
In secondo luogo, Sereni ci ha lasciato il senso della responsabilità civile. Vista la sua elevata provenienza sociale e le sue incredibili capacità, egli avrebbe potuto assicurarsi una vita agiata e di elevato benessere. Invece, fin da giovane, egli concepisce la propria vita al servizio di una causa di riscatto dei più disagiati: prima sotto il segno del sionismo e della costruzione di una nuova comunità ebraica in Palestina, poi nella scelta irreversibile per il marxismo. Il suo impegno politico – ricordiamolo, pagato con cinque anni di carcere, con l’esilio, poi ancora con invalidanti torture – nasce da questo senso di dovere e di responsabilità. Sereni non aveva il fiuto politico (e l’astuzia) di Togliatti o di De Gasperi, ma aveva questo forte senso della responsabilità.
Oggi qualcuno avrebbe buon gioco a definirlo un uomo della “borghesia rossa” o un membro di un’élite, contrapposta al popolo. Niente di più sbagliato e fuorviante. Sereni, come tanti altri (dei suoi tempi o anche di oggi) ci insegna che la parte più illuminata e generosa della borghesia può (deve?) offrire le proprie risorse in vista di una maggiore giustizia sociale per tutti.
Infine, Sereni ci ha lasciato un’importante eredità culturale e intellettuale. La riassumerei nella sua indicazione che ogni disciplina non va studiata isolatamente, ma va posto in dialogo fecondo con le altre discipline. Oggi si parla molto di “interdisciplinarietà”. Giustamente! Ebbene, Sereni, l’interdisciplinarietà la praticava regolarmente, da solo, e in modo alquanto efficace.
Emilio Sereni è stato una singolare figura di politico, antifascista e resistente, dirigente del Partito comunista, ministro e parlamentare nonché intellettuale di razza: in quali diversi ambiti spaziavano i suoi interessi?
Ricordiamo rapidamente le principali tappe della sua carriera politica dopo la Liberazione: nel 1945 membro della Consulta Nazionale; nel 1946 eletto all’Assemblea Costituente; nel 1946-1947 ministro nel II e nel III governo De Gasperi (prima all’Assistenza post-bellica, poi ai Lavori Pubblici); dal 1948 al 1953 senatore di diritto; dal 1953 al 1963 senatore e dal 1963 al 1972 deputato, ovviamente sempre per il PCI.
Nel partito fu per decenni membro della Direzione, oltre che capo della Commissione Culturale del partito (1948-1951), responsabile delle iniziative per la pace fino al 1955 e poi presidente dell’Alleanza nazionale dei contadini fino al 1969.
Questo per citare soltanto gli impegni principali. Sereni, dunque, dovette occuparsi dei più disparati temi di volta in volta all’ordine del giorno. Seguì i grandi temi della battaglia politica, ma in particolare si soffermò sulla politica estera, sulla politica economica e sulla politica agricola, nelle sue varie declinazioni.
Tra i suoi lasciti, vi è una cospicua raccolta libraria composta da oltre 22.000 volumi: cosa racconta di lui la sua biblioteca?
Ecco qui un’altra eredità lasciataci da Sereni: quella di tenere sempre connesse l’azione politica e la ricerca intellettuale. Certo, si tratta di un esempio difficilmente imitabile. Solo lui possedeva una cultura enorme in numerosi campi del sapere e solo lui era capace di mettersi a studiare i più disparati argomenti sfruttando ogni possibile ritaglio di tempo. Abbiamo le testimonianze di suoi compagni di partito allibiti nel vederlo scrivere brani di un saggio scientifico pochi minuti prima di tenere un comizio politico. Oppure, leggendo le sue agende personali, scopriamo – siamo nel 1959 – che sfrutta una sosta forzata nell’aeroporto di Zurigo per fare esercizi con regolo calcolatore. Altre testimonianze – riferite al periodo trascorso in carcere (1930-1935) – ci descrivono un Sereni che riesce a leggere anche due o tre libri al giorno. E il bello è che si ricordava poi tutto quello che aveva letto tanto rapidamente!
La sua biblioteca – custodita presso l’Istituto Cervi a Gattatico (Reggio Emilia) – rispecchia questo suo carattere poliedrico. Troviamo di tutto: testi letterari, rarità bibliografiche, testi di economia, di dottrina marxista, di filosofia, di scienze agrarie, ma anche sui costumi e i canti popolari, sull’alimentazione, il paesaggio e le sue trasformazioni, ecc.
Soprattutto colpisce la presenza di testi nelle più diverse lingue, antiche e moderne. È difficile calcolare quante lingue egli sapesse leggere e parlare: non solo il greco e il latino, l’ebraico e l’arabo, ma anche altre lingue del passato; e poi ancora l’inglese, il francese, il russo, lo spagnolo, l’ungherese, il cinese, il giapponese e ancora lingue slave e lingue asiatiche… Qualcuno sospettava che bluffasse: ma, messo alla prova, Sereni non sbagliava. Era in grado di spiegare a Togliatti a quale dialetto cinese andasse riportato un testo, oppure di tenere un discorso in giapponese a Hiroshima. Ovviamente con i compagni sovietici chiacchierava e discuteva in russo.
Da ultimo: la curiosità intellettuale lo accompagnò sino alla fine dei suoi giorni. Come direttore della rivista «Critica marxista», negli anni Sessanta volle interessarsi anche delle trasformazioni nelle forme della comunicazione e dei primi passi dell’informatica.
Ovviamente non dobbiamo dimenticare che il suo contributo scientifico più importante risiede nella celebre Storia del paesaggio agrario italiano. Questo testo è stato profondamente innovativo e continua a esserlo, tanto da essere usato nelle università e da ispirare ricerche e convegni, pur se la sua prima edizione risale al 1961.
Le questioni agrarie furono al centro dell’attività di Emilio Sereni: qual era il suo pensiero sul tema e come si sviluppò la sua attività a favore del mondo contadino?
Le questioni agrarie appassionano Sereni fin da giovane. Egli decide di frequentare l’Istituto superiore di agraria a Portici, dove si laurea con una tesi su La colonizzazione agricola ebraica in Palestina. Siamo ancora nella fase nella quale egli pensa di andare a lavorare proprio in Palestina e lì costruire una società nuova e giusta. Negli anni del fascismo, Sereni continua a studiare le questioni agrarie, questa volta riferendosi alle campagne italiane, soprattutto nel Mezzogiorno, per mettere in luce le forme di sfruttamento esistenti, anche in connessione con il grande capitale finanziario e la grande proprietà terriera. Maturano in questo periodo alcuni dei libri che pubblicherà dopo il 1945, a cominciare da La questione agraria nella rinascita nazionale italiana (la cui prima edizione è del 1946).
Anche in questo campo, il tratto fondamentale è dato dalla connessione che Sereni tiene viva tra lo studio e l’azione politica. Il suo impegno diretto si fonda sul continuo approfondimento di ciò che la storia, l’archeologia, la geografia, le tecniche produttive, ecc. possono offrire. Soprattutto, egli cerca in continuazione di interrogarsi sulle trasformazioni in atto, specialmente nel corso degli anni Cinquanta, quando – ricordiamolo – viene pure posto a capo dell’Alleanza dei Contadini.
Sereni era convinto che tanto la questione meridionale quanto la questione contadina (in larga misura sovrapponibili tra loro) fossero le due principali questioni nazionali. In questa logica, perciò, bisognava fare i conti sia con la dottrina marxista-leninista, volta a dare la preminenza alla questione operaia, sia con la situazione reale dell’Italia. C’era da trovare la strategia giusta per opporsi alla forza dilagante della DC tra i coltivatori diretti. All’VIII congresso del PCI, nel 1956, Sereni stupì non poco sostenendo che la proprietà della terra poteva restare nelle mani di chi la lavorava e che ciò avrebbe rappresentato comunque la base per la costruzione del socialismo in Italia. Era il superamento della concezione rigida del collettivismo e l’apertura alle istanze di tanti coltivatori e piccoli produttori.
Come si articolò il rapporto tra Emilio Sereni e il PCI?
Sereni era approdato al Partito Comunista, nei suoi anni giovanili, non per una conoscenza diretta, ma per uno studio dei testi. Quindi il suo fu anzitutto un rapporto intellettuale, basato sui libri. Gli anni del carcere lo fecero conoscere ai compagni più anziani, così come gli anni dell’esilio in Francia lo inserirono perfettamente nei meccanismi del partito e nelle logiche cospirative. Non fu tutto facile. Negli anni più cupi della repressione stalinista anche Sereni finì nel mirino, fu sospettato, messo da parte, forse rischiò perfino la vita in occasione di un suo viaggio in URSS. La sua provenienza sociale e le sue estese parentele (anche russe, per via della moglie) erano motivo di diffidenza.
Nella Resistenza e dopo il ’45, il prestigio di Sereni non fu più in discussione. Egli era uno dei leader più rispettati del partito. Anche perché era forse l’unico che, sul piano intellettuale, poteva stare alla pari di Togliatti. Con lui, del resto, Sereni aveva un rapporto di reciproca stima e deferenza e Togliatti non disdegnava certo di chiedere a Sereni valutazioni e contributi di idee.
In talune circostanze, Sereni fu criticato dai suoi compagni ai vertici del partito. Gli si rimproverava di essere troppo unilaterale nei suoi impegni, perché egli metteva tutto il suo entusiasmo nella causa che in quel momento stava seguendo. Con il trascorrere del tempo, cominciò a dare fastidio anche il suo sostegno alla causa sovietica, talvolta più fideistico del necessario. In ogni caso, almeno fino a tutti gli anni Sessanta Sereni rimase un punto di riferimento e un dirigente rispettato. Non bisogna però dimenticare che tutto il suo impegno fu fortemente condizionato dai gravi problemi di salute che lo perseguitarono per tutta la vita.
Emilio Sereni fu instancabilmente attivo nella “lotta per la pace”: come si manifestò il suo impegno per la pace?
La “lotta per la pace” era la versione comunista dell’impegno contro una nuova guerra mondiale e contro il rischio di uno scontro nucleare. In quegli anni di guerra fredda, specie tra il 1947 e il 1953, in molti agitarono il problema della pace e del rifiuto della guerra. Lo fece la Chiesa cattolica, lo fecero i primi pionieri dell’obiezione di coscienza.
Su sollecitazione di Mosca, che era interessata a rinviare il più possibile nel tempo lo scontro militare, ritenuto inevitabile, con Washington, fu dato vita al cosiddetto movimento dei “partigiani della pace”. Si trattava di un’intensa e originale mobilitazione, a tutti i livelli, volta a condannare ogni politica bellicista (e qui si contestavano anzitutto gli Usa e l’Occidente). Il movimento, guidato da comunisti e socialisti, ebbe una dimensione mondiale e preoccupò non poco le autorità americane e italiane. Esso non poteva essere considerato un movimento “pacifista” in senso stretto, perché non rifiutava l’uso delle armi e della violenza rivoluzionaria, in omaggio alla dottrina marxista-leninista. Però ebbe un grande rilievo: riuscì a imporre all’attenzione generale il tema della pace e dei rischi della guerra nucleare; si rivolse con efficacia a milioni di persone, anche le più umili, anche nelle realtà più piccole; inventò forme originali di propaganda e di mobilitazione.
Sereni fu magna pars del movimento, che seguì anche a livello mondiale. Tra il 1948 e il 1955 egli fu costantemente in viaggio, per partecipare ai congressi mondiali per la pace, ma anche alle riunioni organizzative del comitato mondiale che sovrintendeva a tutto. Conobbe così non soltanto tutti i principali dirigenti comunisti del mondo, ma anche tutti quegli artisti e intellettuali che avevano scelto un tale campo di impegno. Sereni poté quindi discutere e lavorare anche con Picasso, Neruda, Jorge Amado, Joliot-Curie, Aragon, ecc., per non parlare degli italiani Guttuso, Quasimodo e tantissimi altri.
Anche in questo campo, dunque, la statura intellettuale e umana di Sereni ebbe modo di risaltare e di essere apprezzata.
Giorgio Vecchio. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università Cattolica di Milano nel 1973. Dal 1992 professore associato e dal 2001 professore ordinario presso l’Università di Parma. È titolare dei corsi di Storia Contemporanea e di Storia dell’Europa contemporanea.
È presidente del Comitato scientifico della Fondazione Don Primo Mazzolari (Bozzolo, Mantova), nonché del Comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi per la storia dell’agricoltura, dei movimenti contadini, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne (Gattatico, Reggio Emilia).
Tra le sue più recenti pubblicazioni: Lombardia, 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra (2005); Alcide de Gasperi. Dal Trentino all’esilio in patria, 1881-1943 (coautore, 2009); L’Italia del Vittorioso (2011); Un «Giusto fra le nazioni»: Odoardo Focherini (1907-1944). Dall’Azione Cattolica ai Lager nazisti (2012); Storia dell’Italia repubblicana 1946-2014 (2014, con P. Trionfini).
Ha curato anche l’edizione critica di E. Sereni, Diario 1946-1952 (2015), quella di P. Mazzolari, Diario. 5. 25 aprile 1945-31 dicembre 1950 (2015), nonché i volumi della Storia di Parma. VII. Il Novecento (2 tomi, 2017-2018).