“Elogio delle tasse” di Francesco Pallante

Prof. Francesco Pallante, Lei è autore del libro Elogio delle tasse edito dalle Edizioni Gruppo Abele: un titolo apparentemente provocatorio e certamente controcorrente…
Elogio delle tasse, Francesco PallanteOriginariamente il libro avrebbe dovuto intitolarsi Viva le tasse: un’espressione che, essendo uno slogan, avrebbe in effetti potuto suonare un po’ provocatoria. Il riferimento all’«elogio» rimanda invece a un’argomentazione articolata, che si propone di prendere in esame un argomento e approfondirlo nei suoi diversi profili.

Ciò detto, è indubbio che, oggi, associare un concetto positivo alla parola «tasse» va controcorrente rispetto al senso comune. Non a caso, il libro si apre osservando quanto numerose ed eterogenee siano le ricorrenze del binomio «morte e tasse», da molti considerate le due supreme sciagure della vita umana. Si tratta, però, di un binomio che contiene due errori. Primo: la morte non dipende da noi, le tasse sì: se riteniamo che siano ingiuste, possiamo intervenire per modificarle. Secondo: senza le tasse non ci sarebbe lo Stato, senza lo Stato non ci sarebbero i diritti, senza i diritti ciascuno di noi sarebbe in balìa dell’ambiente naturale e umano che ci circonda. Dunque: senza le tasse, la morte sarebbe un’ipotesi più concreta. La verità è che le tasse si legano non alla morte, ma alla vita e, in un sistema democratico, alla vita libera.

Quale fondamentale funzione democratica svolgono le tasse?
Nello Stato democratico le tasse svolgono due funzioni fondamentali, tra di loro strettamente collegate.

La prima funzione, come dicevo, è rendere possibile l’attuazione, in concreto, dei diritti costituzionali. Noi siamo abituati a distinguere i diritti di libertà, che richiedono allo Stato di non fare, lasciando liberi i cittadini di decidere come comportarsi (per esempio, la libertà di circolazione è soddisfatta se lo Stato non ci impedisce di circolare), dai diritti sociali, che richiedono allo Stato di fare affinché i cittadini possano goderne (per esempio, il diritto alla salute è soddisfatto se lo Stato costruisce gli ospedali, assume medici e infermieri, acquista le attrezzature). In realtà, si tratta di una distinzione errata. Anche la libertà di circolazione implica che lo Stato faccia, e molto: costruire le strade, operare la manutenzione ordinaria e straordinaria, apporre la segnaletica orizzontale e verticale, predisporre un sistema di illuminazione notturna, adottare leggi che regolino la circolazione, controllare che le leggi siano rispettate, sanzionare i trasgressori e via dicendo. Tutto questo insieme di attività costa, allo stesso modo in cui costa costruire gli ospedali, assumere medici e infermieri, acquistare le attrezzature sanitarie, ecc. La realtà è che tutti i diritti costano e, poiché sono le tasse a consentire allo Stato di pagare il costo dei diritti, senza le tasse tutti i diritti, anche quelli di libertà, rimarrebbero mere proclamazioni sulla carta.

La seconda funzione è rendere meno diseguale la società, secondo il modello tracciato dall’art. 3, co. 2, Cost. che proclama il principio di uguaglianza in senso sostanziale. I costituenti erano consapevoli delle differenze sociali e sapevano che trattare nello stesso modo i diversi, secondo quel che prescrive il principio di uguaglianza in senso formale, non è giustizia, ma ingiustizia. Giustizia è trattare in modo uguale gli uguali e in modo diverso i diversi. Per questo previdero che le risorse attraverso cui dare concreta attuazione ai diritti venissero raccolte secondo il principio di progressività (art. 53 Cost.), che impone a chi ha di più di pagare una percentuale maggiore di imposte. Per esempio, chi ha 100 verserà al fisco il 20% dei propri averi; chi ha 200 verserà il 30%; e così via. Luigi Einaudi, il padre del liberalismo italiano, spiegava la fondatezza di questo principio attraverso un semplice esempio: con le stesse 10 lire il povero mette in tavola un piatto di minestra, il ricco compra una poltrona a teatro. Nutrire il fisico (il piatto di minestra) è diverso dal nutrire lo spirito (la poltrona a teatro): quantomeno perché il secondo nutrimento non può prescindere dal primo, mentre non è vero il contrario. Dunque, a chi non ha problemi a procurarsi il pane l’erario può richiedere un sacrificio maggiore e, al crescere del reddito o del patrimonio, domandare una più elevata percentuale di risorse.

Il risultato congiunto di queste due funzioni – raccogliere secondo progressività il denaro attraverso cui dare attuazione ai diritti – è che tutti possono realmente godere dei diritti proclamati dalla Carta fondamentale, anche chi, altrimenti, non potrebbe far fronte ai bisogni sottostanti procurandosi sul mercato i servizi atti a soddisfarli. Tutti ricevono allo stesso modo (uguaglianza formale) ciò che hanno contribuito a costruire in modo diverso (uguaglianza sostanziale).

Eliminare le tasse è dunque una buona idea?
Alla luce di quanto appena detto, certamente no. Proviamo a immaginare una collettività umana senza tasse. Sarebbe – lo abbiamo visto – una collettività senza Stato e senza diritti. Gli esseri umani dovrebbero comprare tutto ciò di cui hanno bisogno sul mercato. Tutto: scuola, salute, previdenza, protezione, giustizia, …; persino il diritto di circolare: senza Stato, anche le strade sarebbero private e per accedervi bisognerebbe pagare chi le ha costruite e le gestisce. I teorici più estremi del libertarismo anti-statalista, come lo statunitense Murray Rothbard, teorizzano la compravendibilità finanche dei bambini: poiché, nella loro visione, il prezzo monetario è il risvolto numerico del valore attribuito alle cose, istituire un mercato delle adozioni assicurerebbe ai bambini di venire affidati a chi più tiene a loro. Naturalmente, in un mondo del genere, nessuno potrebbe pretendere nulla da nessuno. Se non sei in grado di badare a te stesso e ti ritrovi in difficoltà, non hai diritti da rivendicare: nei casi di estrema difficoltà, o sei così fortunato da trovare un benefattore che, per suo proprio moto caritatevole, ti salva, oppure, molto semplicemente, muori. E senza poter incolpare nessun altro che te stesso. È la più piena – e feroce – realizzazione del darwinismo sociale.

Si può aggiungere, peraltro, che non vi è alcuna certezza che l’assenza dello Stato dia realmente vita al mondo dei commerci di tutti con tutti immaginato da Rothbard. Sembra, al contrario, più facile che l’alternativa allo Stato sia la guerra di tutti contro tutti teorizzata da Thomas Hobbes. Basti guardare a cosa succede appena al di là delle nostre coste, in Libia. Il vuoto un tempo occupato dallo Stato distrutto dalla Nato non è risultato colmato dal mercato, ma dalla guerra tra bande in cui si è polverizzata la società libica. Si tratta di un esito ancora più indesiderabile di quanto lo sia quello rothbardiano, ma a questo accomunato dalla circostanza di esporre chi lo subisce alla concreta prospettiva della morte.

Siamo sempre lì: le tasse sono lo Stato, lo Stato è i diritti, i diritti sono la vita. Senza le tasse, a stagliarsi concretamente all’orizzonte è la prospettiva della morte.

Quali sono i rischi insiti nella flat tax?
Flat tax significa, letteralmente, tassa piatta. Vale a dire, tassa costruita in modo tale che la percentuale di quel che bisogna versare all’erario non cresce al crescere del valore del bene tassato, ma rimane sempre la stessa. Anziché essere ispirata alla progressività, la flat tax è ispirata alla proporzionalità: che uno abbia, 100, 200 o 100.000 non importa, paga sempre la stessa percentuale in tasse. È quel che già oggi accade in molti casi: quando andiamo a comprare il pane, per fare un facile esempio, paghiamo tutti l’imposta sul valore aggiunto (Iva) nella misura del 4%, a prescindere dal nostro reddito e dal nostro patrimonio. In questo caso è, evidentemente, una questione di semplicità: se il panettiere, prima di battere lo scontrino, dovesse verificare la dichiarazione dei redditi di tutti i clienti sarebbe il caos! Diverso sarebbe estendere questo modello – come vorrebbero i fautori della flat tax – anche all’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef), facendo pagare allo stesso modo (il 15% o il 25%, a seconda delle proposte) chi guadagna 1.000 euro al mese e chi ne guadagna 10.000 o più.

Se ciò accadesse, i rischi sarebbero essenzialmente tre. Anzitutto, aumentare l’ingiustizia sociale che già grava in maniera pesantissima sulla società italiana, riducendo la pressione fiscale non su chi oggi paga troppe tasse (i redditi bassi e medi), ma su chi ne paga poche (i redditi alti e, soprattutto, altissimi). In secondo luogo, ridurre il gettito fiscale complessivo per un ammontare che si stima in almeno 60 miliardi di euro all’anno: il che significa 60 miliardi in meno per attuare i diritti. Infine, poiché l’Irpef è, di fatto, l’unica imposta che assicura un po’ di progressività al sistema tributario italiano, rendere l’Irpef una flat tax significherebbe violare la Costituzione, e in particolare l’articolo 53 per il quale il sistema fiscale è «informato a criteri di progressività».

La patrimoniale viene spesso agitata come uno spauracchio dai demagoghi di turno: va realmente temuta?
L’imposta patrimoniale potrebbe essere oggi uno strumento utile per reintrodurre un minimo di giustizia fiscale dopo che, negli ultimi decenni, le politiche tributarie hanno operato un poderoso spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto.

Quando venne istituita l’Irpef, nel 1973, l’imposta era strutturata su 32 scaglioni, con l’aliquota più alta al 72% e la più bassa al 10%. Oggi, con gli scaglioni ridotti a cinque, l’aliquota più alta è scesa al 43%, la più bassa è salita al 23%. Quello che è accaduto è fin troppo chiaro: il peso fiscale è stato spostato dai ricchi ai poveri, operando la più clamorosa delle ingiustizie. L’effetto di queste politiche, unanimemente perseguite da tutti i governi degli ultimi decenni, di centrodestra e di centrosinistra, è che, secondo gli ultimi dati, i tre individui più ricchi d’Italia possiedono tanta ricchezza quanto il 10% più povero della popolazione. Da una parte, tre persone; dall’altra sei milioni: una polarizzazione della ricchezza spaventosa, visceralmente contraria al dettato costituzionale. Negli ultimi dieci anni i milionari sono più che triplicati, passando da 424.000 nel 2010 a 1.496.000 nel 2019; i miliardari sono quaranta. L’Italia è un Paese ricchissimo: all’ottavo posto nel mondo per ricchezza nazionale, con 11.360 miliardi di dollari. Eppure, poverissimo: quello che in termini assoluti, conta il maggior numero di poveri in Europa, il terzo in rapporto alla popolazione.

Giunta a tale livello, la polarizzazione della ricchezza produce effetti negativi sullo stesso sistema economico, al punto da aver indotto a prendere posizione l’Ocse e il Fondo monetario internazionale: entrambi per suggerire l’introduzione di un’adeguata imposizione patrimoniale. Non si tratta solamente della necessità di reperire risorse di cui abbiamo bisogno per il welfare e per l’enorme debito che dovremo ripagare. Il punto è che la società e il sistema economico sono bloccati, sclerotizzati da rendite di posizione inamovibili, strutturalmente chiusi all’apporto di forze fresche. Rimettere in circolazione le risorse, anche attraverso una patrimoniale, dovrebbe essere ineludibile non soltanto per chi è politicamente sensibile ai temi sociali, ma anche per chi è economicamente interessato alla dinamicità del sistema produttivo.

Naturalmente chi è contrario alla patrimoniale cercherà di terrorizzare i contribuenti facendoci sentire tutti minacciati dall’introduzione della nuova imposta. In realtà, un’imposta ben congegnata dovrebbe colpire solo chi ha patrimoni che ammontano a milioni di euro.

Se il problema non sono le tasse, cosa le rende così gravose?
La diffusa convinzione che le tasse siano troppo alte e che occorra ridurle è il frutto dell’egemonia culturale esercitata in materia fiscale dai detentori della ricchezza. Si tratta, però, di una convinzione subdola, nel contempo vera e falsa: perché se è vero che le tasse sono troppo alte, è falso che lo siano per tutti. In verità, come appena visto, per i più benestanti la pressione fiscale si è, negli ultimi decenni, alleggerita oltre ogni ragionevolezza e, se ciò è potuto accadere, è proprio perché il peso del sistema è stato spostato in misura oppressiva sulle classi sociali inferiori. Denunciare, indistintamente, la pressione fiscale come eccessiva ha esattamente questo scopo: mescolare i ricchi, la classe media e i poveri in un’unica categoria, quella del contribuente vessato, attribuendo valore generale a un problema particolare, in modo tale che anche chi non ne è colpito possa comunque approfittare della sua eventuale soluzione. Il problema, lo ribadisco, è che i redditi bassi e medi pagano troppo; ma se si abbassassero indistintamente le tasse, ne beneficerebbero anche i redditi alti, che pagano invece poco.

Per la gran parte dei contribuenti, il risultato di un abbassamento indiscriminato delle tasse sarebbe comunque negativo: perché se anche le tasse fossero ridotte, lo sarebbero tanto a loro, quanto ai più ricchi, facendo così venir meno le risorse necessarie all’attuazione dei diritti costituzionali. Ma, mentre i ricchi potrebbero comunque soddisfare i propri bisogni acquistando sul mercato i beni e i servizi loro necessari, per tutti gli altri diverrebbe complicatissimo, e in molti casi impossibile, far fronte all’insieme delle esigenze della vita: basti pensare ai costi elevatissimi delle prestazioni sanitarie.

Saper distinguere le posizioni dei singoli contribuenti, in questa materia, è fondamentale. Anche se in misura differente, tutti siamo soggetti all’imposizione fiscale e tutti possiamo, soggettivamente, nutrire motivi d’insoddisfazione. Formulare un giudizio politico sull’assetto del sistema tributario richiede, però, la capacità di considerarlo nel suo insieme, scriminando le rivendicazioni dettate da calcoli di egoismo individuale da quelle animate da aspirazioni di giustizia sociale.

Quali riforme sono dunque necessarie per una più equa ripartizione del loro carico?
I mali del sistema tributario sono ben noti: (a) un’enorme evasione fiscale (per un valore di oltre 100 miliardi all’anno), cui va aggiunta un’elusione ancora maggiore; (b) una giungla di esenzioni, detrazioni, agevolazioni, deduzioni, regimi sostitutivi ecc., che costa oltre 60 miliardi euro all’anno; (c) una pletora di tassazioni separate, quasi tutte proporzionali, che erode la base imponibile dell’Irpef per un valore di almeno 10 miliardi annui; (d) il rattrappimento della progressività fiscale, a tutto vantaggio dei contribuenti più ricchi, al punto che, secondo l’Ordine dei Commercialisti, di fatto le aliquote effettive sono ridotte a due; (e) l’assenza di una seria imposizione fiscale sui patrimoni e sulle successioni (queste ultime un vero e proprio tabù, che fanno dell’Italia la pecora nera d’Europa: basti pensare che l’aliquota più elevata dall’imposta di successione italiana è inferiore alla più bassa aliquota della corrispondente imposta tedesca); (f) la mancata revisione del catasto, di cui si parla da decenni senza che nulla mai effettivamente cambi; (g) la presenza di aliquote Iva eccessivamente alte sui beni di largo consumo, anziché sui beni di lusso. E si potrebbe continuare.

È evidente che, se non vogliamo aggiungere ulteriori ingiustizie a quelle già esistenti, le scelte sono obbligate: lotta all’evasione fiscale, drastica riduzione della normativa derogatoria, eliminazione delle tassazioni separate, ristrutturazione secondo progressività dell’imposizione su redditi, tassazione progressiva dei patrimoni e delle successioni, aggiornamento dei valori catastali degli immobili, rimodulazione dell’Iva a favore dei prodotti di largo consumo e a discapito dei beni di lusso.

Come si vede, quel che occorre è un ripensamento complessivo, che comprenda anche una semplificazione degli oneri gravanti sui contribuenti. Agire attraverso interventi settoriali è, oramai, impossibile, perché le singole rendite di posizione sono in grado di bloccare qualsiasi tentativo di riforma parziale. Bisogna che la politica trovi la forza di rivoluzionare l’intero sistema tributario con l’obiettivo della redistribuzione del carico fiscale: dai redditi e dai patrimoni bassi e medi a quelli alti; dal lavoro al capitale; dal prelievo indiretto a quello diretto; dalla tassazione reale a quella personale. E poi, magari, tornare a riflettere sull’opportunità che una società stabilisca il limite massimo oltre il quale l’arricchimento individuale non può spingersi: come, di fatto, accadeva negli Stati Uniti degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, quando l’aliquota marginale sui redditi più elevati raggiunse e superò il 90%.

Francesco Pallante è professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni Contro la democrazia diretta (Einaudi 2020) ed Elogio delle tasse (Edizioni Gruppo Abele 2021)

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