinché l’Italia resti un Paese guida in questo settore. E, sotto questo aspetto, aver organizzato durante la Presidenza italiana del G7, il primo incontro tematico dedicato alla cultura (a Firenze, nel marzo 2017), è stato un segnale importante.
Come possono pubblico e privato cooperare virtuosamente nella tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale?
Innanzitutto rinunciando a qualsiasi approccio ideologico. Quel che ha spesso rovinato il dibattito su questi temi sono state le posizioni estreme, in base alle quali il pubblico o il privato sono considerati rispettivamente come bene o male assoluto o viceversa. La questione è ovviamente più articolata. Il pubblico deve conservare potere di scelta, senza doversi “consegnare” al privato il quale, ovviamente, non è necessariamente un benefattore. Allo stesso tempo, le competenze del settore privato possono arricchire e potenziare il funzionamento della macchina pubblica, soprattutto in ambiti dove questa è più debole. Non sono concetti particolarmente originali, ma purtroppo quasi mai sono stati attuati o vengono applicati. Prevale quasi sempre l’approccio ideologico, con la conseguenza di non risolvere mai i problemi. Non esiste quindi una sola ricetta, ma occorre valutare caso per caso, in base al contesto sociale ed economico, quale modello seguire: gestione in house del pubblico oppure rivolgersi al mercato. Non esistono forme giuridiche “magiche” valide a prescindere dal dato reale, perciò occorre diffidare da chi insiste ad esempio sul tema delle fondazioni a prescindere da qualsiasi contesto: la fondazione è un tipo di soluzione giuridica che presuppone alcuni elementi; se questi mancano, i problemi non si risolvono, ma semmai aumentano…
In che modo è possibile tutelare e valorizzare il paesaggio?
Partiamo da un presupposto: per valorizzare una qualsiasi cosa, dovrò prima tutelarla. La tutela è un prius logico, imprescindibile e irrinunciabile. Quando leggo o sento dire che la riforma dei musei statali avrebbe mortificato la tutela, mi viene da sorridere: un museo non è forse il primo avamposto per la tutela delle proprie collezioni? Oppure per tutelarle dà fastidio avere una struttura dedicata, come avviene in tutto il mondo, ed era meglio avere un sistema opaco in cui non era chiaro chi facesse cosa? Forse urta che da depositi i musei stiano diventano istituzioni operative, come in tutto il mondo?
Dunque, prima viene la tutela, poi il resto. Ecco, quando applichiamo questo modello – che funziona benissimo, o almeno dovrebbe, per i beni culturali – al paesaggio, allora ci rendiamo conto che occorre affinare qualcosa. Il paesaggio è dato dalla percezione del territorio, potenzialmente di tutto il territorio. Non è un quadro, né una statua. Non possiamo “congelarlo”. Il paesaggio vive anche di trasformazioni, purché siano sostenibili, ovviamente. Ecco allora che la tutela e la valorizzazione del paesaggio devono assumere contorni differenti rispetto ai beni culturali, nel senso di riconoscere con maggior attenzione che l’uso e la gestione del territorio sono elementi fondamentali da considerare.
Il sistema museale nazionale è la soluzione dei problemi dei musei statali?
È un inizio. Ma la strada è ancora molto lunga. I musei statali esistono, come istituzioni dotati di un direttore, un bilancio, un consiglio di amministrazione, un comitato scientifico, uno statuto, solamente dal 2014. Ci vuole ancora tempo perché si rafforzino e possano pienamente svolgere le proprie funzioni di educazione e ricerca, oltre a quelle di tutela delle proprie collezioni e di apertura al pubblico che già assolvono. Un museo deve essere un luogo vivo, “empowering”, dove i visitatori debbono poter o voler tornare. In quest’ottica, il sistema museale nazionale è strumento strategico per collegare le diverse istituzioni pubbliche, non solo statali, e private. In Italia ci sono migliaia di musei e siti culturali: è questa la nostra forza, il nostro tratto distintivo, e sarebbe folle non metterlo a sistema.
Qual è lo stato di salute degli archivi italiani?
Purtroppo non buono sotto diversi profili, ma con segni di ripresa. L’età media del personale – mi riferisco ora allo Stato – è alta, 56-57 anni. Le risorse sono ora di nuovo aumentate e tornate a livelli soddisfacenti, ma dopo un periodo buio. Le nuove assunzioni – circa 200 funzionari archivisti – aiuteranno molto. Ma occorre potenziare gli investimenti sulla parte digitale. L’Italia dovrebbe valorizzare maggiormente il collegamento tra archivi correnti e archivi storici, tra digitalizzazione e conservazione. Anche gli archivi sono istituti della cultura, luoghi vivi, che richiedono e meritano investimenti.