Intervista a Emanuele Severino
di Nello Barile, professore associato di Sociologia dei media all’Università IULM di Milano
Intervistai Emanuele Severino nel 2013, in occasione dell’uscita di un mio lavoro molto insolito, Iperparmenide (Mimesis, 2013). Il libro era l’elaborazione della mia tesi di laurea, scritta parecchi anni prima e discussa con Alberto Abruzzese, in cui provavo ad applicare il modello dell’essere di Parmenide alle trasformazioni tecnologiche, culturali e comunicative della postmodernità. Avevo già incontrato Severino in un seminario sulla globalizzazione, organizzato a Roma da Giacomo Marramao, ma per la prima volta ebbi l’onore di confrontarmi dialetticamente con la profondità e la potenza del suo pensiero. Il mio libro, molto problematico dal punto di vista dei rispetto dei confini disciplinari (soprattutto dal punto di vista dei miei colleghi sociologi), fu invece accolto da Severino che lo citò dapprima in un articolo sul Corriere della Sera (Il mondo nasce da un rifiuto. Niente cambia, per l’eternità. Ogni cosa è destinata a tornare: è questa la fonte del sapere, 2 luglio 2013) e poi nel suo splendido libro La potenza dell’errare (Rizzoli, 2014).
Ripropongo su Letture.org l’intervista che, alla luce dei cambiamenti culturali odierni (si pensi a un film come Interstellar), è ancora radicalmente attuale.
Prof. Severino, se l’espansione della civiltà della tecnica ha determinato un drastico allontanamento dalla relazione autentica e originaria con l’Essere, alcuni studiosi del calibro di Edgar Morin e Michel Maffesoli hanno insistito sull’inversione di tale processo tramite le categorie di neoarcaismo, neotribalismo, neocomunitarismo, tecnomagia ecc. Reputa plausibile l’idea che il nichilismo occidentale, divorando se stesso, possa aprire l’orizzonte a un nuova riconciliazione tra la tecnica e l’Essere?
«Non so quanto la civiltà della tecnica operi una rimozione del senso originario dell’Essere, se per senso originario intendiamo quello greco, dove per ente, ossia ciò che è, ciò che ha l’Essere, s’intende ciò che oscilla tra il nulla e l’Essere. Allora la tecnica è l’enfatizzazione estrema di questa oscillazione, è l’inveramento estremo di questo movimento, nel senso che essa garantisce la capacità di trattare tutto come oscillante tra l’Essere e il niente. Per quanto riguarda la differenza tra vecchia e nuova tecnologia vorrei distinguere tra due epoche storiche fondamentali. Quella della “vecchia tecnica”, come la definisco nei miei scritti, precede gli ultimi 200 anni del pensiero filosofico. Essa si sviluppa in parallelo alla convinzione occidentale che esista una verità assoluta, incontrovertibile e definitiva che inscrive e subordina a sé l’oscillazione delle cose del mondo di cui parlavo prima, in un sol termine: il divenire. Allora l’essenza dell’intera civiltà e della cultura occidentale è questa persuasione. La filosofia è la persuasione che le cose divenienti – ovvero che nascono e che muoiono – siano inscritte e tutelate da un senso immutabile, divino, eterno del mondo. In questa situazione allora l’agire umano ha un limite invalicabile e inviolabile che è appunto il senso di eterno divenire del mondo. La vecchia tecnica è quella che deve tener conto di questa fede nell’esistenza d’un ordinamento definitivo del mondo. Negli ultimi due secoli – e direi al di qua dell’insegnamento di G. F. Hegel – si è sgretolato quel limite all’azione dell’uomo che era costituito dall’ordinamento divino e che era svelato da una verità considerata come incontrovertibile. Faccio riferimento a Hegel soprattutto perché ritengo pericoloso perdere di vista il concetto che il pensiero filosofico sia l’anima dell’intera civiltà, dell’intera cultura dell’Occidente e ormai dell’intero pianeta. Quando si parla della morte di Dio s’intende in altri termini lo svanimento del limite inviolabile oltre il quale l’agire umano non può andare. L’importanza decisiva della filosofia degli ultimi due secoli – qualora la si sappia capire, perché per lo più non la si sa capire – è la distruzione del limite e quindi una sorta di “autorizzazione a procedere” offerta all’agire dell’uomo attraverso quella forma suprema dell’agire che è la tecnica, affinché oltrepassi senza alcuna remora ogni ostacolo che si presenti sul suo cammino. Quindi la filosofia patteggia, autorizza, legittima la tecnica. Si tratta in altri termini di una manipolazione totale dell’Essere cosicché la tecnica diventa il sostituto del vecchio Dio. In ciò vedo più continuità che demarcazione tra la vecchia e la nuova tecnologia.»
Quanto è rilevante la differenza tra l’antica tecnologia analogica e quella digitale? È plausibile la visione tecno-utopica secondo cui la convergenza tra pensiero mistico, ecologico e cibernetico possa condurre l’uomo verso una nuova condizione di autenticità?
«Credo che sia difficile marcare una differenza così netta tra queste due tipologie di tecnica. In primo luogo perché l’informazione è essa stessa un “costruirsi”, una continua produzione di eventi. In secondo luogo perché l’informazione non distrugge l’operatività preinformatica ovvero il senso dell’agire antico dell’uomo. Pertanto, anche un mondo telematico e informatico conserva pur sempre le forme pratiche, tradizionali dell’azione. Anzi vedo nel cyberspazio la condizione per un’ulteriore avveramento della potenza della tecnica nelle sue molteplici applicazioni, ossia sul piano politico, religioso, economico ecc. Tutto ciò accade dal momento in cui c’è riconoscimento pubblico della potenza (quello che Hegel riferiva alla dialettica servo/padrone) o, detto in altri termini, non c’è potenza se non c’è una società che riconosce l’esistenza della potenza. Ora il riconoscimento della potenza è soprattutto dato dall’informazione, in quanto organizzata in quel terreno di conquista che io illustravo chiaramente venti anni fa quando scrivevo Destino della tecnica. Allora lo consideravo come uno spazio opposto a quello della libertà ma era pur sempre un terreno di conquista da parte delle forze più potenti che mettevano da parte quelle meno potenti. Se per la rete telematico-informatica vale lo stesso riconoscimento pubblico della potenza nella sua forma estrema, allora all’opposto degli autori che professano un probabile avvicinamento fra il tecnico e il divino, direi che c’è piuttosto una sostituzione ovvero un nuovo volto acquistato dal divino. Questo volto ora si presenta come volto tecnico, per questo amo dire “Dio è il primo tecnico, la tecnica è l’ultimo Dio”, ma non nel senso che potrebbe interessare ai nuovi mistici di internet. Direi piuttosto che già Dio è produttore, anche se poi intende arginare la produzione umana. Cioè Dio è il produttore, è il tecnico, è il demiurgo per eccellenza, mentre la tecnica non fa altro che ereditare questo carattere demiurgico. Quindi sì, c’è avvicinamento ma in senso diverso da quello indicato da una certa visione tecno-mistica.»
Come ha notato Reiner Schurmann: “La Dea pone l’Uno in opera. Separa gli usi che si possono fare degli opposti: 1) L’uso assurdo di ciò che è contraddittorio (contradictories), 2) l’uso a doppia testa (double-headed) dei contrari, 3) l’uso unitario dei contrari”. Mi chiedo quanto sia utile per gli abitanti di un mondo globalizzato, apprendere l’arte di “differire il tragico”?
«Il discorso di Schurmann inerisce solo marginalmente alla visione di Parmenide e lo dico sottolineando il punto di vista testuale. Lì per “differimento del tragico” s’intende l’illusorietà del divenire ovvero degli opposti che si urtano producendo il tragico. Se s’intende questo, ci si dimentica che il tragico è differito sulla base di una motivazione di cui, se ricordo bene, Schurmann non tiene conto, e cioè la contraddittorietà dell’esistenza dell’opposizione, cioè dell’esistenza del molteplice. Se differire il tragico vuol dire cancellare il molteplice, allora sì, c’è un differimento del tragico.
Quando Parmenide parla dei mortali adotta varie espressioni come ad esempio “gente dalla doppia testa”. Inoltre dice che la loro mente è “plagktos”, che normalmente si traduce con “sconvolto” o “errante”, ma che riferito alla mente dei mortali vuol dire innanzitutto “colpito”. Allora mi chiedo, la loro mente è colpita da cosa? Se ci si sofferma sul testo di Parmenide in modo più aperto di quello in cui, me lo lasci dire, si soffermano alcuni filosofi, ciò che colpisce la mente dei mortali è appunto la nascita e la morte: in altre parole il dolore del mondo. Allora qui il tragico sì che compare nella sua forma più irriducibile, ma nel senso in cui il tragico è presente ovunque nella tradizione occidentale. Perché incomincia la civiltà? Per difendersi dal dolore o dalla morte, che colpiscono l’uomo. L’uomo è plagktos, cioè colpito dal dolore e dalla morte. L’essenza del tragico ha sì a che vedere con i contrari ma innanzitutto ha a che vedere col dolore e con la morte rispetto ai quali l’uomo vuole difendersi. Allora, da questo punto di vista Parmenide anticipa uno dei luoghi fondamentali della cultura occidentale per cui il sapere, il vero sapere è la difesa dalla ferita inflitta all’uomo colpito. Egli anticipa la grande sentenza di Eschilo che nell’Inno deus sostiene la necessità di cacciare dalla mente con la verità il dolore che rende folli. Eschilo esprime il tragico in questo modo, cioè un rapporto essenziale con il dolore. In questo senso allora quella di Parmenide è una grande anticipazione che giunge a breve distanza temporale dall’altra. Questo ci consente però di riferirci al suo Poema come anticipatore del tema del tragico.»
Volendo riferire questo senso arcaico della paura al presente, alla condizione dell’uomo moderno o postmoderno, cosa potremmo aggiungere?
«Certo il dolore non ha bisogno di essere attualizzato perché è la costante dell’uomo. Dicevo prima che ogni forma di civiltà, ogni cultura è un tentativo di apportare rimedio a tale condizione. Ancora una volta Eschilo parla di “saldi rimedi contro il dolore”. Ora è certo che con lo sviluppo della storia il dolore si presenta in forme sempre diverse, però mantenendo un’essenza costante: sì muore Adamo ma muore anche l’ultimo dei contemporanei e il dolore di Adamo è un comune denominatore tra le diverse forme del dolore quindi, da questo punto di vista, non ha bisogno di essere attualizzato. Oggi il dolore, la forma attuale del dolore, è data dal fatto che la morte di Dio non ha lasciato tutti indifferenti e tranquilli. Lo stesso Nietzsche sottolineava questo punto dicendo che purtroppo “lo abbiamo ucciso noi”. È una forma del tragico, è l’assenza del Dio protettore che a un certo momento diventa oppressivo e allora si preferisce sbarazzarsi della protezione, ma così facendo ci si espone inermi all’inclemenza del cielo.»
Tra le declinazioni più pop del posthuman – ovvero la visione che assegna enorme valore alle modificazioni psicosomatiche indotte dalla tecnica – quella che penetra più capillarmente nella vita quotidiana è certamente la chirurgia plastica: quasi il tentativo di resistere all’incedere del tempo attraverso un iter di dolore.
«Dal mio punto di vista tutto questo crescerà ancora di più perché aderisca a uno dei precetti che ha contraddistinto la cultura cattolica ovvero che l’uomo è immagine di Dio. Dunque ciò è coerente con l’idea che la sua immagine si adegui a un modello che in passato è coinciso con la forma di quell’uomo esemplare che fu Gesù, ma che successivamente si è mondanizzato radicalmente. Oggi le possibilità di alterazione dell’uomo producibile in base alla potenza della tecnica sono molto superiori a quelle della chirurgia estetica. Nelle dimensioni del cyberspazio e del postumano, ad esempio, si va verso la costruzione di un uomo radicalmente nuovo, dove probabilmente la trasformazione quando la tecnica sarà progredita, non produrrà le sofferenze che attualmente produce. Però va anche tenuto presente il significato di questa volontà di eterizzarsi, anche perché, come dicevo prima, se Dio è morto, è morto anche il credo nella verità. Quando si afferma che “Dio è morto” bisogna tener presente che importa che muoia il vero Dio. Se il Dio che muore non è un vero Dio, ciò non ha rilievo ai fini della nostra esistenza. Ecco, a questo siamo giunti grazie alla filosofia degli ultimi due secoli: alla morte della verità. In tal modo la civiltà della tecnica che, come dicevo prima, è battezzata e benedetta dalla filosofia del nostro tempo, è in grado di proporre un rimedio. Potremmo quasi definirlo come una “eternizzazione ipotetica”. Tale rimedio non ha la forza della verità incontrovertibile che era offerta da Dio, ma dispone di una sua propria forza che spinge verso l’eternarsi dell’uomo. È un’ipotesi che Karl Popper definirebbe come falsificabile. Del resto la scienza stessa e la tecnica riconoscono il proprio carattere ipotetico, quindi è ipotetica anche la riuscita della volontà d’eternità che fu anticipata dall’idea del superuomo nietzscheiano. Nietzsche s’intende della tecnica molto più di vari contemporanei. Ma si tratta solo di una volontà d’eternità ipotetica e quindi tale da suscitare l’angoscia per la perdita di ciò che si crede di possedere: la vita allungata o addirittura eterna, ma eterna solo ipoteticamente.»
Quando Karl Popper chiama Albert Einestein il “nuovo Parmenide”, individua nella concezione relativistica una diversa idea di tempo che più recentemente è stata sviluppata dall’astrofisico Stephen Hawking tramite la categoria di “tempo immaginario”. In questo “tempo perpendicolare” a quello lineare della fisica moderna le cose non nascono e non periscono e l’universo sarebbe sempre esistito.
«Certo si tratta di un equivoco verso cui Popper va incontro quando parla di Einstein e Parmenide, perché si confonde il parmenidismo con l’esistenza di quell’ordinamento eterno che è proprio della tradizione occidentale ma che sovrasta il divenire e proprio perché lo sovrasta lo riconosce. Se definiamo la metafisica come la capacità di andare oltre la physis, ovvero oltre il divenire, scopriamo che il primo riconoscimento del divenire, la prima certificazione di validità del divenire, proviene proprio dal metafisico che nel suo tentativo di andare oltre il divenire stesso, alla ricerca dell’eterno. Il metafisico trova l’eterno partendo dal divenire e così facendo riconosce il divenire di cui l’eterno è il protettore supremo. Ne è, in un certo senso, il garante ontologico. Allora non basta essere metafisici per essere parmenidei perché Parmenide afferma, come dicevamo prima, non solo l’inesistenza del molteplice, ma anche l’inesistenza del divenire. Popper – e qui l’equivoco si prolungava anche nei confronti di Einstein – dice che tutti i fisici contemporanei sono parmenidei, confondendo appunto il parmenidismo con la metafisica. D’altronde Hawking ha dovuto recentemente modificare alcuni assunti della sua concezione, superando in un certo senso la sua vicinanza alla visione di Einstein. Dopo un lungo periodo speso a dimostrare l’inesistenza del “punto d’inizio”, ovvero della nascita dell’universo nel tempo, ha più recentemente pronunciato la frase “Il mondo è creato dal nulla”, sostenendo quindi che è tutt’altro che eterno! Ora si fa tanto baccano attorno a questa frase dato che è detta da un genio della fisica come S. Hawking, come se questo fosse rivoluzionario ma la filosofia lo dice la stessa cosa da duecento anni: che le cose vengono dal nulla, che non c’è un creatore. Quindi Hawking su questo punto si è allineato limitandosi ad affermare peraltro dogmaticamente che quello che un Gentile, un Nietzsche, un Leopardi sostengono in modo ancor più persuasivo. In questo passaggio individuerei un certo scollamento. Si tratta certamente di un passo avanti rispetto alla coerenza del nichilismo ma dire che “tutto è creato dal nulla”, che non c’è un creatore, ci consegna nelle mani di un nichilismo ancor più radicale di quello che dice “tutto è creato da Dio”, perché quel Dio non può esistere. Quindi per essere rigorosi all’interno del nichilismo bisogna dire “tutto è creato ma non c’è un creatore divino”. Ciò rappresenterebbe uno scollamento rispetto alla concezione di Einstein che è certamente un metafisico, non so quanto lo sia anche Stephen Hawking.»
Una riflessione conclusiva sull’attualità di Parmenide: quanto può essere utile l’approfondimento di tale pensiero per affrontare un’analisi critica su natura e destino della tecnica?
«Di solito mi si chiede di parlare di Parmenide a partire dal mio primo scritto sull’argomento: “Ritornare a Parmenide”, ma in quel saggio il “ritornare” non è un imperativo, è un infinito. Cosa vuol dire ritornare a Parmenide? Perché proprio in quel saggio, ahimè ormai di circa trenta anni fa, dicevo che sì Parmenide intuisce il sentiero del giorno, dove gli uomini non sono dalla ”doppia testa”, ma insieme ad esso inaugura la tradizione filosofica del nichilismo. Purtroppo nel dibattito pubblico la traccia di tale monito si è un po’ affievolita ma in quel saggio era palese l’intento di considerare proprio Parmenide come padre del nichilismo. Pertanto si può stabilire una convergenza tra Parmenide e la civiltà della tecnica. La sostanza del discorso parmenideo è che se esiste il mondo, cioè le molte cose del mondo, allora ognuna di queste non è l’Essere, ma se non è l’Essere è il nulla. Allora affermare l’essere delle cose è affermare l’essere del nulla. Se si afferma che il mondo esiste si afferma al contempo che il nulla è. Questo è l’assurdo. Dicendo ciò, d’altra parte, Parmenide afferma la nullità di tutte le cose e così facendo anticipa il nichilismo. Anzi direi che impostando tale ragionamento egli riesce a dare paternità al nichilismo e al suo opposto. In tal senso la sua figura è gigantesca…Io esorterei i critici a mettere da parte l’idea che la mia visione sia assimilabile a quella di quel grande Dio bifronte che è stato Parmenide. Recuperando l’idea del “parricidio”, compiuto da Platone nei confronti del suo “maestro” spirituale, penso che sia giusto proporre un nuovo parricidio. Questo perché quello platonico è stato un parricidio incompleto, “mancato” appunto, come già indicavo nel titolo di uno dei miei libri. Pertanto invito i contemporanei a non fallire questo nuovo parricidio. Ho sempre detto che la tecnica può essere intesa in due modi: 1) nel senso ingenuo, semplicistico, riduzionistico, militaristico con cui la tecnica è guardata dai tecnici e dagli scienziati; 2) nel modo autentico, adeguato, dove la tecnica sente la voce di quella filosofia degli ultimi due secoli che le dice “tu puoi avanzare all’infinito perché non ci sono limiti”. Allora una tecnica così ha un volto enormemente più alto e nobile che non la tecnica come assemblaggio di strumenti. Perché in questo trascendimento infinito di ogni situazione posseduta e conquistata, c’è del religioso. Spetta difatti alla religione la possibilità di vedere in ogni volto divino un idolo, di non accontentarsi, di andare oltre. Una tecnica di questo tipo non è la bieca tecnocrazia che si risolve in una serie di strategie di problem solving contingente. Essa prefigura una dimensione superiore e perviene a quel paradiso della tecnica che, come continuo a dire, è destinato a presentarsi come un inferno quando ci si rende conto che esso non dispone di verità. Lo stesso accade quando si è felici e si teme soprattutto di perdere la felicità. Questo per dire che il paradiso della tecnica non è l’ultimo tempo dell’uomo. Nel mio libro Oltrepassare voglio dimostrare che il valore della necessità testimonia l’esistenza del destino e rappresenta la confutazione più radicale del nichilismo. Io ritengo indispensabile che quel linguaggio divenga oggi il linguaggio dei popoli. Ecco, voglio immaginare un futuro in cui la civiltà della tecnica si appresterà a tramontare per lasciare il passo a un nuovo linguaggio dei popoli che sia capace di testimoniare il valore del destino.»