
a cura di Cinzia Bearzot, Franca Landucci e Giuseppe Zecchini
Vita e Pensiero
Il volume cerca «di sciogliere alcuni nodi relativi al nesso centro/periferie limitatamente all’ambito della storia antica dell’Occidente europeo affacciato sul Mediterraneo, di quel mondo ove per Chabod nacque la stessa “idea d’Europa”. La rappresentazione geopolitica (termine volutamente generico, che vorrebbe alludere anche a dimensioni geografico-economiche, commerciali, culturali e prima di tutto militari) dell’area del Mediterraneo fra età arcaica e tarda antichità è stata lungamente legata a clichés ancora diffusi: la semplificazione che contrappone il dinamismo di un’Europa del mare astrattamente intesa alla immobilità della terraferma asiatica e alla minaccia sempre risorgente a partire dalla Persia del Gran Re, e oltre; la visione di polarità specularmente contrapposte in forza di conflitti ritenuti sempiterni (Atene vs. Sparta, Roma vs. Cartagine, Roma vs. monarchie ellenistiche); la convinzione che ogni impresa che abbia comportato dinamismo, fin dalle più antiche di cui si ha notizia, vada riportata nel quadro di strategie colonizzatrici.
Come è avvenuto in ambiti contigui e paralleli delle scienze storiche (si pensi solo agli studi di Walter Pohl sulla genesi dei popoli barbari e sulle loro migrazioni fra Tarda Antichità e Alto Medioevo), l’irrompere del paradigma della mobilità nella storiografia antica dell’ultimo ventennio ha profondamente modificato l’impostazione degli studi su popoli e domini, su spazi e territori, rimettendo in questione certezze che parevano acquisite. Ripensare l’assetto del Mediterraneo nella prospettiva del “mobilities turn” non comporta peraltro l’affermarsi di visioni liquide e “deboli”.
Come spiega Maurizio Giangiulio riprendendo su basi nuove una intuizione di Santo Mazzarino, la mobilità va compresa alla luce di connessioni, che, talvolta remote, vanno postulate anche quando le evidenze letterarie e archeologiche sono esili. Ciò che si conosce, in termini di giacimenti minerari, lavorazioni dei metalli, coltivazioni agricole, scambi commerciali, traffici umani, permette di considerare il Mediterraneo in età arcaica e preclassica come un grande circuito commerciale articolato intorno ad alcuni empori. Intenti e strategie colonizzatori non basterebbero a dar ragione di un dinamismo che pare segno piuttosto di interazioni e interdipendenze realizzatesi su piani e per interessi differenti. La fluidità delle esperienze impedisce di riferire specifiche imprese economiche e commerciali a un soggetto piuttosto che a un altro, individuati su base presuntamente genetica. Come pure, alla luce del paradigma della mobilità risulta impossibile parlare per l’età arcaica di centri e di periferie. Solo dal III secolo la mobilità e la complessità dell’età arcaica e classica tendono a solidificarsi in sfere di dominio politico-territoriale ben individuabili e circoscritte.
Sullo sfondo di tale visione aperta e mossa del Mediterraneo vanno considerati anche gli altri contributi del volume, che danno conto di uno spazio policentrico e in continuo mutamento, caratterizzato sul piano politico-militare da alcune costanti di fondo, che tuttavia non possono essere considerate alla stregua di alleanze o inimicizie fissate una volta per tutte. Presenze etnicamente meglio definite cominciano a delinearsi abbastanza tardi, in forza anche di leggende di fondazione miranti vuoi a istituire o vagheggiare alleanze con altri popoli, vuoi a segnare esclusioni e antagonismi reciproci. Attraversato a partire dal VI secolo da correnti di instabilità, lo spazio compreso tra l’Adriatico e il Tirreno è conteso fra diversi soggetti la cui consistenza e le cui alleanze risultano ancora alquanto fluide: Etruschi, Roma, Cartagine, Siracusa, Atene, fino al prevalere di Roma, la cui affermazione sul piano militare è non casualmente parallela – fa notare Giulio Firpo – al superamento del dualismo patrizio-plebeo a partire dalla metà del IV secolo. Ciò consentì l’avvento di un ceto dirigente nuovo, capace di stipulare trattati e intese che comportarono il rapido e definitivo soffocamento delle pretese egemoniche di Siracusa sul Mezzogiorno.
Per quanto riguarda il mondo propriamente greco tra V e IV secolo, Cinzia Bearzot sottolinea come delicati e mutevoli equilibri geopolitici si producano sia sulla terra (iniziative di Sparta nello spazio balcanico) sia sul mare (egemonia di Atene nell’Egeo, per contrastare le pretese persiane sulle colonie greche lungo le coste dell’Asia minore). La guerra del Peloponneso segnò la fine di tale spartizione di zone di influenza, con il rimescolamento delle tradizionali alleanze, il sorgere di nuove egemonie e il progressivo accentuarsi dell’importanza dello scacchiere orientale, verso cui si protese infine senza remore la nuova dinastia macedone. Alessandro segna il culmine della potenza greca, e nel contempo la fine dell’ellenocentrismo, rileva Franca Landucci. L’impero che egli crea nell’arco di un decennio ha infatti il proprio baricentro in Oriente. Alessandro meditava di fissare a Babilonia il centro della sua sovranità. La morte improvvisa e prematura glielo impedì; ma lo sgretolarsi programmato del suo impero non restituì centralità alla Grecia, ché anzi i nuovi potentati dispiegarono il centro della loro potenza nella fascia territoriale compresa tra Siria ed Egitto.
Come rileva infine Giuseppe Zecchini, l’espansionismo romano fu quindi un fenomeno relativamente tardivo e in parte non programmato, che prese impulso effettivo a seguito della vittoria di Roma su Cartagine al termine della Seconda guerra punica. Essa decretò nitidamente l’inizio della egemonia romana nell’area del Mediterraneo centrale: un’egemonia imperniata sull’Italia, destinata a fungere da perno geopolitico e da centro stabile di iniziative politico-militari miranti ad inglobare nel dominio di Roma territori via via più estesi, inizialmente in Occidente (penisola iberica); poi con Pompeo verso Oriente; con Cesare e Augusto oltre le Alpi; con Caligola e Claudio fino alla Britannia a nord e alla Mauritania a sud; con Domiziano e Traiano alla Dacia e oltre il Danubio. L’impero progressivamente si ellenizza e si orientalizza; fino a che la decisione di Costantino di avviare la costruzione sul Bosforo di una nuova Roma segna un nuovo cominciamento per un impero che, pur sempre romano, spostando il proprio centro di comando a oriente, inevitabilmente si indebolisce a occidente. Una settantina di anni più tardi, il limes cessava di fungere da confine e spazio di cerniera. Popoli in movimento, dalle provenienze lontanamente mitologiche e dalle identità etniche oggi difficilmente definibili, irrompevano nello spazio che, già centro dell’ecumene, era infine divenuto una periferia fra altre.»