
Quale funzione svolgeva la pratica epigrafica nella Roma antica?
Louis Robert definiva la società romana la «civilisation de l’épigraphie», la civiltà dell’epigrafia, proprio a indicare la pervasività della scrittura: se l’affermazione è da assumere con cautela, dal momento che è difficile immaginare il reale livello di alfabetizzazione del popolo, non si può negare che la diffusione del medium scrittorio fosse ampio e che intensa e capillare fosse la partecipazione alla scrittura esposta. Essa aveva una funzione prevalentemente pubblica: tutte le iscrizioni, anche le più modeste e intime, erano destinate alla comunità, all’attenzione dell’opinione pubblica cui erano rivolte. Le leggi, le disposizioni cittadine, le normative che regolavano il vivere comune, il ruolo dei magistrati locali, la vita e la memoria delle persone erano veicolate attraverso le epigrafi.
Quali convenzioni venivano adottate nella pratica epigrafica romana?
Lo scopo delle iscrizioni era la leggibilità: tutti/e dovevano poter leggere e comprendere un testo inciso, esposto su un monumento pubblico o funerario, su un edificio, su un muro. Per questa ragione, la scrittura impiegata era generalmente il maiuscolo e le parole erano separate le une dalle altre con segni di interpunzione; si ricorreva spesso ad abbreviazioni, che evidentemente chiunque sapeva sciogliere (per noi oggi non è così facile). La spiegazione è semplice: rappresentando le iscrizioni la principale forma di comunicazione di massa, le sigle dovevano aiutare la lettura rapida, suggerire immediatamente il significato del testo, far percepire subito la funzione dell’epigrafe; verosimilmente, a questa pratica non erano estranee ragioni economiche ed econometriche (ogni carattere occupava uno spazio e aveva un costo).
Qual era la tecnica di incisione delle iscrizioni romane?
Esistevano diverse tecniche di incisione e i risultati estetici erano condizionati dalla tipologia del supporto e dalla perizia del lapicida. Innanzitutto occorreva procedere con l’impaginazione che comportava la distribuzione armonica delle parole nello spazio disponibile, il calcolo delle distanze fra le righe e fra le parole: per fare questo si tracciava di solito una griglia o almeno dei binari entro cui posizionare le lettere; si poteva ricorrere a delle sagome, sorte di normografi che consentivano di tracciare lettere regolari. Si procedeva poi a incidere il testo, con l’aiuto di mazzuolo e scalpello, e si terminava con la colorazione del solco delle lettere, detta rubricatura, per renderle più leggibili. L’incisione delle lettere non era l’unica tecnica praticata: per le iscrizioni pubbliche di particolare prestigio, ad esempio, si usavano talvolta lettere mobili in metallo dorato, con risultati estetici notevoli; testi estemporanei come invettive e dichiarazioni d’amore erano, viceversa, incisi sui muri direttamente sull’intonaco, con punte improvvisate e in corsivo, mentre gli annunci degli spettacoli in teatro e in anfiteatro erano dipinti sui muri e poi cancellati.
In che modo l’epigrafia romana ci consente di conoscere in profondità la natura dell’uomo romano?
Le iscrizioni veicolavano, come si è detto, una molteplicità di messaggi, alcuni dei quali intimi. Le iscrizioni funerarie, ad esempio, non si limitavano a indicare i dati biografici del defunto ma ne ricordavano il mestiere e la carriera, spesso con l’orgoglio di chi ‘ce l’aveva fatta’ ma anche con il rimpianto per i traguardi falliti. Non erano rari consigli e ammonizioni ai vivi, che potevano ‘dialogare’ con le iscrizioni nelle necropoli collocate sempre lungo le strade: i mercanti, ad esempio, ricordavano la fatica di aver sempre dovuto guadagnare e mai perdere, le madri precocemente defunte il dolore per aver lasciato la famiglia, gli stranieri la soddisfazione di essere diventati cittadini romani, e così via. Le iscrizioni sacre esprimevano la devozione delle persone, non soltanto quella ufficiale dovuta alle divinità cittadine o a quelle predilette dagli imperatori di turno, ma anche e soprattutto ai numerosi dèi e dee che assistevano e proteggevano uomini e donne nei momenti importanti della loro vita. L’apporto della documentazione epigrafica alla conoscenza del sacro nel mondo romano è fondamentale: le scritture su templi ed edifici sacri, su altari, su tabelle e oggetti di offerta devozionale, su amuleti, esprimono i molti registri della spiritualità, sia essa pubblica o privata, ufficiale o popolare, romana o provinciale.
In che modo le iscrizioni romane rappresentavano uno strumento di governo?
A partire da Augusto, si rese sempre più necessario ottenere e conservare il consenso specialmente presso il popolo: la propaganda imperiale si affidò quindi a una programmata e mirata utilizzazione di tutti gli strumenti di promozione pubblica dell’imperatore. Accanto alle immagini (pittura, scultura e architettura di regime), alla letteratura e alla poesia celebrativa, alla numismatica, troviamo le epigrafi che erano in grado di celebrare le gesta dell’imperatore, i suoi valori di riferimento, le sue azioni, le sue leggi, la famiglia e le persone a lui più vicine. Parallelamente, esisteva un’epigrafia di individui e di comunità che omaggiavano l’imperatore: erano singoli cittadini, associazioni, città intere che mostravano in questo modo la loro lealtà o la loro riconoscenza. Si trattava di una sorta di scambio in certa misura paritario sul piano dell’interesse e della convenienza della relazione fra dedicatario e dedicanti, ma sul piano socio-politico la moltiplicazione di tali relazioni, testimoniata appunto dalle iscrizioni, finiva con il comporre un terreno di coesione e di aggregazione della società imperiale che aveva nell’imperatore il suo punto di riferimento. Fuori da Roma, si governavano le comunità anche con le iscrizioni: la propaganda politica passava attraverso i manifesti elettorali che erano dipinti sui muri, con i nomi dei candidati e dei sostenitori, e questo accadeva ogni anno, giacché era prassi sostituire ogni anno coloro che governavano le città. Sui muri di Pompei si alternano centinaia di manifesti elettorali che consentono di comprendere la vivacità della competizione elettorale, i profili dei candidati e le loro promesse, le famiglie più in vista e quelle che cadevano in disgrazia, le associazioni di sostenitori più potenti e così via. Allora come oggi una buona propaganda elettorale assicurava la vittoria dei candidati.
Quale posto occupano le donne nelle iscrizioni romane?
La fonte epigrafica occupa un posto importante nell’analisi delle donne romane perché consente di andare oltre lo stereotipo con cui sono generalmente descritte dalle altre fonti: la donna romana resta moglie e madre, i ruoli ai quali è inesorabilmente destinata, ma nelle iscrizioni emergono altri aspetti della sua vita. Se è vero che per lo più le vite delle donne si perdono nell’anonimato, non avendo esse un ruolo politico né attivo né passivo, è anche vero che a certi livelli era possibile per una donna avere, ed esibire nelle iscrizioni, forme di impegno sociale A partire dalla fine della repubblica, esse avevano la possibilità di amministrare personalmente i propri beni e di vegliare sulla loro conservazione, potevano comprare e vendere, ricevere e trasmettere in eredità: attraverso l’evergesia, cioè una forma di munificenza a favore dei concittadini, le donne più ricche potevano assumere un ruolo attivo nella società. Un patrimonio consistente era alla base della prassi di individuare tra le donne più abbienti quelle destinate a rivestire ruoli religiosi, spesso il sacerdozio dell’Augusta, cioè della moglie dell’imperatore regnante; così, conosciamo, attraverso le iscrizioni, le fondazioni istituite per via testamentaria, cioè i lasciti destinati a scopi perpetui, che riguardano donne (sia in veste di donatrici sia di destinatarie, in genere bambine). Nei livelli sociali più bassi, le donne lavoravano e attraverso le loro epigrafi, per lo più funerarie, veniamo a conoscenza dei tanti mestieri femminili: erano tessitrici, sarte, venditrici ambulanti, mediche, levatrici, commercianti, contadine, artigiane, e non di rado avevano piccole attività in proprio, di cui erano orgogliose.
Silvia Giorcelli Bersani insegna Storia romana, Epigrafia latina e Storia delle donne romane all’Università degli Studi di Torino. Tra le sue pubblicazioni: L’auctoritas degli antichi. Hannah Arendt tra Grecia e Roma (2010), Torino «capitale degli studi seri». Carteggio Theodor Mommsen-Carlo Promis (2014); L’impero in quota. I Romani e le Alpi (2019). Il volume Epigrafia e storia di Roma, pubblicato nel 2004, ha avuto 9 ristampe e una seconda edizione nel 2015 ed è adottato in molti corsi universitari in tutta Italia. Ha presieduto il Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo torinese.