“«Epistola velut pars altera dialogi». La lingua delle Lettere volgari del Poliziano” di Enea Pezzini

Prof. Enea Pezzini, Lei è autore del libro «Epistola velut pars altera dialogi». La lingua delle Lettere volgari del Poliziano, pubblicato dalle Edizioni della Normale: quale importanza riveste, all’interno della sua vasta produzione, il carteggio volgare dell’umanista di Montepulciano?
«Epistola velut pars altera dialogi» La lingua delle Lettere volgari  del Poliziano, Enea PezziniIl carteggio volgare del Poliziano ha per noi oggi un’importanza sicuramente diversa da quella che ha avuto per il suo autore. Nel momento in cui l’umanista di Montepulciano inizia a preparare il proprio epistolario latino in vista della pubblicazione – che com’è noto avverrà solo postuma presso Aldo Manuzio nel 1498 (Omnia opera Angeli Politiani, et alia quædam lectu digna, quorum nomina in sequenti indice uidere licet, Venetiis: in ædibus Aldi Romani, mense Iulio 1498) –, le lettere volgari non sono incluse in questo progetto di riordino. L’esclusione del carteggio si spiega, probabilmente, in ragione del suo carattere pratico e contingente, in quanto le lettere riguardano, in generale, la richiesta di benefici ecclesiastici per sé, la richiesta di raccomandazioni per altri e questioni relative ai giovani figli di Lorenzo de’ Medici.

Per gli studiosi del Poliziano, il carteggio ha invece un’importanza considerevole in quanto non solo fornisce un’immagine più intima dell’autore e informa su molti episodi solo apparentemente minori della sua vita, ma è anche la sua sola raccolta di testi volgari autografa (fanno eccezione pochissime lettere). Anche grazie alla sua notevole estensione cronologica (1475-1494), il carteggio si rivela un documento preziosissimo per studiare le abitudini scrittorie dell’umanista di Montepulciano in quanto «la corrispondenza scritta – insegna Gianfranco Folena – ci permette come nessun’altra scrittura di penetrare nella vita privata e di misurare la parte del ‘pubblico’ che entra nella vita privata di ognuno, anche sub specie sermonis; di tracciare il bilancio, sempre variabile nel tempo e nelle diverse situazioni sociali e culturali, fra lingua privata e lingua pubblica; infine di cogliere per approssimazione il livello più vicino alla lingua della conversazione e alla Umgangssprache» (L’espressionismo epistolare di Paolo Giovio, ora in Gianfranco Folena, Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 201). Il carteggio volgare non offre solo un importante riscontro anche per le altre opere volgari polizianee, giunte tutte attraverso tradizione non d’autore (si pensi in particolare alle Stanze, alle Rime, alla Fabula d’Orfeo o ai Latini), ma permette anche di valutare le abitudini scrittorie dell’umanista di Montepulciano in rapporto ad altri scrittori a lui vicini – in particolare Lorenzo de’ Medici, Matteo Franco e Luigi Pulci.

Fino a pochi anni fa per poter leggere le lettere volgari del Poliziano bisognava ricorrere a un importante ma datato volume di Isidoro Del Lungo (Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite ed inedite di Angelo Ambrogini Poliziano raccolte e illustrate da Isidoro Del Lungo, Firenze, Barbèra, 1867). Lo studioso pubblicava buona parte del carteggio, ma la sua trascrizione presentava consistenti modernizzazioni grafiche (oltre a qualche errore) che non permettevano un’accurata valutazione della lingua dell’umanista di Montepulciano. Nel 2016, Elisa Curti ha ripubblicato l’intero carteggio volgare: 34 lettere sicuramente autografe, a cui si aggiungono due di cui non si dispone dell’originale ma dichiarate autografe dal Del Lungo e quattro non autografe (Angelo Poliziano, Lettere volgari, Introduzione, edizione critica e commento a cura di Elisa Curti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016). Trascritto secondo dei criteri conservativi (scelta particolarmente valida per i testi di umanisti in cui la grafia ha valore chiaramente culturale), il nuovo testo critico – che si è comunque ricollazionato sugli originali – costituisce la base per il commento linguistico che ho allestito.

Qual è l’immagine dell’autore che ne emerge?
Intima e privata. È sicuramente questa la prima impressione che si ha del Poliziano leggendo il suo piccolo carteggio volgare. Si prenda a tale proposito la celebre lettera scritta a Lucrezia Tornabuoni il 18 dicembre 1478 e si veda un passo come questo: «Io mi sto in casa, al fuoco, in zoccoli, et in palandrano, che vi parrei la malinconia se voi mi vedessi […]», oppure poco più oltre: «et quanto a me, vi prometto che io affogo nella accidia, in tanta solitudine mi truovo: dico solitudine perché Monsignore si rinchiude in camera accompagnato solo da pensieri, et sempre lo truovo addolorato, et impensierito per modo che mi rinfresca più la malinconia a esser con lui».

La lettura del carteggio fornisce ai lettori moderni anche altre immagini (forse persino un poco inattese) dell’umanista di Montepulciano. Rivolgendosi a suo cognato, Bernardino di Luca Tarugi, Poliziano si rivela un attento e severo amministratore dei propri beni («Vorreti preg‹are› che in queste cose tu n’andasse più dextramente, et sopratucto ho desiderio che noi facciamo una volta il conto insieme»); se nelle lettere scritte a Lorenzo de’ Medici il continuo ricorso a espressioni metaforiche e proverbiali mantiene la lingua all’interno di uno stile di conversazione per così dire ‘naturale’ e indica una familiarissima intesa con il destinatario («Siamo tutti allegri et facciamo buona cera», «non mi partirò mai più da Piero per andare drieto al sabbion», etc.), può succedere di trovare a un certo punto un repentino cambio di tono, come quando, non senza un certo imbarazzo, l’umanista si scusa con il suo signore per aver aperto una lettera non sua («Pregovi mi perdoniate se io ho errato, che è solo accaduto per poca consideratione»).

Sebbene le riflessioni sullo stile e l’eloquenza siano quasi sempre riservate ad altri tipi di testo, può capitare anche che l’autore ne affidi alcune alle proprie lettere volgari. È questo il caso dell’epistola inviata ad Alessandro Cortesi in cui Poliziano difende la propria traduzione di Erodiano dalle pesanti accuse linguistiche e stilistiche mossegli dall’antico amico («Forse interpretate essere colera che io mostri non mi fidare così de iudicio commune, et che io allego qualche auctorità in favore di quelle parole et figure che alchuni chiamano obsolete»).

Cosa ci dicono le lettere delle abitudini scrittorie di Angelo Poliziano?
Parte sicuramente di un carteggio più ampio (la cui entità è, almeno in parte, ricostruibile da una serie di informazioni metaepistolari in cui si accenna ad altre missive), le quaranta lettere del Poliziano ci informano innanzitutto sulla lingua fiorentina usata dal celebre umanista. Inoltre, estendendosi su quasi un ventennio (1475-1494), le lettere costituiscono un’ulteriore prova che l’autore non ha mai abbandonato l’uso del volgare durante la sua vita. Pare dunque necessario ridimensionare la nota svolta che attribuisce al periodo precedente il 1480 la figura di un Poliziano poeta lirico latino e volgare (Stanze, Orfeo, Rime, Odi ed Elegie latine), mentre al quindicennio successivo un Poliziano esclusivamente dedito a lavori di filologia, erudizione, riflessione metodologica e sulla poetica. Aderendo per il proprio aspetto fono-morfologico al fiorentino del tempo, il cosiddetto ‘fiorentino argenteo’ (così chiamato in contrapposizione a quello ‘aureo’ trecentesco, con un’implicita formulazione di giudizio, a partire da un importante studio di Arrigo Castellani: Italiano e fiorentino argenteo, ora in Id., Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1946-1976), vol. 1, Roma, Salerno, 1980, pp. 17-35), la prosa volgare del Poliziano riflette la fiducia dell’umanista verso questa nuova lingua dell’uso, ormai parecchio lontana dal fiorentino aureo trecentesco.

Le lettere ci forniscono importanti dettagli anche sui rapporti personali tra l’umanista di Montepulciano e i suoi corrispondenti (Lorenzo e Piero de’ Medici, Clarice Orsini, Lucrezia Tornabuoni, Alessandro Cortesi, Bernardo Ricci, Niccolò Michelozzi, Piero Dovizi e Bernardino di Luca Tarugi). Se le epistole scritte a Lorenzo de’ Medici mostrano una privatissima intesa con il Magnifico (complice il già ricordato uso di espressioni metaforiche e proverbiali note, probabilmente, solo ai due interlocutori), quelle inviate a Clarice Orsini – la moglie di Lorenzo con la quale Poliziano ha non pochi problemi – sono essenziale e fredde, quasi anodine (in esse ci si limita a parlare del Magnifico, della sua salute e di quello che sta facendo).

Tra i numerosi aspetti suggestivi di questo piccolo ma importante mazzetto di lettere vi è anche l’uso che si fa al suo interno del latino: alle volte il passaggio dal volgare fiorentino al latino sembra infatti rispondere a un’esigenza di ‘segretezza’ in quanto Poliziano affida le manifestazioni della sua insofferenza nei confronti di Clarice Orsini a brevi inserti latini che lei non ha modo di comprendere («lei a vederla non mostra altro segno di malata, nisi quod cubat, et quod paullo commotior est quam consuevit»); altre volte invece si ha l’impressione che il latino e il volgare costituiscano due opzioni sostanzialmente equivalenti – si veda il resoconto della ‘caccia libraria’ del Poliziano a Venezia fornito nell’ultima lettera scritta dall’umanista al Magnifico: «et mostrandoli io l’affectione vostra etcetera, mi rispose sempre lagrimando, et (ut visum est) de cuore, risolvendosi in questo: in te uno spem esse. Ostendit se nosse, quantum tibi debeat; siché fate quello ragionaste, ut favens ad maiora. Quello legato che torna da Roma et qui tecum locutus est Florentie non è punto a loro proposito, ut aiunt».

Cosa rivela lo studio linguistico delle lettere del Poliziano?
Condotto secondo una griglia di analisi ormai consolidata (grafia, fonetica, fenomeni generali, morfologia, sintassi, testualità e lessico) e in stretto rapporto con quella fornita in altri studi linguistici polizianei (cfr. Ghino Ghinassi, Il volgare letterario del Quattrocento e le “Stanze” del Poliziano, Firenze, Le Monnier, 1957 e Carlo Enrico Roggia, La materia e il lavoro. Studio linguistico sul Poliziano ‘minore’, premessa di Pier Vincenzo Mengaldo, Firenze, Accademia della Crusca, 2001), lo studio del carteggio mostra come Poliziano cerchi continuamente una medietà linguistica (da cui la definizione di ‘lingua dell’uso medio’, che non ha ovviamente nulla che fare con omonime etichette proposte negli ultimi cinquant’anni da vari studiosi), lontana dalle tendenze della prosa coeva che è spesso caratterizzata o da un dettato di tipo popolareggiante con strutture suggerite dall’uso e dall’oralità, o da un’oltranza sintattica di chiara matrice culta.

Come già ricordato, per il suo aspetto fono-morfologico la lingua delle lettere volgari aderisce in generale agli usi correnti del fiorentino del tempo, escludendo però diversi tratti caratterizzati da un valore demotico. In altri termini, facendo riferimento a quei nuovi connotati assunti dal fiorentino a partire dal tardo Trecento per i quali si è diffusa la fortunata etichetta di ‘fiorentino argenteo’, la prosa autografa del Poliziano, pur riflettendo nel suo assetto generale la fisionomia della lingua viva del Quattrocento (e illustrando così la fiducia dell’umanista di Montepulciano verso questa nuova lingua d’uso), presenta a livello linguistico oscillazioni ed esclusioni che lasciano intuire una grande attenzione a forme auree trecentesche ormai in declino o comunque insidiate da varianti innovative quattrocentesche (mostrando così anche la volontà da parte del Poliziano di mantenere degli elementi aulici, o non più presenti nell’uso corrente, all’interno della nuova lingua che si sta affermando a Firenze).

Le lettere autografe tendono a evitare i tratti linguistici connotati diastraticamente verso il basso; le esclusioni riguardano tutta una serie di aspetti fono-morfologici classificabili come demotici ed esclusi dalla lingua sorvegliata, in particolare da quella scritta. Oltre a non essere ammessi nelle Stanze, nei Latini e in buona parte delle Rime (che spesso guardano, sebbene in maniera riflessa, agli usi e ai modi popolari), molti di questi demotismi sono evitati anche negli epistolari della ‘brigata laurenziana’ (soprattutto nelle lettere di Lorenzo de’ Medici e di Luigi Pulci), ma risultano invece frequenti in testi maggiormente vicini all’oralità (quali per esempio le lettere di Alessandra Macinghi Strozzi o le Facezie del Piovano Arlotto). Anche nelle lettere volgari vi sono alcuni fenomeni fono-morfologici marcatamente popolari, ma questi non emergono mai dalla continuità dell’uso e dalla quantità delle occorrenze, ma appaiono come delle pointes isolate all’interno di un tessuto complessivamente ‘medio’. Sebbene questi tratti ricorrano sporadicamente in varie lettere, è notevole osservare che è forse nelle due epistole indirizzate al cognato Bernardino di Luca Tarugi che se ne trova il maggior numero. La loro presenza potrebbe spiegarsi in quanto queste epistole, le sole a non essere indirizzate ai membri della famiglia Medici (assieme a quella, di tutt’altro genere, inviata all’umanista Alessandro Cortesi), sono incentrate solo su vicende economiche familiari, il cui resoconto permette l’uso di una lingua più colloquiale e meno sorvegliata.

Infine, tra gli aspetti linguistici più rilevanti sta però il fatto che le lettere volgari sono continuamente intessute di locuzioni proverbiali, motti e metafore che risaltano fortemente su un tessuto linguistico complessivamente ‘medio’. Spesso ci si trova di fronte a termini o locuzioni che i principali dizionari storici attestano solo a partire dal Cinquecento («quello ti scrissi perché conosceva e mia polli», «hora tutti siamo rimasi basosi», etc.), o addirittura che risultano del tutto sconosciuti («non mi partirò mai più da Piero per andare drieto al sabbion», «quando questi miei scolari perdono, fanno un cenno a Ser Humido», etc.). Se da un lato il ‘parlar figurato’ del Poliziano è riconducibile a un gusto tutto fiorentino (tipico soprattutto del secondo Quattrocento), dall’altro l’estrema finezza con la quale l’umanista ricorre di continuo a metafore e proverbi lo rende per molti aspetti unico e inimitabile.

Enea Pezzini è attualmente Chargé de cours presso la Sezione di Italiano dell’Università di Losanna. Perfezionatosi alla Scuola Normale Superiore con una tesi sul poeta veneziano Andrea Michieli detto lo Strazzola, da alcuni mesi sta realizzando una nuova edizione critica e commentata dei Rabisch del pittore, trattatista e poeta milanese Giovanni Paolo Lomazzo. I suoi interessi si sviluppano perlopiù in ambito storico-letterario e filologico, nonché storico-linguistico e si occupa prevalentemente di autori rinascimentali.

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