
Quali figure ruotano attorno alla vicenda del ritrovamento?
C’è da sottolineare anzitutto che Michelangelo era arrivato a Roma a dicembre del 1505, dopo un breve soggiorno nella primavera precedente, durante il quale aveva ottenuto dal papa la commessa per il suo monumento funebre e un primo acconto per l’acquisto dei marmi a Carrara. Quindi certamente Michelangelo è una figura chiave in relazione al ritrovamento. Poi ci sono figure secondarie come quella di De Fredis e dei diversi potenziali acquirenti che fecero cospicue offerte per l’acquisto del complesso marmoreo. E naturalmente l’altra figura cardine è quella di papa Giulio II che se l’aggiudicò, perfezionando il contratto di acquisto nel marzo del 1506. Il rescritto in base al quale De Fredis avrebbe ceduto il Laocoonte in cambio della riscossione delle gabelle di porta San Giovanni fino a raggiungere la somma di 600 ducati fu firmato dal Cardinal Riario. Si tratta in questo caso di una personalità marginale nella vicenda ma piuttosto interessante perché era stato al centro di una precedente truffa che aveva visto Michelangelo come protagonista. Agli albori della sua carriera, infatti, Michelangelo nel 1496 aveva realizzato un Cupido dormiente successivamente interrato e venduto da un mercante d’arte come autentico manufatto antico allo stesso Cardinal Riario. Tuttavia il cardinale, grazie all’interessamento del suo sodale banchiere e mercante d’arte, Jacopo Galli, aveva scoperto l’inganno, restituito la statua e preteso il rimborso della somma sborsata. Ciò tuttavia non aveva affatto intaccato la fama nascente di Michelangelo che, al contrario, ottenne dopo questa ardita prova, la commissione del Bacco. Non si trattava in questo caso di un’opera in stile antico, ma di una rivisitazione dell’antico già fortemente pervasa dalla personalità di Michelangelo. Il Riario non apprezzò il Bacco, lo rifiutò. Fu invece Galli a tenerlo per sé.
Quali elementi supporterebbero la tesi della fattura michelangiolesca del Laocoonte?
La tesi fu avanzata ormai oltre quindici anni fa dalla ricercatrice della Columbia University Lynn Catterson (sua la prefazione al mio saggio). La Catterson partendo dall’analisi della corrispondenza fra marmi acquistati da Michelangelo all’epoca della commissione della Pietà vaticana ed opere effettivamente ascrivibili a quel periodo riscontrava un notevole surplus di blocchi marmorei. Di qui esaminava ulteriori elementi che potessero supportare una simile ipotesi. All’epoca questo “sussurro” di una tesi ardita fu stroncato sul nascere da numerosi accademici italiani. Fuori dal coro si posero le voci di Vittorio Sgarbi e Luciano Canfora. Quest’ultimo in particolare, pur senza esprimere una posizione favorevole o contraria all’ipotesi, ci tenne a sottolineare quanto “il falso sia sempre dietro l’angolo”. Nel mio saggio cerco non solo di indagare una ipotesi controcorrente, ma di ricostruire il complesso di intrecci simbolici e culturali che potrebbero essere alla base di una simile teoria. Perché prima ancora di domandarci in che modo si possa ascrivere a Michelangelo il Laocoonte dovremmo interrogarci sul perché possa aver scelto il tema del sacerdote troiano per un’opera che per molti versi rivoluziona la lettura della statuaria antica. Così ci si immerge in un viaggio nel pensiero di un grande spirito tormentato a cavallo fra il Quattrocento e il Cinquecento, e nella mentalità dell’epoca influenzata dal Neoplatonismo, dall’Ermetismo, da una visione dell’uomo e dell’arte rivoluzionaria rispetto al medioevo che tramonta definitivamente. È pertanto nell’intreccio simbolico del Laocoonte che possono celarsi molti più indizi della paternità michelangiolesca dell’opera. Naturalmente la ricostruzione della vita del Buonarroti nei mesi immediatamente successivi alla scoperta del Laocoonte getta nuova luce su un episodio, la fuga di Michelangelo da Roma nell’aprile del 1506, che egli stesso in una lettera a Giuliano da Sangallo riconduceva ad una ragione di cui non voleva scrivere e che tuttavia gli faceva pensare che “s’i’ stavo a Roma fussi facta prima la sepultura mia che quella del Papa”. Con tutta probabilità l’inganno era stato svelato ancora una volta ma né Michelangelo poteva confessarlo né tantomeno il Papa ammetterlo. Il compromesso tacito fra i due fu, dopo la fuga e la successiva riconciliazione, la sfida della Sistina…
Cosa, del Laocoonte, non fu trovato sotto la vigna del de Fredis?
È stato singolare ritrovare in alcuni racconti apocrifi del ‘600 della vicenda del Cupido dormiente il riferimento al braccio mancante dello stesso amorino. Un braccio che secondo tale tradizione costituiva un symbolon: Michelangelo lo aveva staccato e preservato per poi dimostrare la paternità dell’opera facendolo ricomparire e mostrando quanto perfettamente combaciasse all’opera. Allo stesso modo il grande rompicapo del Laocoonte – che per inciso ci è giunto con diverse minori mutilazioni – è rimasto nei secoli quello del suo braccio destro. Al braccio destro e alla sua posizione sono peraltro connesse le diverse speculazioni estetiche sul movimento del capo di Laocoonte, sulla sua espressione di dolore, sulla posizione del serpente che si attorce attorno al suo corpo. Ebbene il braccio originale, o almeno quello che unanimemente è ritenuto il braccio originale, fu ritrovato nella bottega di un lapicida romano dal mercante d’arte di origini ebraiche Ludwig Pollak nel 1903. Tuttavia solo con il restauro degli anni ’50 fu ricomposto sulla scultura. Dove era rimasto per ben quattro secoli? Sepolto e riemerso accidentalmente durante qualche scavo o sapientemente custodito da qualche collezionista, quindi disperso e confuso con un leggendario “braccio di Michelangelo” del quale pure riferisce la tradizione? E poi che dire dell’ulteriore mistero che si intreccia a quello del legame fra il Laocoonte e Michelangelo? Nell’appendice del saggio vengono infatti riprodotte per la prima volta le bozze di stampa di un breve libretto del bibliotecario romano Costantino Maes che nel 1904 (un anno dopo l’acquisto del braccio Pollak) ricostruiva tutte le testimonianze relative ad un altro Laocoonte, forse ancora sepolto sotto la basilica di Santa Pudenziana a Roma. Ne parlava il pittore romano Gaspare Celio in una sua opera pubblicata nel 1638 a Napoli. Il Celio riferiva di aver posseduto anche due frammenti di questo Laocoonte – veramente antico – scoperto sotto l’abside di Santa Pudenziana intorno al 1586. Un mistero quest’ultimo ancora irrisolto…
Francesco Colafemmina, classicista e saggista, è autore di diverse opere e traduzioni fra le quali ricordiamo: Dialoghi con un Persiano di Manuele II Paleologo (Rubbettino 2007), Il matrimonio nella Grecia Classica (Settecolori 2011), La democrazia di Atene (Passaggio al Bosco 2020).